Di UMBERTO PETRONGARI
Non credo sia un mio atto di presunzione – o perlomeno lo spero – quello di aver individuato, per mezzo di un’intuizione intellettuale (o di una sorta di essa), le più pure e pressoché aprioristiche tipologie d’uomini.
Il nichilista è il tipo d’uomo più originario o arcaico. Conosce solo il presente (o meglio, vuole conoscere solo il presente, essendo concentrato unicamente su di esso), attribuisce alla sua vita (anche in detta dimensione temporale) il minimo valore che gli si possa conferire, attribuisce scarso valore alla vita degli altri e anche alla natura. Politicamente è il fautore della più pura e primordiale società regale-aristocratica: rappresenta politicamente la ‘destra’.
Più a ‘sinistra’ troviamo il borghese – da intendersi in senso lato quale l’ ‘egoista’ – il quale verrebbe a coincidere con il nichilista, se non tenesse – istericamente e istrionicamente – oltremodo alla ‘propria pelle’ e, più in genere, alla totalità degli aspetti che definiscono la propria ‘persona’.
All’estrema sinistra troviamo, infine, l’uomo ‘mediocre’, l’uomo dalla mentalità popolare (e che esprime una cultura di tipo popolare): dà considerazione sia al passato che al futuro, attribuendo grande rilevanza – al pari dell’ ‘egoista’ – ovviamente, anche al presente. Ma tiene anche agli altri e alla natura.
L’ ‘Humanitas’ è, per così dire, posta a metà strada tra la mentalità popolare e quella borghese (se quest’ultima la si intende tuttavia in senso esteso, ossia quale sinonimo di ‘mentalità egoistica’): arte e cultura classiche sono espressione di Humanitas.
Infine vi è il più puro e originario spirito cristiano, appartenente a chiunque si auto-svilisca (magari non riconoscendosi necessariamente quale ‘cristiano’) a cospetto di tutto quanto lo circonda, tanto da subordinarsi al mondo (che identifica con Dio, o comunque con il ‘valore’), e a tal punto da giungere ai più estremi sacrifici per esso: perdonare il proprio ‘fratello’ (che forse, nel Vangelo secondo Matteo, sta per l’ ‘altro’ in generale) ‘settanta volte sette’, ‘porgere’ sempre ‘l’altra guancia’, ‘non opporsi’ mai ‘al male’, costituiscono le conseguenze di una mentalità adeguatamente (o più propriamente) cristiana. Nonostante vi sia da ritenere che la ‘santità’ insita nell’esercizio delle anzidette formule evangeliche sia numericamente minoritaria, non è detto che non possa comunque caratterizzare cifre piuttosto ampie della popolazione mondiale, in particolare laddove vige la fame più nera, come ad esempio e in primo luogo in vaste zone dell’Africa. Ed è probabile che tale mentalità cristiana sia stata inculcata, soprattutto nel continente nero (ma anche in America Latina), da missionari evangelizzatori (ma in Asia la loro presenza durante i secoli è stata minore, se non addirittura scarsa, per cui altri soggetti avrebbero provveduto a formare uomini dalla mentalità estremamente affine a quella più puramente evangelica).
Il ‘puro cristiano’, tenendo a freno (ossia costantemente sotto controllo, nella rassegnazione a tutto o sopportazione di tutto) le sue invidie, non aspira, neanche minimamente, a migliorarsi, a progredire, socialmente. Quella del tipo umano in questione è una forma mentis pericolosa (tanto che andrebbe, a mio parere, addirittura sradicata – pur non avversando, perlomeno alcune, religioni), in quanto colui che la incarna non aspira neanche un po’ a risollevarsi contrapponendosi ai più ingiusti status quo.
