
Di DIEGO CONTICELLO *
Agli occhi della gente
Essere per queste zolle
sparse il lento verme
che feconda un fango,
defecare i semi
portati dal vento,
germinare un tempo
di perenne estate
ch’evapori questa
malaria di mare
e affacci il sale
nelle facce, nelle
zucche tarlate dei potenti
ormai portenti
del nulla
agli occhi della gente
– che mente cieca –
per sopravvivere
di niente.
*
Sentiero dei muti
Nel sentiero s’erpica
filamentato d’agave ispaniola
con la mora
sorsata
a piene mani,
da zampilli chiazzati
di capelvenere
sbocca foggia
d’oscura spiga.
Ad affioro di scogli
s’incalava
goletta marinale,
un marcopolo di corriera
da rotte imeresi
e muta l’aria
alla galleria d’olmi,
si fa bagnata al fogliame
che morsica il piede,
nel borgo di pescatori muti
scende viottolo minuscolo
dove la salsedine
ha intaccato
tutte le incredulità.
*
Oltre il retaggio
a Barbara
Se del resto siamo
quel “passato che non passa”,
alone di un retaggio,
coazione a inesistere,
per mancato calore
una lotta perenne col
trascurato tralasciando
di non traviarsi,
occorre fare presa
sul presente,
autorizzarsi ad esistere
oltre ogni autorità
un passo autorevole
per non fottersi il futuro.
*
La cicatrice della terra
a Laura Liberale
Nella dimora delle nevi
ad ogni versante
delle bianche piramidi
sgorga perenne una lingua
che allenta la sete
del mondo,
la vista migliore
a non potersi godere.
Solo alle oche indiane
˗ tozzi palmipedi ˗
è dato il privilegio fragile,
il sangue delle altezze,
l’ipossia al limite
della sofferenza
svela e spalanca
la sepoltura celeste,
calda ascensione,
il silenzio delle molecole
che innesca e rinnova altra vita.
Anche il cesello
d’un’infima risaia
è vetrata gotica,
pastoso pantano
dove spunta labile
l’incurante lucentezza
del loto.
Persino le api
difendono il fuco
con onde unisone
cucite
sui fianchi dei dirupi
a preservare nettari
da avide mani
˗ una volta elìtre ˗
perché meglio a tali altitudini
s’intende (ma c’è ancora chi non percepisce)
la rara connessione del tutto
quello che si poteva essere,
quello che si doveva divenire,
forse ciò che si è sempre stati.
*
Imitazioni d’idoli
Imitazioni d’idoli
nient’altro questo
tracciare ghirigori
a illuderci di interrare
o peggio scandagliare
abissi,
recessi scògniti
nudati a brevi brani,
strappati alle mani dell’ignoto,
riconoscenza avara di noti volti
precoce sventura,
camurrìa iattura,
calura affannata
in attesa
d’esalato sbocco
che risciala l’aria turata
a finta di campare.
*
Greggi di grafemi
Greggi di grafemi
trànsumano sensi
da un capo all’altro
del precario spaziotempo
per puro desiderio mimetico,
specchio – talvolta – di neuroni.
Bisogna amare
l’amara ombra,
il grido cavo
degli alberi
cucirsi addosso
ogni terragna lentezza,
per valicare
la sorte per aspettare
terrestremente la morte
senza più capri espiatori.
*
Felicità
D’istanti è piena
la curva dei tempi
e ognuno è punto di corda
d’una eterna intensità
e tale distanza
diciamo felicità.
In slittamento e dispersione
svampano i nostri anni
ma l’equilibrio
sia misura di desiderio
anche quando amara
erompe la caduta
dopo l’acme d’un evo sospeso:
mutare istanti in distanze
(in spazî goduti)
l’unico modo per distinguere e
limitare la perdita,
preservare la speranza.
*
Estetica dell’estensione
Passa il piede a
fatica lenticolare,
tentando di appianare
ciò che ancora ci separa – pare –
dallo spazio
di uno sguardo esteso,
la vana visione,
uno sforzo di tensione
quantomai assediante.
Strapparlo fuori dilaterà
questo nostro tempo,
svelando quanta estensione
possa contenere il fruscìo
della bellezza.