Quanto al ritmo (nella: per la Rosselli e non solo)
Ritmo è voce?
No.
Ritmo è respiro?
No.
Ritmo è il vivente divenire di una stazione di immagine – cioè?
Il ritmo insorge laddove non s’obbedisca alla adeguazione del tono espressivo all’occasione sonora – c’è ritmo, entro lo spazio scritto: entro la scrittura che la poesia è, SOLO SE nella distensione orizzontale, nella successione semiotico-semantica e fonico-sintattica si dà una interruzione… Se la spaziatura orizzontale, la graficità porosa del dettato poematico si cuba: se si finisce limitandosi di vuoto interversale: le cesure d’immagine, allora, il non dicibile: l’orizzontalità vacua del senso non si placa nella sua viseificazione, costruzione istituzione di visualità, ma si in-tende: si puntualizza tonalmente verticalizzandosi non nel segreto (cosa che pertiene allo scritto da recitare poi eseguire in un abito di conservazione, quindi, alterazione del di-segno… Abito, questo, di ogni modernità, e ogni modernità è versoliberista…), ma nell’uscita dal cubo: nell’affacciare lo spazio misurato della e dalla scrittura, al vuoto spezzato esso stesso: inarcato (enjambement rosselliano come ossessiva oggettivabilità: possibilità impossibile e non già possibile: chiusa al possibile costretta) a contattare intensioni, e non intenzioni progetti, di vita. Moduli – metriche immagini balenanti misure sine salute – di divenire.
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Se la poesia (non) è comunicazione…
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Hic est pró-blema e non programmaticamente auguratamente una posizione di valore, una tesi di coperta-di-idea: di ideologia e cioè pubblicitariamente una immagine di poesia… Se poesia, a dirla nell’ontologia anzi onto-filia di un Furio Jesi non a caso il più grande mitologo italiano dopo Vico: se la poesia né è/dice né nasconde/non è ma fa cenno ossia ci-è: è tertium quod datur… Ma il terzo tra accademia e militanza (coppia dicotomico-oppositiva cui faceva riferimento Milo De Angelis olim mecum colloquiante…) tra pensiero e pubblicità è una esigenza ossia è poesia ossia è effetto sine causis ergo effettualità è evento tra grandezze vettoriali e non scalari è campo di tensione della tragedia stessa: le due dikai, se devono eludere la soluzione della crisi letale della krisis della morte in vita di una vita la soluzione che le copra nel loro stasiazein polemos kampf – e soluzione non c’è se non idealisticamente borghesemente ideologicamente fascisticamente… – rimuovendo il tragico nella cristo-logica di una delle due dikai – di solito l’antigonea cioè quella contra vitam… etimo fatale destinalmente responsabile della sua stessa krisis di crisi e di giudizio ha la sorella figlia edipica… – cristologica riduzione a adikía… – le due dikai, se devono sapersi tali e quali lo zero di origine che ogni uomo è nella sua grazia terribile di femmina – allora la poesia è voce – voce non di coscienza non di silenzio che chiama senza che nessuno chiami – ma è il controritmo e non ritmo pendente a immagine – è la controparola stessa: blocco di immagine arresto ritmico metafora acromatica: il silenzio il vuoto l’altro la vita la morte non è, come vuole la lettura mistica del Platone oralista: l’anipotetico oltre plotiniano che sia esempio feticcio merce lampo baudelairiano choc sapienziale – ma è lo stremarsi placato di tempo e di spazio di versura nel significante libero di involversi in una quiete di significato (è) rimare con silenzio con mondo con vita con morte è lasciare Antigone libera della sua pietra di Niobe – senza portarla ai navigli di Milano dopo Atene dopo Gerusalemme e Berlino Oraibi…
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Il rischio pubblicitario è davvero in una cadenza di ontologismo.
In una specie di immaginofilia.
In un sogno desiderio che chieda di risvegliarsi solo alla vita…
La poesia risveglia sì ma all’immagine come operazione e non come cosa non cosa che-sia: che sia telos di clinamen (Lucrezio-Spinoza-Deleuze…).
L’evento.
Il comunismo.
La quiete.
Sono lotta.
Non dike come unum.
Apeiron come eterno.
Apeiron è aoristo.
È evento.
Tyche.
Nella tragedia, la forma è teatro di limiti-perata.
Il teatro è una puntualità non di attimo sposato al tempo sottratto alla durata.
Ma di una indefinitezza infinitezza senza dismisura. Cioè momentanea.