Se tra le cose più difficili da realizzare, a mio parere, vi sono le rivoluzioni, per conoscere le misteriose condizioni che vi danno (e che vi hanno dato) luogo, bisognerebbe a mio avviso approfondire la conoscenza di quella parte del pensiero deleuziano in cui il grande pensatore francese afferma come la repressione divenga desiderabile: in che modo essa viene resa tale? Quali strumenti ‘idealistici’, ‘propagandistici’, servono (e sono serviti) a tanto? Sebbene tuttavia, io non creda che si possa parlare propriamente di ‘repressione’ e di ‘lavaggio del cervello’ (di ‘condizionamenti sociali’ del contesto in cui si abita); in quanto ritengo che ogni uomo, non solo sia, in fondo, felice, ma anche assolutamente libero nell’assumere qualunque cosa voglia essere. Ma è una mia libera prospettiva (e al mondo si danno soltanto opinioni, prospettive), quella per la quale sono portato a simpatizzare per il tipo umano assolutamente comunitario, prediligendolo dunque fra i quattro puri modi d’essere di cui ho sopra parlato.
Tornando ad essi, possono combinarsi tra loro in svariati modi, dando luogo ad ogni tipo di modo d’essere, ad ogni tipo di morale, effettiva, ineffettiva (ma solo possibile, virtuale) e, addirittura, contraddittoria (dunque, anche in quest’ultimo caso, auto-mistificante).
Ma in questo saggio voglio parlare, voglio accennare (quindi brevemente), in particolare, allo svolgimento storico di ciò che è accaduto in Russia e in Cina – rispettivamente – dopo la morte di Stalin e dopo la morte di Mao.
L’antirevisionismo di Mao Zedong rende tale grande figura storica assai affine alla personalità politica di Iosif Stalin: nonostante alcune differenze, sia politiche che ideologiche, tra i due eminenti statisti, non fu mai assente – tutto sommato – tra di loro, un senso di reciproca stima e simpatia.
Entrambi hanno promosso un tipo d’uomo dallo spirito (quantomeno) accentuatamente comunitario. Tale tipo di persona, rispetto al ‘borghese’ e all’ ‘aristocratico’, non mira alla sopraffazione dell’Altro (della ‘Natura’), ma tende (sempre ‘per invidia’, caratteristica che, del resto, condivide con i due anzidetti tipi umani) a livellare a sé (alla sua ‘medietà’ o ‘mediocrità’) ogni altro uomo. Per fare ciò ricorre a tali strumenti: da un lato sarà freddamente ligio ai suoi doveri di ‘essere sociale’, dall’altro sarà rabbiosamente, indignatamente, severamente, giustizialista (quindi antigarantista) nei confronti di chiunque eserciti un qualsiasi tipo di sopraffazione o prevaricazione: il suo motto è ‘occhio per occhio, dente per dente’.
Un simile individuo è talmente livellatore da non simpatizzare troppo neanche nei confronti di chi esprime, con profondità d’animo, dei sentimenti. Saper esprimere sentimenti (essere dei ‘sentimentali’) è infatti – in fondo – un modo per spiccare, per risaltare, fra gli altri (facendo sentire questi ultimi – sempre in fondo – un po’ inferiori rispetto a sé). Il ‘comunitarista’, quando si tratta d’essere affettuoso, ricorda dunque il superficiale ‘sentimentalista’, poiché per essere dei ‘mediocri sentimentalisti’ non sono richieste particolari qualità attoriali (ad esempio mimiche), particolari ‘maestrie’ (in tal caso, dunque, ‘retoriche d’attore’).
Ma veniamo, un po’ schematicamente e sinteticamente, alla situazione cinese immediatamente post-rivoluzionaria: Mao attua una espropriante riforma agraria consistente nell’assegnazione e nell’accrescimento di appezzamenti privati di cui beneficiò l’intera popolazione contadina cinese. Similmente a ciò che si verificò in Russia con Stalin, per quel che invece riguarda l’industria, essa cresceva, di anno in anno, in modo esponenziale (anzi, sbalorditivo). Per i ceti urbani non vi furono problemi: la crescita dell’industria leggera (oltre alla crescita dell’industria pesante) non potette che avere come presupposto la soddisfazione delle esigenze primarie dell’intera popolazione urbana. Leggendo libri (odierni) di storici e intellettuali (tutti – o quasi tutti – praticamente anticomunisti), tali miei (credo corretti) ragionamenti, ovviamente non emergono. Emergono invece, per lo più (perlomeno così mi sembra), una serie di irrealistiche astrattezze, dal momento che tali storici e intellettuali non conoscono i meccanismi sociali, politici ed economici (ma anche sociologici e psicologici) in virtù dei quali risulta possibile tenere in piedi una nazione (non sono ‘uomini di potere’, o comunque, non sono dei ‘bravi e veri’ politici). Ebbene, disponendo di poco materiale di studio filocomunista, sono stato costretto a documentarmi (in merito alla storia dei comunismi) sul materiale di cui si dispone attualmente, tuttavia avendolo vagliato (spero) con acume critico, avendo sempre tentato di ‘ragionarci su’ correttamente e con realismo (ossia, con senso di realtà).
