Di VLADIMIR D’AMORA *
resto del paso
Di solito, per lo più, non essere propensi indulgenti a certa letteratura critica.
Un tempo serviva a sapere insieme cosa pensare e cosa non pensare circa dati e temi e motivi.
Poi cambiare.
Quindi capire di doversi tematizzare: dirsi nel dirne.
Ma pure questo però, non basti.
Trovarsi così in una strana ingenua intransitività ermeneutica.
Allo schermo.
Ma pure questo, non basti.
Per intendere sapere fare la critica altrimenti.
Proprio altrove.
Soprattutto in una euristica non preliminare a.
In proemi alquanto atopici.
E Pasolini è stata una di queste atopie.
La lingua cioè.
Che come morta e una morte.
È declinabile certo per analogie e anomalie ma lascia resti che restano.
E cioè un io: dei me.
Ma un me alquanto spossato spostato spodestato se non però da localizzazioni schermate.
Cose di un così.
Perché una cosa che preme assaissimo e che deve trovarsi sempre male messa, è la cosa della immagine: anche l’immagine come una cosa.
In uno schermo: certo, esistono sia indirizzi di analisi, per così dire prospettive oramai consolidatesi, e assai pure vantaggiose da assumersi, come quelle relative al fatto che certamente la immagine si è emancipata dall’essere un mero involucro: e tra storici dell’arte anche recenti e non e tra professori di estetica, ciò può persino valere assodato come fossero, i critici, dei narratori.
Al punto che si può persino dire che sia stato recepito che tanto, di quello che oramai ci costituisce, si è inteso a sufficienza dipendere da una tale comprensione dell’immagine: una ovvietà!
E l’ovvietà ci costituirebbe epocalmente socio-culturalmente, eccetera e politicamente.
Proprio intorno a Pasolini, mettendosi anche a una lunga storia di edipo re.
E c’è chi sa oramai dirci quanto l’immagine sia costitutiva e proprio come immagine che si scarta dalla mera assunzione dell’immagine come rappresentazione e come figurazione e ripresentazione e fenomeno-di. E tuttavia.
Pasolini è una specie di ingombro e di schermo.
Proprio perché i termini di (tutto) ciò, in e per pasolini e via: per mezzo di e fuori da e oltre pasolini – si possono facilmente penetrare e persino abusare e tradire.
C’è una lettera di paso a moravia in cui gli dice albe’ se ti porto in sala di montaggio tu un negro che parla svedese t’accorgi che non è più lo stesso negro che parli, che so, come un borgataro.
E persino la sua idea per cui la poesia fa vedere (per) una mediatezza mentre l’immagine cinematicamente cinicamente strutturata montata… è la stessa realtà…
Ora, certo qui si può sempre dire, come per la lettura pasoliniana della apolidia di amelia rosselli, che paso generalizzi.
Si può certo dire che ha un tono didascalico ed è certo il dire che de martino e la collana viola einaudi ha letto sì come però proprio allora sanguineti e, che so, arbasino e persino asor rosa leggevano e traevano ammaestramenti subito spendibili e interpretati da un testo come quello di benjamin.
E certo uno può dire persino ancora oggi dopo deleuze e badiou che allora paso anche partecipava di un evento e a un evento, di e a una storia scottante e urgente e di e a una realtà non dilazionabile proprio perché realtà sommerse e sempre in emersione fantasmatica di reali lacaniani e tracce derridiane ante litteram.
Uno potrebbe, che so, dire che più o meno ci si trovava e si trovarono in quella situazione per cui uno può dire che la storia, negli anni trenta di novecento, risucchiata dai fascismi resisteva solo nei marxismi.
Queste cazzate.
Quando paso sta da biagi, che so, e dice che la televisione è potere per il semplice fatto che sta, diciamo, inquadrata la realtà – ecco che qui e allora e dunque il punto non è che il cinema ci fa vedere la stessa realtà con qualcosa che, platonicamente in una gerarchia ontologico-eidetica, è più vicino al dato bruto al fatto storico
al reale e alla realtà, eccetera.
Come se per paso il punto fosse l’urgenza di filtri sempre meno mediati.