Momentum è numero.
Quanto di possibile.
Stasi del e nel movimento di una vita.
Ciò che proprio lo schermo, al pari della proposizione speculativa nella praefatio alla fenomenologia egheliana, dà propone proprio per negare annichilire… La poesia invece l’ostacolo l’imbarazzo lo schermo origine di quel contraccolpo che esso stesso schermo scherma perché evacua diluisce risolve (nel dettato egheliano: hic si consuma il passaggio dal passare dal nulla al nulla, al passare del nulla al nulla – e nel secondo passare ecco che il tertium è proprio il nulla fatto sostanza della sua stessa evacuante diveniente soggettività…) la poesia lo testimonia… Lo strema tra inno e elegia, tra chiacchiera e silenzio, tra armonia dolce e armonia austera.
(La metrica quantitativa classica è una misura di agi di voce e non tesi ictus di caduta…).
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come un delirio metrico-pornogrammico…
il ritmo
mio
dipende dalla sintassi,
che è classica: archeologicamente classica: genealogicamente critica: e in crisi…
… e da una metrica quantitativa prima che accentuativa…
… voglio dire che… si risalga al rinverdire forzare riusare reimpiegare, nella accentuatività della metrica italiana – che è metrica di scrittura, di epoche in cui l’oralità si è oramai consumata nello scritto, nel disegno grafico… alfabetico, sebbene poi dallo scritto ci si impenni sempre all’oralità, a una voce finale: a una originalità terminale quindi… – una metrica quantitativa: una misura di disponibilità dello scritto a farsi agio per esecuzione di voce: lunga breve breve lunga…: nel di-segno in scritto compaiono vuoti di voce: di vocalità: una stimme esibita dallo scritto sì, ma da questo non destinata a alcuna pre-formazione come invece è nelle metriche moderne dell’italiano appunto accentuative; nella quale moderna accentuatività quivi accade che, dato il vincolo esigentissimo imperativo fondatissimo della segnatura ritmica, poi ogni libertà-di-versura debba cadere verificarsi come eversiva: come una rivoluzione: come una deroga, o almeno una apo-stasia… l’unico modo, inde, per realizzare un evento ritmico-metrico-prosodico oggi, per farlo accadere e patire alla lingua italiana di versura poetica, è una insistenza in una costruzione di immagine-di-ritmo? in una artificialità di voce? di eventuarsi del silenzio, del vuoto di voce, e suono, nello spazio di-segno: di schermo: se si vuole – ma, solo se si vuole…, è di schermo…? solo in vitro si può insistere, si può marcare la stimme, la voce, per essere dei toni di stimmung, degli eventi di contatto…? in un fondo di vita, in vece che in schermo…?
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frame di mani
1.
… che noi, noi non ci svegliamo proprio… E che il mito non è un soccorso al logos… Al contrario di quello che può sembrare, secondo la falsa dicotomia tra razionalismo e irrazionalismo, dove il logos sembra essere fondativo (mentre i logoi sono dia-loghi, anzi, di-aloghi: benevolenti e senza invidia: non la invidiano, la loro, stessa follia: a-loghia…), è esattamente qui che la parola ispirata, cioè la parola che posa la sua stessa alterità, soltanto qui essa ha un senso, il suo essere demonico, musicale, erotico, e profetico-maniaco, e persino storico-realistico!
Semplicemente e sprezzantemente: anche la ragione, un logos pieno di se stesso, può permettere se stesso, oltre il razionale ed il ragionevole, per essere un sicuro e sacro e santo mito, o una poetica più o meno formalmente codificata.
– Solo quel picco di questa akropolis, ossia questo mito ossia questa immagine di mito che è un logos – può darsi… Solo un dominio di figure e rappresentazioni – per quanto un’immagine si risolva nella sua capacità per un ri-ferimento e un ri-chiamo, può anche dar vita a un’immagine qui-ed-ora che si apre a un non-immaginale: al senza immagine…: a una vita.
Infatti, a noi serve proprio una figurazione, una determinazione di un tale logos bastardo, di un terzo tipo – tertium datur…: una istallazione proprio di una tale eccentricità rispetto sia alla poesia che alla filosofia, sia al mythos che al logos… Voglio dire: ci serve un dia-logo/di-alogo… Per farci logos…
Ma, cos’è un dialogo? Cos’è una parola che attraversi – attraversa cosa?
Nient’altro che il logos stesso.
Le parole sono un lusso, sono merci – sempre che oggi abbiano un senso… E le merci sono il solo esempio, a portata di mano, di ciò che di noi dispone.