Tornando a parlare della Cina maoista, il Grande Balzo in Avanti non fu forse un colossale fallimento, così come per lo più oggi si sostiene. Ebbe certamente dei limiti. Con esso ci si riferisce in particolare al processo di collettivizzazione dell’agricoltura voluto e guidato da Mao. Tale progetto non riuscì nella misura in cui il grande statista cinese si avventurò in sperimentazioni politiche, le quali, in generale, risultano sempre rischiose e inefficaci. Se avesse seguito il modello di collettivizzazione staliniano – già ai suoi inizi, per così dire, ‘collaudato’ – la classe contadina non sarebbe restata troppo insoddisfatta. Mao invece credé che i contadini potessero vivere in una situazione di estrema uguaglianza in delle comuni in cui vigeva l’autosufficienza, non solo alimentare, ma anche relativa alla soddisfazione di bisogni non primari. Insomma, avrebbe dovuto concedere qualche egoistica libertà, poiché da ciò, in ogni società anche attuale che non sia tribale-egualitaria, non si può mai del tutto prescindere. Inoltre i tecnici, gli esperti, sovietici – in quanto tacciati da Mao di revisionismo – abbandonarono, a un certo punto, per ripicca, le campagne cinesi. Infine, si verificò ben presto una grave carestia (e la Cina è spesso soggetta a carestie) – non dovuta però, a quanto pare, alla collettivizzazione – alla quale, tuttavia, Mao tentò zelantemente e tenacemente di rispondere importando grandi quantità di beni alimentari stranieri da destinare anche ai contadini delle comuni.
Alcuni anni dopo l’avventura del Grande Balzo, vi fu in Cina la Rivoluzione Culturale, promossa da Mao per contrastare, a mio parere con legittimità, le tendenze liberali, revisionistiche, del partito comunista cinese (quale forza politica poco controllata da Mao).
Sebbene lo statista accusasse il partito di essere favorevole ad una burocratizzazione della società, ritengo che tale accusa sia stata pretestuosa e, in fondo, non sinceramente sentita e sostenuta da costui. Una burocrazia efficiente, anticlientelare e antifamilistica, è uno strumento assai utile socialmente, in quanto è volta a produrre equità e giustizia sociali (si pensi ad esempio al ruolo da essa svolto per il controllo dei prezzi). Ancora oggi il partito comunista cinese è un efficientissimo strumento per far crescere (sia pure nel bene e nel male) la grande nazione in cui si colloca. E se, all’interno di esso, vige un po’ di familismo, ciò non nuoce all’unità, alla compattezza, della nazione: politici collaudati e molto ferrati nella loro attività, ‘iniziano’ i loro figli al loro stesso lavoro, in modo tale che si abbia un ricambio generazionale che non vada ad intaccare la stabilità, la saldezza, del sistema politico in questione.