Perché lui lo incalzerebbero le emersioni demartiniane del sacro e di una fine… Come volesse filtri, paso, a basso differenziale…
Perché, assumendo questa postura tipicamente giornalistica e rimandando a ulteriori discorsi… Una postura anzi accademica e scientifica… Come se ci fosse da dire che altrove ci sarebbe da fare un discorso assai ampio: ben altrimenti articolato…
paso sa e vuole (che) il(-)reale-sta-che-la-realtà-stessa-e-non-la-stessa-realtà…
Certo si indulga pure a cose come dionisiaco e sacro e sacrificio
fascismo e masochismo e corpo e messa in scena e immagine (di) movimento e immagine a tempo…
Ma il reale pasoliniano è l’insorgenza di questo (suo) reale – quasi (come) per e in caravaggio…
E che poi, anzi: non poi, l’insorgenza si riconosca per diffrazioni a codici, e però da paso così tanto circondati e circuiti quasi e circoscritti nella loro forza veritativa…, che questa insorgenza: questa ipseità noi possiamo riconoscergliela nella storia infame…, ecco questo meriterebbe…
Ma non sarebbe ancora questo, il nostro reale pasoliniano…
Perché, allora, non si in-tende a come longhianamente e pascolianamente i carracci gli siano stati, a paso, congeniali, e come lui si sia compiaciuto di zonaggi, cioè di costruzioni di zone di significato in cui i significanti sono sempre tutti giocati nella loro forza di trapanamento, di tramandamento e gentili.
Qui si può invitare al ballo certamente la vita sua come presupposta e da lui come esposta, cioè censurata, cioè spettacolarizzata: come presupposto vestito da e di una nudità foto-e-grafata-e-gravata-dalla-foto: come se la gentilezza (cfr. Contini su Dante) bilanciasse un suo, tipizzatissimo, dionisiaco.
Nella ricotta, mettiamo, la gentilezza: certo è la ieraticità della crocifissione che è pietosa, ma questa è una (messa nella) posa letteralmente… E certo che questo sacro, per così dire, gioca con l’apologo della ricotta del povero poverissimo dannatissimo stracci però vorace eccetera… Ma il reale di questa gentilezza è solo e soltanto quella del twist alla testa…
E qui certo, qui è un luogo, appunto sta la ricotta, che sta in un rogopag facendo da paradigmatico controcanto a un paradigma
a una messa in formato di collaborazione cinematica e fotografica…
Ma in paso gli incastri producono un resto sempre – e questo resto resta.
Cioè non si toglie mai nella esteriorità presupposta; ma neppure si gioca nella pura costruzione del montaggio intra inter meta semiotico
Questo resto è quello che noi dobbiamo pena il farne una specie di classico e paso non è un classico.
Questo resto? La sua insorgenza a orte.
Mani nella tasca è passeggiata paso e la passeggiata dice e cose dice su cose e su una cosa che non tace: batte: in questa insorgenza lui si lascia ri-prendere è duna dune paso il dire della architettura storia italia questo era è sarà il fascismo con e dopo paso
Ecce, questa nudità del fascismo, è il mathema-paso: e questa insorgenza è una costruzione certo, ma non nella artificialità pura.
La somma di paso, non è un classico: non un essere della fuga.
Ma paso questa insorgenza lascia si decanti, cioè alla fine che resti in un incanto che attraversa le figure di ogni demitizzazione e di ogni rimitologizzazione, e si decanti come una specie di volto certo montato dai visi tutti giocabili e etichettabili e etichettati riconosciuti: in una architettura di risposte tutte speciose anche e con costi precisissimi, ma questo volto vuole tenere una specie di uscita dal segreto e non di segreto.
Perché paso, che è poeta come regista come romanziere come giornalista, eccetera, e per noi come paso…, sa fare una cosa: sa finire e sa interrompere.
Ma non è (la sua) morte.
edipo re, medea. immaturi acerbi e non solo per un classicista: cui certo piacerebbe che l’aridità interiore del suo edipo si faccia paesaggio – e questo è Guido Paduano.
ma l’interesse-paso è un disagio certo.
Nella fine: nella fine aoristica e persino ermeneuticamente in-finita, di edipo e di medea il disagio è tutto paso.
E certo è il disagio dinanzi alla fumettistica trovata della ucronia
e degli anacronismi e che un critico dica che così paso ti scopre atene nera e eschilo in africa… – cazzate.
Ma è Ort e Orte.
Quello… Quello zonaggio… Quella costruzione del luogo, dell’aver luogo della insorgenza stessa – in cui lui deve farla finita, che so, coi cicli di miti e di immagine perché Lager è lo zonaggio la morte della immagine: qui a Ort e a Orte: chi mette a morte è sempre un portatore di significanti spesso fluttuanti – come callas-medea… o sono signa di piene verità tutte svelate? – di colluvie persino urlate persino speciose persino giocate in una interferenza molesta di vita che pretende e impone valore prima e oltre la sua immagine; ma il carnefice è un tutto di immagine che mette a morte chi sempre l’immagine non la vuole e non sa riceverla e produrla: chi l’immagine non può volerla e non sa che farsene se non per vestirserla di volta in volta – notte d’accattone nei pappa napoletani lontani dal pappa borgataro.
Nel lager.
Nella poesia.
Nella scrittura.
Fine della scena: fine della scena dell’immagine: fine leziosa: l’immagine che resta a me e di me con paso.
L’icasticità delle immagini della poesia, di ogni poesia di paso, di ogni fotopoesia a firma di paso – cazzate.