… e se oramai siamo ingolfati e misurati dalle merci… e se siamo generati dalle merci al punto da potercela fare anche senza di loro, chiudendole in un recinto, come coperte da regole che funzionano in un sonno, se non proprio in una dormita: al punto di poter sempre gioire nel contemplarle, facendo finta di esserne sorpresi, e persino ammirarle inesorabilmente, scherzando sulla loro stella sacra e innocente che si guardi intorno… Ecco!
Le merci si ripetono: noi siamo cose.
Sono la causa del loro stesso perpetuo e necessario affanno in cerca d’aria, di atmosfere di costruzione di quello scenario in cui possiamo nominare e includere l’Altro, tenendolo a distanza: le merci ci allevano e ci allenano a crescere e a prenderci cura di montagne e mondi di analogie; e modellano le nostre mani e le nostre menti.
Le merci, per questo, ci esemplificano, sia che rimaniamo a casa, sia che partiamo a realizzare i nostri desideri, facendo finta di toglierci dalle necessità e nei fatti dell’esistenza. E’, attraverso i sensi, che apprezziamo le merci: vogliamo in tutti i modi imitare la tensione immobile che ci è sempre stata chiara… Le merci sono il nostro unico problema (morale ed intellettuale).
Se ci concediamo, come abbiamo fatto, alle merci, rinunciamo a ogni totalità che potrebbe contenerci? E non ci sarà alcuna madre per riprodursi…?
Noi figli di figli – solo uno ci appare più chiaro dell’altro…
Neutralizziamo la madre che rende indistinguibili da lei stessa: e rischiamo di non esser più capaci di prendere alcuna decisione!
Come corde di violino appena pizzicate…
2.
… come un invito a riflettere, un invito scritto, a riflettere nello scrivere: sulla solitudine dello schermo: l’insonnia… e la comunità che ogni democrazia è…
Come si può essere una guardia dell’avvenimento di un ‘potenziale’ schermato: e imbarazzati, prevenuti, derubati?
Poi mando una lettera allo Schermo…
Come una finta sul ring: continuare a essere in un modo e non in un altro: questo, e non la convergenza di forze e di potere; essere capaci di rinunciare.
Nel mascheramento dello schermo, si contraddistingue nello spietato il nudo che celebriamo, come stessimo pelando una cipolla all’infinito…
Un’intima finzione.
Nell’intimo sussurrio che falsifica il silenzio.
Per stare attaccati al pronome dell’altro.
Ti scrive.
Ti comunica pezzi di un Sé e di una memoria.
Riconosce, rintraccia una frase – il marchio di un nome.
Vìola l’inganno per amor d’inganno.
3.
Poesia bio-politica, una poesia a cui non è permesso essere se stessa, tramite la poesia, tramite la comunicazione, cioè: diventando la perversione di un regalo e di una forma.
C’è la poesia della vita, della forma, dei pezzetti di una vita? – e non delle facce, della poesia: se ogni parola conta su di un’evocazione, una sorta di iato, allora: abbiamo una presenza che ci porta a un’ulteriorità che rimane inseparabile come tale.
C’è la poesia della vita, il ‘detto’, nelle prove disseminate nella parola assegnata al carattere innegoziabile di un evento. E l’evento può essere codificato solamente come un calcolo. Un’inevitabile dichiarazione linguistica che può esser costruita solamente in una forma ridotta al suo grado zero.
E’ poesia dell’aggettivo che emerge dal crepacuore – qualificata come poesia della forma. E’ una parola impegnata, letteralmente alienata, iper-codificata, sottratta a se stessa – socializzata, poesia pubblica, che costruisce la comunità di rappresentazione, del codice perduto: come uno instrumentum humanitatis, immagine della parola.
La vita non si arrende al verso, alla forma – come forma.
La forma è l’evocazione della parola: la sua perdita, memorizzazione della parola perdendo il ‘detto’, si presta a essa. La forma si auto-celebra proprio nella perdita della parola.
La poesia bio-politica, contraendosi in un pienamente kenomatic dispositif: in un dispositivo vuoto: di vuoto…, e disperdendosi nelle sue rappresentazioni, letteralmente ri-pro-duzioni, è in grado di contraddire l’unico tentativo di salvare la poesia dalla poesia stessa: il vivere poeticamente.
Non c’è altro tempo.
4.