Tornando alla Rivoluzione Culturale, c’è da fare un preambolo. Mao guardava con una certa diffidenza alla ‘cultura’, quasi certamente per via di un sentore da egli non ben focalizzato. E in verità, se esaminiamo in cosa essa consista effettivamente, non possiamo che pronunciarci a suo sfavore. Se l’Humanitas espressa dai più banali ‘classici’ può – in alcuni casi e in alcuni contesti – dimostrarsi – comunque e perlomeno – socialmente utile, qualora ci si voglia ‘innalzare’ culturalmente, essi vanno posti in discussione: e, più ci si contrappone ai ‘classici’, più ci si ‘eleva’ in direzione di un assoluto, ignorante, socialmente pernicioso, incivile, nichilismo relativistico. Quando la ‘cultura’ raggiunge l’apice (come tale non oltrepassabile), essa cessa di esistere: in suo luogo subentrano stati di luciferina illuminazione quali ad esempio quelli contemplati dal buddismo più vero, originario e guerriero, oppure (per fare un altro esempio) si giunge ad avere (ci si conquista) una mentalità e un modo di comportarsi identici a quelli propri dei più inquietanti popoli della più remota antichità (si pensi alla sapienza contenuta nei più ancestrali miti indoeuropei, ‘ariani’).
Ora, in società molto ampie e che presentano problemi (di qualsiasi natura) legati innanzitutto all’alimentazione, persino il propagandare una cultura umanistica di tipo classico và a costituire un problema. In suo luogo andrebbe favorita un’arte più rozza, meno colta, erudita, bella, intelligente (si pensi al ‘fumettistico’ realismo socialista quale – tra gli altri – efficace strumento di propaganda politica).
Per mezzo della Rivoluzione Culturale, Mao inculcò, specialmente in moltissimi giovani, un modo d’essere ‘volontaristico’ (lo statista cinese credeva molto nella ‘buona volontà’ di alcuni uomini), già espresso dalla cultura popolare incarnata (perlomeno) dal grosso della classe contadina cinese. Il giustizialismo comunitarista radicale di cui si è parlato sopra, era il costume che venne adottato dai suddetti giovani.
Se marxianamente la storia è dialettica, non possono che esserci dei ‘nemici di classe’ da contrastare, e anche (purtroppo, talvolta) violentemente: anche ai tempi della Rivoluzione Culturale essi erano costituiti dai membri del partito comunista dalla mentalità più filo-borghese, ovvero liberalizzatrice – in altri termini, ‘egoistica’. Il risultato della Rivoluzione Culturale consistette in un significativo ridimensionamento del potere del partito unico e della negativa influenza esercitata da esso sulla società cinese (se non altro su una certa parte di essa). Fin quando Mao fu in vita gli egoismi individuali furono efficacemente contrastati o anche tenuti ben a freno. Ma purtroppo, con il suo decesso (il revisionista Deng Xiaoping prese allora il potere), si ebbe nella vasta nazione estremo-orientale un’audace liberalizzazione della sua economia (Krusciov liberalizzò l’Unione Sovietica in modo più cauto): le basi, le fondamenta, per la realizzazione della futura Cina (praticamente) capitalistica e sfruttatrice (ovvero, l’odierna Cina), furono gettate. Non essendovi più un potere animato da ‘spirito comunitario’ tale da contrastare detto processo, si assistette ad un crescente imborghesimento della società cinese.
Tornando sulla Rivoluzione Culturale, essa produsse forse degli eccessi? Teoricamente, se non fu morbida, la sua severità – e persino la sua violenza – furono perlomeno sempre (o quasi sempre) motivate da ragioni – per così dire – ‘accettabili’. È poi vero che, tra grandi masse (mai del tutto controllabili), vi è sempre qualcuno che – magari in modo pretestuoso – commette degli inammissibili abusi. Ciò lo si ebbe, del resto, anche presso i partigiani italiani comunisti: ma ciò, è forse un argomento contro la resistenza antifascista? Se guardiamo al mondo quasi con pessimismo, non possiamo far altro che accettare a malincuore le sue negatività. Tuttavia, è sempre e comunque preferibile il male che giunge dallo ‘spirito comunitarista’ piuttosto che il male che giunge da un animo di tipo borghese: dal momento che quest’ultimo è sempre, strutturalmente, prevaricatore, le violenze che opera sono sempre dettate da motivazioni sadiche (tale discorso vale perlomeno in linea teorica).
