Male e Provvidenza secondo Guido Morselli

Di GUIDO MORSELLI *

 

L’urlo di questo rapinoso vento di marzo assedia la casa. Imposte stridono e sbattono da qualche parte; di là dei vetri vedo sfioccarsi le nuvole, travolte per l’azzurro che è di una cruda intensità; le vette dei miei deodara si torcono drammaticamente. Ieri mattina a questa stessa ora, in città, quattordici bambine appena uscite da scuola, e una era accompagnata dal fratellino di quattro anni, sono state uccise da un tratto di muro che una raffica ha abbattuto sopra di loro. Le mamme di alcune erano andate a prenderle, stavano traversando la strada, hanno visto il muro pencolare, crollare. Sulla tavola, che una fredda lama di sole spartisce, ho il giornale di stamane col racconto della sciagura. È evidente che per l’occasione si è cercato di dare un po’ di colorito alla prosa grigia e corsiva della seconda pagina: «Col vento di primavera si era mischiato un altro vento, e invisibile esso ansimava, non già per fare festa e allegria. Andava galoppando raso terra a seminare la sventura. Perché scelse quel muro? Perché aspettò a diroccarlo che sotto ci passassero le bimbe? Un minuto prima o dopo non era lo stesso per lui? O colpì in quel punto con un preciso calcolo malvagio? Come è facile la morte dei bimbi. Mai più siederanno sui banchi della scuola, mai più sapranno ridere e giocare. E non serve chiedersi il perché». Proprio, «non serve». Nella tua partecipazione, che questa volta è sincera, non routinière, al fatto che descrivi, tu modesto cronista frettoloso hai detto l’unica cosa che ci trovi tutti d’accordo, quando siamo di fronte al dolore, all’ingiustizia. Inutile ricorrere alla sapienza, e alla più alta. Sfoglio sant’Agostino, rileggo il capitolo delle Confessioni dove egli tira le somme del suo lungo meditare e disquisire: «Dunque, è buono tutto ciò che è. E quel male le cui origini io tentavo stabilire, non è sostanza. Non è sostanza perché, se tale fosse, altro non sarebbe che bene…». – Così il male è sanato e fatto dileguare dalla ingegnosa dialettica dell’ottimismo, e il mondo puntualmente accordato con la Bontà che lo governa. Parole, povere parole, che in qualche momento non giungono nemmeno a farci sorridere. Quante volte il vento, prima di quello tragico di ieri, ha già fatto rovinare col suo soffio i labili castelli della speculazione? Ma la sapienza degli uomini ha ben poco che vedere con la saggezza. Possiamo lusingarci di aver ridotto la materia a una serie di percezioni, di aver ridotto l’universo a un sistema di convenzioni; il male resta fermo di fronte a noi. Non si scherza con quello. E se hanno torto gli uni che cancellano Dio perché non si concilia col male, hanno anche più torto gli altri che cancellano il male, perché non si concilia con Dio. Nessuno dei due termini del contrasto è dato eliminare. L’incomprensibile si accetta, non si elude. Mera coincidenza, che il muro pericolante sorgesse sulla via che i bambini dovevano seguire? Ma, badiamo, o esiste una Provvidenza che regoli anche il moversi delle foglie, e il vivere e il morire degli scolaretti, o la Provvidenza è una trita formula verbale. E se invochiamo il caso, introduciamo un’astrazione matematica che può soddisfare l’osservatore indifferente e coonestare la neutralità degli agnostici, ma per chi soffre ha tutt’altro aspetto. Quando il fortuito concomitare degli eventi termina in una punta ferrea e rovente che ci penetra l’anima, allora ai nostri occhi la maschera vuota del caso si confonde col volto di una volontà malefica, deliberatamente attiva ai nostri danni, e non c’è industria dialettica che ci convinca a distinguere. Più facile attribuire il male a colpa umana. Nei fatti di cui siamo spettatori c’è normalmente, oltre alle forze che li determinano, un intervento umano, per quanto estrinseco e accessorio: si riesce quasi sempre dunque, a chiamare in causa un nostro simile; che in realtà è stato uno strumento, magari inconscio o riluttante, ma deve prestarsi a dar corpo alla macchinosa finzione che chiamiamo responsabilità. A questa maniera la sventura diventa meno estranea alla nostra logica e ci possiamo illudere a posteriori della sua evitabilità. Non è opera umana il bel vento di marzo, che pulisce il cielo e fuga l’inverno; tuttavia il muro che è crollato fu eretto da mano d’uomo, e quindi domani una commissione indagherà, vaglierà, accuserà. Ognuno di noi giurerebbe che ciò è doveroso, ognuno di noi si persuade – appena si sforzi a vedere non del tutto empiricamente – che nessuna ‘inchiesta’ potrà mai far giustizia. Si pretenderà di avere designato un colpevole, e fors’anche si presumerà di aver precisato modi e circostanze della sua colpa. Ma con ciò? Di colpa si potrebbe parlare nell’ipotesi, ovviamente irreale, che l’essere umano fosse concluso in sé, dunque autonomo: che non dipendesse, nel suo esistere, nel suo agire, da altri individui e da una indefinita estensione di elementi e di cose. La responsabilità senza l’autonomia è un risibile asserto, e il dato optimum su cui fondano le nostre sentenze, il nesso causale che dichiariamo accertato fra un atto umano e un evento, è tanto dato definitivo quanto lo era la tartaruga della cosmologia indiana, la quale sosteneva l’elefante a cui spettava di sorregger la Terra. O vogliamo trasferirci su un altro terreno, parlare di una colpa di altro genere per addossarla a quei medesimi che soffrono del male e ne sono le vittime? Nulla di strano o d’insolito. L’abito mentale che porta a connettere la sventura dell’individuo con una sua ‘disgrazia’, con la perdita del favore celeste, nasce con l’uomo. «Tutte le nazioni e società primitive, non altrimenti che oggidì le selvagge, riputarono l’infelice e lo sventurato per nemico degli dèi», notava Leopardi. Una evoluta nozione del divino esige – in più – che la disgrazia si colleghi a un fallo dell’individuo, sia giustificata cioè, o meritata. L’uomo progreditamente religioso cerca nel nume non soltanto la potenza né soltanto la benignità, ma un criterio equo e costante nel reggimento delle cose umane, ossia gli attribuisce una legge razionale, né riesce a concepire che il cielo colpisca l’innocente.

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* Da Fede e critica, cap. IX, La bestemmia, Milano, Adelphi, 1977.

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