Lo schermo si arresta sempre nella sua vivente rinuncia alla coincidenza di vita e di forma: lo schermo, esso stesso, è l’ostacolo in cui, anzi, per cui, una forma e una vita si incontrano, mosse, quindi differenti e identiche sì, ma non sostano entro l’incontro stesso e dall’incontro e dopo questo.
5.
Se la bellezza di schermo fida sul segreto, sull’essenza sempre prodotta dall’indefinito e instancabile destituirsi dell’apparenza – la poesia è la liberazione e dell’essenza e dell’apparenza dalla loro finzione: dal loro prodursi come un incessante e ogni volta puntuale trapassare l’una nell’altra: lo schermo non lascia il segreto alla sua vacuità: al suo agio alla tremante vita di un apparire.
6.
… kabod (fare onore)… Il punto forse sarebbe chiedersi se una umanità, anzi, una post-umanità: uno schermo di umanità sia ancora – ancora…! – una umanità: se la riduzione dell’humanitas alla sua sopravvivenza larvale spettrale: meriti ancora di essere qualificata come umana, ossia accidentalmente umana… e/o se serbi ancora solo la memoria, una memoria senza nulla da ricordare, o nulla dell’umano: in cui l’umano è una qualsiasi delle occorrenze: tanto singolare, da poter essere solo comunicata come – come fosse un problema irrisorio e vacuo di informazione: un problema una pietra di inciampo senza nulla – senza terra né smossa né ricompattabile… – da smuovere e raccogliere come smosso…
I signa civitatis: un nulla di polis: di umano: se l’umano possa sottrarsi al luogo atopico, e utopico…, del politico, della polis, restando ancora – ora: oggi anche > ancora… – una specie d’innesco, anzi, dell’innesco di relazione perduta: se resti – non restando mai in una nicchia di infami resti.
Se un dialogo di schermo sia ancora un contatto: nel vuoto insorto – come un imbarazzo, contatto senza i testimoni di vuoto e di annichilamento: solo-senza-comparizione… – esige ancora una azione e un fare: un fare senza raccolta né dispersione: senza immagine né coprifuoco…?
Nella tua ‘città’ c’è una sfinge nello scambio, nell’informazione che richiede una questione e almeno due termini, due obiettivi, due scopi: proprio questa narrativa permette se stessa e di dire: non c’è più alcuna politica: permette a se stessa di dirlo a me: a-me: il dativo di un fantasma.
La macchina oggi – s-cancellare il maschio chiavato dall’essere: come i sassi sono effetti dell’acqua – la scena del vortice d’essere: l’essere è una esistenza storica – e così io sono qualunque reale fatto transitare dalla vita alla immagine della vita alla vita dell’immagine – realmente senz’avventura alcuna, se non questa memoria: il vuoto è un sorriso di un dio? In una storia? In una memoria che si coinvolge flagrante?
7.
Questi sono tre movimenti, l’immagine è un processo, tre processi in successione e anche coimplicati: tre concerti amusaici…
1. abolire l’immagine in vista dell’immagine come un processo;
2. giungere a immaginare un mondo senza immagine;
3. l’essere-immagine, l’immagine come processo, è un senza-immagine: dietro all’immagine, dove sorge il vuoto di immagine, e dell’immagine, si staglia e segna il processo d’immagine.
Dietro all’immagine, è propriamente sì ancora un’immagine, ma propriamente l’immagine di non altro, che del senza immagine: il senza immagine rappresentato, ossia presente in una intensità di presenza: prodotto e mostrato, montato – se ogni montaggio conta su un certa maniera della cesura, e anche della sospensione, e dell’interruzione. Un tremito d’immagine è il fare immagine tra il senza-immagine e l’essere-immagine dell’immagine: un’immagine, che è una delimitazione autonoma di spazio, un punto, una zona, una linea, un concerto di luogo, è blocco e sfrangiarsi sul posto: l’immagine si fa sempre nel suo sparire: cogliersi dell’immagine in un guizzo – colto nella sua evanescenza.
Il mondo deprivato, un mondo si depriva solo se rinunzia all’immagine: è mondo, solo il mondo deprivato d’immagine.
Accanto al mondo e per il mondo – non solo immagini, ma abissi non spalancati d’immagini, ossia l’in-terminata durata della produzione d’immagine, di una strategia di gratuita scoperta denegazione.
Dietro all’immagine – non solo l’ennesima immagine, ma il loro immaginale riparo, un rifugiarsi, esso stesso, al sicuro, sprofondando come uno specioso relitto prezioso, e pregno sì di tempo, ma di presenza.