Portandoci al contesto sovietico, ecco cosa si sarebbe verificato dopo la morte di Stalin: con Krusciov, con Breznev, infine con Gorbaciov, la società sovietica assistette ad un graduale processo di imborghesimento, sia pure costantemente contrastato da quelle ‘strutture’ politico-economico-sociali che sopravvissero anche dopo la dipartita di Stalin.
Procedendo con ordine, la ‘distensione’ con il mondo occidentale voluta da Krusciov comportò, non solo l’inizio della mutua cooperazione economica tra occidente e ‘mondo comunista’ (soprattutto attraverso scambi di tipo commerciale), ma anche l’inizio di una penetrazione industriale occidentale all’interno del ‘blocco sovietico’. Ciò non eliminò, ovviamente, del tutto le tensioni e le reciproche resistenze tra ‘occidente’ e ‘oriente’: furono le ‘strutture’ suddette a tentare continuamente di salvaguardare la compattezza del mondo sovietico e filosovietico, anche se, alla fine, le tendenze borghesi ebbero ragione di tali ‘strutture’ politiche.
E sebbene la ‘destalinizzazione’ produsse un clima sociale più respirabile, nonché – tutto sommato – il progressivo miglioramento delle condizioni economiche degli abitanti del mondo comunista russo e legato all’Urss, altrettanto progressivamente tale mondo andava, man mano, a sfaldarsi, fino al suo più completo crollo.
Ritengo che il ritorno ad una linea politica meno borghese rispetto a quella kruscioviana, non sia stato altro (per lo più) che un mero ‘proclama di facciata’ da parte di Breznev: ad esempio, l’insufficiente fermezza con la quale venne repressa la Primavera di Praga, rispetto a ciò che si verificò in Ungheria nel 1956, starebbe, a mio parere, a dimostrarlo.
Infine, Gorbaciov, assestò il ‘colpo di grazia’ all’intero sistema: ponendo in discussione il principio del ‘centralismo democratico’, favorendo dunque degli avventuristici decentramenti, la libertà di parola, di stampa, di associazione ecc., ovvero, favorendo ovunque (di fatto) ‘il socialismo dal volto umano’ (o – per meglio dire – il ‘socialismo dal volto egoistico’, ‘borghese’), diede inizio alla ‘fine’: fine che giunse ben presto, trasformando la Russia e l’Est europeo nel modo in cui ancora oggi si presentano.
Un discorso a parte và fatto per quel che riguarda la Jugoslavia di Tito. Nonostante le relazioni amichevoli con l’occidente, e nonostante le frizioni con Stalin, il grande statista croato seppe, da un lato beneficiare di dette relazioni, ma, dall’altro lato, non permise mai che quelle relazioni andassero a costituire un processo di cancrena volto a corrodere in modo crescente la sua particolare forma di socialismo. A capo di un partito comunista ‘forte’, osteggiò costantemente ogni tentativo, da parte degli occidentali, di disgregare la sua nazione e il suo annesso – sia pure atipico – sistema comunista. Ma dopo la sua morte, purtroppo, anche la situazione jugoslava iniziò – sia pure man mano – a deteriorare, per poi – oltretutto – esplodere nei vari conflitti balcanici.
Ma veniamo a parlare dei pericoli – anche di grandissima gravità – legati all’affermarsi – sempre più – della mentalità borghese, ovvero dell’egoismo umano nelle società. In un contesto come quello italiano, la sinistra parlamentare più radicale e di maggior peso politico, si è andata gradualmente trasformando, fino a snaturarsi completamente, specie ai giorni nostri. Fin quando ha culturalmente esercitato un’influenza di un certo rilievo sulla società italiana, gli egoismi sono stati tenuti – tutto sommato – a freno (anche se – ovviamente – niente affatto pienamente). Ma oggi la forza politico-ideologica in questione è del tutto venuta meno, per cui – ad esempio e in primo luogo – un populismo senza cuore sta dilagando. E – si badi – le odierne aberrazioni di cui, molto spesso, ci raccontano e ci parlano i giornali e le televisioni, costituiscono fenomeni sociologici e psicologici alla cui base vi sono, appunto, gli egoismi non più raffrenati da nulla: faccio un esempio; spesso dei bambini – addirittura ancora in fasce – vengono brutalmente maltrattati e uccisi, e nell’indifferenza di un circondario menefreghista (e anche ciò è, ovviamente, egoismo), che non denuncia mai simili misfatti.
