
Di SALVATORE ENRICO ANSELMI
Casagemas disse: «Lo faccio per te. Lo faccio per me». Lo disse alla sua donna e si uccise.
Il ritratto della morte. Il corpo svuotato dalla stasi senza riscatto. La testa rigida e il volto contratto. Un involucro labile, una crisalide deformata.
Ho dipinto la morte. La morte illuminata tutt’intorno dal chiarore fatuo delle candele, della gloria verde e giovane incrinata, trascinata a terra come uno straccio. L’amore negato.
Già da allora abitava in me un demone che non mi riusciva di tacitare, che non posso zittire neanche ora, se volessi. È il mio compagno fedele, tetro abitatore del mio corpo e della mia mente. Coinquilino borioso col quale è difficile acconsentire alla resa, addivenire all’accordo. È il ribaldo innocente, l’adolescente smargiasso, il cupo scintillio degli occhi tesi fino all’ultima stringa d’azzurro, quella delle montagne che rigano il cielo dal basso, il cielo catalano.
Sono braccato e rincorso. Di continuo. È la mia maledizione e da questa non riuscirò a liberarmi, perché è anche la mia salvezza, il mio viatico per non marcire nel guado.
Non voglio liberarmi. Se lo facessi non potrei più vivere, se lo facessi non potrei dipingere e scolpire, se guarissi dalla malattia morirei, il giorno stesso, senza possibilità alcuna di cura. La mia cura sta nel male perché è da questo che trovo la forza per tentare di sovrastare il suo ringhio con la mia voce, almeno per poco, per il tratto del tempo esecutivo di un’opera, per il tempo che mi è concesso per portare a termine l’affronto contro quello che mi punzecchia il petto.
Il sadico abitatore del mio petto punzecchia la pelle tesa dal freddo, sollecita recettori assidui e sensibili che dovranno rispondere e restituire una risposta.
Ma tutto il tempo necessario sarà il tempo, la vita, la linea tesa a terra sulla quale cammino da quando sono nato. E non so fare altro.
Casagemas, l’ho dipinto seminudo, blu, inerme, poetico e visionario, un nabis, un Lazzaro iberico, allacciato alla sua donna, in un abbraccio sensuale e sconsolato che poteva essere solo fraterno e passionalmente placato. Come se la resa fosse la condizione dopo la lotta, a conclusione della schermaglia giocosa, dopo l’impossibilità dell’amore.
Blu il cielo di peltro, blu la spiaggia e la bruma sui campi. Blu i corpi, blu le mani, la casa paterna, i solidi appesi alla collina, parallelogrammi abbarbicati come grappoli di pietra alle fondazioni.
Il Minotauro cominciò allora a ruggire, fiero e bestiale come una forza atavica delle origini.
Io sono il Minotauro!
Affamato di vita e distruttore di questa stessa vita. Sono il Minotauro affamato della smania che popola i giorni, fa muovere le mie braccia e le mani possedute da qualcuno che non sono io e che del mio io è immagine convulsa e dinamica, creatrice e demiurgica.
Forse il mistero dell’arte è questo? Il mistero che ha spinto l’uomo, durante il suo primo giorno, a dare forma ai sogni e al mondo che lo circondava untuoso di enigmi che bagnavano la corteccia degli alberi? In corsa, si rappresentava in corsa eterna su distese coperte da branchi di fiere lanciate alla fuga, braccate dal cacciatore che prefigurava nelle immagini dipinte un ricco bottino. Il più ricco che fosse possibile.
Le giovani di Avignone, le ho dipinte in linee spezzate, in volumi fratti, mentre latravano, con versi cupi dietro le maschere, con la stessa voce degli idoli antropomorfi dei quali hanno coperto le loro membra, frontali e voltate di spalle, di schiena e in quello stesso spazio, e in quello stesso tempo, allucinate e coi seni a vista.
Ho percepito le corrispondenze. Corrispondenze scomposte e ricongiunte, accordate da una visione interna, secondo parametri di spazio e percezione nuova, non più prospettica ed euclidea.
Bagnanti irridenti della calma, del lusso e della voluttà. Henri, l’ultimo grande pittore, l’ultimo esegeta esotico da bagno turco, l’ha dipinte così.
Grande Henri!
Il Minotauro mi spinse alla caccia, fino all’ultimo, quando ero ormai diventato un bambino canuto prolifico e in contrasto perenne coi miei figli, bambino goloso, pittore di colombe e fautore di pastori albini. Fiammeggiante ancora negli occhi, gli occhi del mostro, gli occhi del veggente, gli occhi di Tiresia lungimirante e cieco.
I miei occhi!
Con pupille taurine avevo visto la catastrofe delle fucilazioni e dei bombardamenti, della furia violenta che si schiantava sulle città, avevo cantato il treno innalzato alla patria fatta a brandelli, avevo dipinto l’urlo bestiale dei cavalli, delle donne col petto di latte private dei figli.
Eppure erano gli stessi occhi, coperti con velo di una favola, che avevano colto il puntiforme equilibrio raggiunto da giovani donne danzanti e saltimbanchi.
L’eterna Parade, l’eterna favola di primavera, del giardino sul palcoscenico e della scena nella giornata di sole, sotto gli occhi del cielo terso e lisciato come il vello mansueto dell’agnello.
Il cielo steso come un lenzuolo, come una paratia teatrale, guardava al di sotto la pantomima degli uomini, abitatori di questa terra, cialtroni seriosi, bulimici collezionisti di non amori e pallide amicizie, di storie che non li convincono più e che forse l’hanno fatto davvero solo per poco.
Eppure saltava nell’aria frizzante di pigolii argentini, di uccelli con ali spiegate alla vita oltre il nido, di animali mansueti e di attori del piccolo verso, del piccolo, grande verso che in questa parata chiamiamo vita e, nel puntare la posta di questa scintillante scommessa, chiamiamo arte.