Di MASSIMO RECALCATI *
Una strana setta religiosa aveva fatto della sepoltura del corpo vivo e della sua lenta mummificazione l’apice inquietante della propria pratica ascetica. I suoi adepti si chiamavano miira e la loro esperienza si diffuse in particolare nel Giappone medioevale. Questo rituale mistico assunse i caratteri radicali di una sfida estrema alla morte. Solo dopo una lunga preparazione spirituale che implicava anni di isolamento e di meditazione, l’asceta affrontava la sua ultima prova, offrendo il proprio corpo al rito della sepoltura. Se al momento della riesumazione del corpo questo si trovava ancora integro, perfettamente conservato, incorrotto, nella stessa postura che aveva assunto al momento della sepoltura, allora esso poteva essere esposto pubblicamente diventando oggetto di culto e di venerazione da parte dei fedeli. Quando Callide nel Gorgia platonico rimproverava a Socrate di vivere come una pietra, imputando al suo ascetismo intellettuale l’insterilimento mortifero della vita, non poteva prevedere che il “farsi pietra”, il “rendersi simili ai morti”, avrebbe preso il carattere eccezionale di un’esperienza possibile: “diventare pietra”, “mummificarsi”, “rendersi simili ai morti”, privarsi – in un movimento di ascesi impassibile – di ogni attributo vitale, descrive infatti il cuore dell’esperienza dei miira. La vita ritirata, in completa solitudine, la pratica rigorosa e inflessibile del digiuno sino al rifiuto assoluto del cibo, la ricerca del corpo perfetto, incorrotto, la sfida nei confronti della morte, la realizzazione del controllo totale dello spirito sulla carne sino, una volta riesumato il cadavere del santo, alla sua esibizione e venerazione pubblica, costituiscono gli elementi esistenziali fondamentali di questa pratica ascetica, rispetto ai quali non può sfuggire la strana affinità con l’esperienza anoressica. Perché in effetti anche nell’anoressia – in un contesto discorsivo però assolutamente differente da quello dei miira – ciò che è in gioco è il tentativo di automummificazione del soggetto, il disegno ineffabile di rendere la vita morta in vita. Nondimeno, diversamente dall’anoressica, il santo miira punta a varcare da vivo la soglia della morte, inscrivendo il proprio percorso all’interno di un orizzonte simbolico-universale per realizzare attraverso se stesso, oltre la morte, l’aspirazione umana alla liberazione dell’angoscia della morte. La realizzazione del sogno del corpo incorrotto diventa l’indice – l’icona mistica – di questo attraversamento della morte. L’esibizione pubblica della mummia, infine, suffraga collettivamente questa possibilità dell’umano di vincere la morte. L’ascesi, come si vede, è qui del tutto finalizzata a un riscatto universale: il santo radicalizza il suo rapporto individuale con la morte ma solo per salvare una comunità, per testimoniare davanti a essa il primato della volontà e dello spirito sulla carne e sulla corruzione. Dove però, diversamente dall’ascetismo di impronta platonico-cristiana, è proprio la carne, la mummia del corpo, la materia essiccata, divenuta icona, a manifestare la possibilità, in vita, nel mondo naturale, di realizzare la perfezione sovrannaturale. Il tempo non riesce a scalfire la sagoma mummificata del santo. La forza della volontà vince su quella della materia, ma solo attraverso la materia. La barriera tra la vita e la morte è dissolta. Questo è il significato profondo dell’entrare sottoterra, del farsi seppellire vivo: recuperare alla vita la morte, sancire il varco aperto tra i vivi e i morti. Non dunque una forma di suicidio, perché il suicidio come tale è solo il mero annientamento della vita, quanto piuttosto il suo rovescio mistico: affermare la vita nella morte, ricongiungere la vita con la morte, andare al di là del confine dell’impossibile, varcare la linea della morte. La realizzazione del corpo incorrotto non è la distruzione del corpo (aspetto, questo, presente invece nelle pratiche di mortificazione corporale che caratterizzano gran parte del misticismo cristiano), ma la sua più piena affermazione, la riunificazione della vita con la morte, la scrittura stessa dell’immortalità. La partita giocata dal santo miira non è, come quella dell’anoressica, a due (il corpo mortale e la forza della volontà), ma implica l’orizzonte terzo – universale – della comunità. Ecco perché il momento dell’esibizione dell’icona è un momento decisivo. Si tratta di manifestare il legame che intercorre tra l’impresa ascetica dell’automummificazione e l’effetto di salvazione e di liberazione che esso produce su un’intera comunità. L’estetica del corpo incorrotto – dell’icona del santo – non è come quella anoressica chiusa su se stessa, avvolta in un bozzolo narcisistico, ma è piegata a un’esigenza etica relativa all’attraversamento dell’abisso che separa la vita dalla morte; un’esigenza che annoda la