Nei paesi comunisti, i fenomeni sociali negativi, oltreché ‘culturalmente’, venivano contrastati in due modi: attraverso una massiccia presenza di forze dell’ordine sempre vigilanti, oppure costringendo ogni membro della società a sorvegliare ogni restante membro di essa; ognuno era dunque – coattivamente – il ‘potenziale delatore’ del suo vicino (credo che ciò costituisca, purtroppo, uno dei soli due modi per combattere – se non addirittura per evitare – ogni fenomeno criminale, alla luce dell’idea negativa e sfiduciata che mi sono fatto dell’animo umano).
In conclusione, cosa dovremmo augurarci dal futuro? Che, soprattutto, l’altissima finanza e la grandissima imprenditoria mondiali, nonché gli stati che ne difendono gli interessi, perdano progressivamente il loro, oggi, incontrastato potere. Si può rimediare a tale situazione in un unico modo: promuovere la creazione di stati socialisti ben coesi e ben funzionanti; il più importante fattore atto a creare ciò, credo consista nell’amore per il lavoro (qualunque esso sia). In nome di ciò, la cultura del gioco e del tempo libero e, più in genere, la cultura dell’ ‘arte’, dovrebbero venire svalutate (o perlomeno, poste in secondo piano). La cosa più auspicabile è che il Terzo Mondo si emancipi gradualmente (attraverso, magari, la creazione di una federazione di stati socialisti, destinata ad ampliarsi sempre più): la cosa ideale è che in esso attecchisca un’ideologia marxista-leninista di tipo staliniano-maoista; la si può però promuovere svilendo il pensiero della ‘sinistra critica’, che oggi và tanto di moda. Quando, infatti, si ‘critica’, si criticano – inefficacemente e inettamente quanto alle proposte di miglioramento – le ‘cose che non vanno’; in più, senza che se ne sia troppo coscienti, si critica sempre, al contempo, l’umanità in nome dell’egoismo. Dovremmo, viceversa, recuperare il valore dell’ ‘obbedienza’ (perlomeno in alcuni frangenti, si dovrebbe saper obbedire, e non criticare).
Se applicare i suddetti principi politici marxisti-leninisti nelle opulente società occidentali è pressoché impensabile, è tuttavia auspicabile che in esse ritorni in auge qualcosa che (quantomeno) si avvicini al vecchio ‘eurocomunismo’: dovrebbero sorgere cioè – ovunque in occidente – delle ‘socialdemocrazie’ (e l’eurocomunismo fu di fatto socialdemocratico), però ‘davvero tali’, ovvero tali da contrastare realmente (e per la prima volta nella storia) i ‘poteri forti’. Il blocco che ne verrebbe fuori dovrebbe poi dare man forte al Terzo Mondo, per farlo gradualmente emancipare. Ma l’aumento del potere di quest’ultimo andrebbe a riequilibrare man mano i grandi dislivelli di benessere che sarebbero ancora presenti in un’ipotetica situazione mondiale in cui delle autentiche socialdemocrazie avrebbero rimpiazzato ogni altro tipo di ideologia e di prassi politica. Verrebbe allora a darsi una federazione mondiale di nazioni in cui potrebbe vigere un modello politico analogo a quello prodotto da Lenin subito dopo la sua presa del potere (o magari anche qualcosa che ricalchi la NEP), piuttosto che un modello politico di tipo titoista.
Solo allora sarà dunque possibile riconcedersi alcune libertà che ci consentano di ‘respirare’. In una tale, ipotetica, situazione internazionale, inoltre, gli abusi di potere (da qualunque parte giungano), verrebbero fortemente limitati – se non addirittura del tutto eliminati.
Per favore evitiamo di santificare Mao e Stalin, criminali di stato, come Hitler e Mussolini. Milioni di persone uccise o deportate ed un altro milardo ancora oggi controllate dal grande fratello del partito.