Fare immagine: tanto chiusa nella sua finzionalità, mascherata come autopoiesi, l’immagine, da potersi denunciare altrimenti, rispetto al mondo: sempre schiuso, indovinabile come l’esperienza – dei vissuti stessi.
Sempre un’immagine, per il fare immagine, deve rapportarsi mescolarsi compromettersi coi segni e le parole e le voci e i brusii e i versi e i guaiti e gli urli e le urla – così l’immagine viene riconosciuta, colta nel suo farsi, proprio riducendola allo spessore della mera astrattezza strumentale, di una tanto desolata operazione di calcolo, da potersi trasformare come feticcio: come voce e come parola.
Fare immagine: lasciar insorgere accanto, e non contro, a parole a voci – lasciare che l’immagine trovi il tempo, dia il tempo, di una specie di spazio: di una costruzione del possibile.
8.
un contenuto: una linea di smantellamenti diurni…
solo una conversazione – un contenuto impossibile – cambia il mondo:
solo inizi, proemi, accenni, sentieri d’interruzione della presa dell’avvio, i progressi d’oblio, nell’oblio: stazioni di oblio: l’amnesia come l’unica guerra civile – senza pace, un mondo senza pace, è l’al dì là del mondo: il mondo rivoluzionato…
quella melanconia che ai piedi, ai piedi d’angeli levitanti solo, raccoglie un buon numero di computer spenti:
bloccati nel possibile.
la bellezza è contatto, il contatto è bellezza, il contatto vuoto è bellezza, la bellezza senza tangenza è contatto, una rappresentazione che cade, che è bella
e l’occhio – che non vede ma lacrima, tertium datur – uno dei dati…
nessuno imita.
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PER UNA SCRITTURA METRICA
Tra (una) poesia e (certa) pittura
Ci si riferisce a una specie di preistoria della nostra metrica, alla sua quantità – di origine… Qui schema – non è una convenzione come positiva violenza contrattuale-soggettivistica… O, meglio, cercando di intenderla nel suo proprio manifestarsi, questa convenzione-di-schema, sì che può altrimenti illuminarsi anche nella sua facilior triviale consistenza tetica intellettualisticamente astrattamente fondativa. Ma, ci si arrivi come per gradus.
Chiedere: che cosa accade – metricamente? Che cosa è un accadere metrico? Costruendo una partitura metrico-prosodica – che cos’è questa – cosa? E cosa accade? E in che senso è una partitura…?
È indicazione di quantità sillabiche…?
Certo; ma indicazione e quantità sono soggetto e oggetto… Non sono fenomeno ur-fenomeno evento: pratica di apparenza…
Come si danno? Come coincidono? Che cos’è un tempus misurato perché appunto sia quanti-ficato indicato…? E cosa è una metri-ficazione di tempo?
Ma ci si sposti nell’attenzione: spostiamo: si cerchi una dimensione, forse due dimensioni, che, restando a soggetto e oggetto e a indicazione e quantità, pure le tolgano; cercare una coppia, una dicotomia di insorgenza più arcaica, in cui collassi il fatto che l’arcaico e il posteriore non lascino insorgere l’effettività stessa del fenomeno come lettura recitatio declamatio.
Arché ora sia un pregiudizio… La metrica è colore e non sostanza… La metrica è iconismo da oltrepassare in una graduale acquisizione di intellegibilità testuale alla volta prima di una icono-grafia, quindi, in fine, di una icono-logia… Ci si sta spostando: la voce e il suono: alla volta di una costellazione segnica… E se ci guadagnassimo?
Con iconico e iconografico e iconologico: ecco che si è in quell’ambito detto estetico-artistico e storico storiografico della immagine: dire, quindi, che la tripartizione panofskyana, e scolastica…, non coglierebbe nel segno obliando proprio quanto essa stessa pure si propone di portare a intellegibilità, e cioè la presenza significativa… Se si vuole: l’arte.
Ed è come-risaputo, che vada integrata, la prospettiva storico-artistica, nelle sue stesse ragioni scaturigini storiche e come-trascendentali, ossia che vada archeologicamente (cosí com-plicandola in una genealogia in re…) colta warburghianamente, in sostanza: nella con-temporaneità, anzi, con-temporanei-ficazione, dei tre livelli: ossia di originale e copia: suono e senso: progetto ed esecuzione…
Ora, ci si lasci lasciamo ciò nella sua mera teoreticità e lo si colga in-una-re – pur serbando la teoreticità come esigenza: come costellarsi stesso del problema.