decisione solitaria del santo all’orizzonte di una intera comunità, che inscrive la scelta singolare all’interno di un discorso universale. Anche nel mondo cristiano troviamo questa ossessione per il corpo incorrotto che a volte sembra raggiungere la folle estremità dell’esperienza miira. Il “sacro cadavere” del santo deve poter trattenere, anche dopo la morte, sul modello della resurrezione del Cristo, la linfa della vita, i profumi incorrotti dell’anima e i segni della sua partecipazione al divino. «Spesso fragrante e spesso incorruttibile, il corpo “dell’uomo di Dio”, del beato, che è un morto “speciale”, non conoscerà l’oltraggio della demolizione che colpirà la carne dei comuni mortali. Indurita e quasi mineralizzata dalle più dure vigilie, scarnificata dai più intransigenti digiuni, la carne del venerabile servo di Dio, dopo morto profumerà “suave pomo, odorifero”». L’angoscia cristiana per la carne e la sua corruzione conduce però verso la lotta aperta, senza esclusione di colpi, dello spirito contro il corpo. L’immagine del corpo è costretta all’umiliazione sanguinosa dell’espiazione della colpa. Essa non viene qui esaltata ma addirittura perseguitata, deturpata, spolpata, investita d’odio. Operazioni necessarie al santo per passare dalla via stretta che conduce alla vita eterna. In questa direzione agisce in effetti sull’epoca cristiana “la memoria ossessiva della Passione e della flagellazione, il modello esistenziale della Imitatio Christi”. L’immagine del corpo deve dunque diventare l’immagine stessa della penitenza. Il corpo-letamaio deve essere ripulito dalle sue incrostazioni. In questa operazione di spurgamento rientra come cruciale il rifiuto del cibo perché il cibo dà nutrimento al corpo carnale. Siamo qui alle origini della scelta anoressica che ricorre di fatto, quasi come una costante, nelle storie delle grandi esperienze mistiche. Ma mentre quella cristiana sospinge verso l’annientamento della faccia carnale del corpo attraverso pratiche di espiazione al limite dell’autodistruzione, quella dei miira, come abbiamo visto, eleva l’icona del corpo incorrotto, mummificato, a emblema di una possibile liberazione dall’angoscia della morte. In un caso, dunque, l’oltraggio e l’autopersecuzione del corpo carnale avviene nel nome di un’etica trascendente, nell’altro, invece, è nell’immanenza del corpo carnale che si manifesta la potenza del sovrannaturale. La moderna anoressia sembra per certi aspetti conservare qualcosa di queste esperienze (il mito del corpo incorrotto, il rifiuto del cibo, l’ideale dell’indipendenza dalla sensibilità, la rinuncia alla vita pulsionale) e, per altri, come vedremo, reciderne decisamente il filo mistico. Il punto chiave per comprendere il salto che l’anoressia cosiddetta “mentale” introduce rispetto a tutte le forme di rifiuto ascetico del cibo, è relativo alla particolare configurazione del discorso anoressico-bulimico, la quale deve essere pensata come risposta del soggetto a un discorso particolare com’è quello che caratterizza le società a capitalismo avanzato, le cosiddette società del consumo e del benessere. La portata totalmente secolarizzata di questo discorso sgancia in effetti l’esperienza del rifiuto del cibo e della sfida alla morte da ogni orizzonte collettivo, segnalando piuttosto una rottura individualistica della convivialità con l’Altro. L’anoressica e la bulimica rompono infatti il patto sociale che lega strutturalmente il soggetto all’Altro. Se le esperienze mistiche – per quanto possano essere vissute nell’ordine irriducibile di una soggettività – s’inscrivono comunque all’interno dell’orizzonte simbolico di una comunità, la posizione del soggetto anoressico-bulimico invece, appare immediatamente come una posizione distonica – sintomatica in quanto indicativa di un non-accordo con l’Altro – rispetto all’ordine del discorso universale. Non c’è alleanza con l’Altro ma rottura delle sue regole, offesa indirizzata alla sua tavola. Il corpo-magro dell’anoressica si è staccato da ogni mitSein; esso popola la Civiltà delle immagini come uno spettro, un’“anima in pena”, un relitto affascinante che ha perso però contatto con la rotta maestra. Il particolare inquietante della scelta anoressica non si accorda infatti in nessun modo con l’universale. Piuttosto esso prova a denunciarne la falsità; la falsità di un universale che regola il singolare subordinandolo semplicemente alle leggi del mercato, della consumazione, dello sfavillìo delle immagini pubblicitarie. Diventa allora necessario provare a cogliere questa risposta soggettiva che l’anoressia-bulimia costituisce, in rapporto al discorso dominante che è quello – nell’epoca segnata dal nichilismo e dalla secolarizzazione radicale – del capitalismo avanzato.
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* Da L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondadori 1997.