Si afferri quella che è una storiografia artistica alquanto ostica intrattabile: intraducibile: la maniera longhiana: la pagina longhiana.
Ma subito si tradisca questo proposito di abbandonare e appartare l’assunto teorico longhiano in vista della evidenza flagrante della sua scrittura, proprio soffermandosi sulla intenzione di una maniera critica, quale la longhiana, che costruisce la propria tempestività e situazione critica, separando l’intelligenza critico-artistica da ogni ingerenza filosofica, il che è, ancora, un giudizio inevitabilmente ancora filosofico – ed è precisamente la crisi come dialettica dei distinti di quella filosofia che è (stato e fu…) il crocianesimo…
Che vuole – la pagina longhiana? Che vuol-dire che voglia una equivalenza verbale sonora della poesia muta che la pittura è? È questa la maniera longhiana? (E qui bisogna cogliere le ri-sonanze ana-logico-para-digmatiche con la situazione metrica come crisi che giudica: segno e senso e suono… E incidentalmente si pensi pure (a) Euripide: i canti dalla scena: Timoteo riformatore musicale: il virtuosismo: il preziosismo prealessandrino: l’arte per l’arte: ossia tutte situazioni di tagli ab-solutistici… Perciò, se il proprio della poesia è ciò su cui intervengono, intensificandola ossia disattivandola, avanguardie e sperimentalismi – e cioè la metafora: se il metaforico (… ne esiste un altro…?) è un arcano mistero come rappresentazione: se e come il sostituito permanga nella sostituzione… –, allora ecco che euripidea è quella crisi che lascia esistere, accanto a ogni modernità visibile e storica, una possibilità mitica: un mito in-possibile… La maniera euripidea è maniera perché è espropriazione di una arché: del mythos, in una scena cioè in teatro ossia in un tempio come mistero di una profanazione, come insistenza appropriatezza di crisi: una maniera come immanarsi di ulteriorità di mito tali da insediarlo come assolutezze. Parola e musica coabitano lasciando iati centrali messi in scena: inscenati sì, ma solo indefinitamente come luoghi di crisi: di giudizi situanti sia parola e musica, sia mito e storia – sia assegnando a ciascuno una potenza: una potenza di bisogno di: come fenomeni di… Musica e parola – in Euripide – riescono a fronteggiarsi sia valendo partitamente, sia coincidendo sebbene mai anche non coincidendo: sono appunto la crisi di una parola tanto semanticamente presente e-vidente, da lasciare che il semiotico si traghetti sino alla sonorità più marcata autonoma: originale…).
Ed ecco… Longhi… Quel Longhi che conta sui vacuoli lectoris: su di un lettore che non conosca il significato di ogni suo termine: di ogni sua meta-fora: su quella petrosa inquietante maniera che, nel vuoto della evidenza semiotica, lascia il pittorico, il visuale come impossibilità di parola: come possibilità transitività di visibile…
Quindi, il guadagno è come: lo spazio critico-artistico e quello drammatico come lo spaziarsi e il farsi sospesa evenienza di un tempo di presenza: entro una apparenza che, giocandosi ossia insistendo nelle sue schiusure sempre de-motivate e destituite, innesca un in-possibile…
E quanto alla metrica? Come il semiotico metricamente temporalizza un suo spegnimento tale da lasciarsi-accanto la gestione della performazione esecutiva? E, cioè, la semanticità propriamente metrica – che semiotica esigenza è?
Solo una impossibilità che si mostri accanto al semiotico come erramento di una semiosi a caccia di sue giunture e di sue crisi – lascia accanto quella parodia di segniche relazioni che è l’evento del significato poetico. L’eseguirsi stesso delle misure entro cui accade la versura – è una com-binatoria: una metonimicità tale da innescare la obbedienza semantico-metaforica: il significato poetico è una impossibile presenza di una ulteriorità semiotica. La sospensione disattivazione di un codice è una segnatura, cioè una potenza-costruttiva: è neutralizzazione il che non è né mera ripetizione travestita né annichilazione: è aufhebung di aufhebung, ossia coincidenza: neuter: reciprocità del né-né: è una dialettica arrestata…!
L’esecuzione vocale sonora di uno spartito metricamente finito è il mero accadere della neutralizzazione semiotica: questo è il significato della quantità di tempo, che il prodotto di coalescenza logico-politica, ossia politica e poietica impiega-a-finire: a destinarsi nel tramandamento. A noi. Praticandosi…