Erich Fromm: Istinti e passioni umane nella definizione della distruttività

Erich Fromm

Di ERICH FROMM *

Poiché la violenza e la distruttività aumentano su scala nazionale e mondiale, specialisti e profani hanno rivolto la loro attenzione a una indagine teorica della natura e delle cause dell’aggressione. Questo interesse non sorprende; sorprende invece che sia così recente, soprattutto se si pensa che, già negli anni Venti, uno scienziato di eccezionale statura come Freud, rivedendo la sua precedente teoria incentrata sulla pulsione sessuale, aveva formulato una nuova teoria in cui la passione di distruggere («istinto di morte») era considerata altrettanto potente della passione di amare («istinto di vita», «sessualità»). Il pubblico, comunque, continuò a credere che nel sistema freudiano la libido rappresentasse la passione centrale, frenata soltanto dall’istinto di auto-conservazione.

La situazione cambiò soltanto verso la metà degli anni Sessanta.

Probabilmente uno dei motivi di tale mutamento va individuato nel fatto che il livello di violenza e la paura della guerra avevano superato una certa soglia in tutto il mondo. Ma vi contribuì anche la pubblicazione di diversi libri sull’aggressione umana, particolarmente Das sogenannte Böse. Zur Naturgeschichte der Aggression di Konrad Lorenz (Vienna 1963) (0-A). Lorenz, uno studioso eminente nel settore del comportamento animale (1) e particolarmente di quello di pesci e uccelli, decise di avventurarsi in un campo di cui aveva scarsa esperienza e competenza, quello del comportamento umano. Benché respinto dalla maggior parte degli psicologi e dei neurologi, Das sogenannte Böse divenne un bestseller e fece una profonda impressione su un ampio settore del pubblico colto, che, in buona parte, accettò l’opinione di Lorenz come la risposta definitiva al problema.

Il successo e la popolarità delle idee di Lorenz ricevettero un grande impulso con la diffusione dell’opera, redatta precedentemente, di un autore di formazione molto diversa, Robert Ardrey (African Genesis, New York 1961 (1-A) e The Territorial Imperative, New York 1961). Ardrey, che non è uno scienziato, ma un drammaturgo di valore, ricompose diversi dati sull’alba dell’umanità in un messaggio eloquente, anche se molto prevenuto, che doveva dimostrare che l’aggressività dell’uomo è innata. Alle sue opere seguirono quelle di altri studiosi di etologia, The Naked Ape (New York 1967) (1-B) di Desmond Morris e Liebe und Hass (Monaco 1970) (1-C) del discepolo di Lorenz, I. Eibl-Eibesfeldt.

Tutta questa pubblicistica propone fondamentalmente la stessa tesi. Il comportamento aggressivo dell’uomo, quale si manifesta nelle guerre, nel crimine, nelle liti personali e in tutte le modalità di comportamento distruttive e sadiche, deriva da un istinto innato, programmato filogeneticamente, che cerca di scaricarsi e aspetta l’occasione propizia per esprimersi.

Forse il neo-istintivismo di Lorenz ebbe tanto successo non perché le sue argomentazioni fossero così forti, ma perché facevano leva su una determinata esigenza. Quale teoria potrebbe risultare più allettante per un’umanità spaventata, che si sente impotente a cambiare la strada che porta verso la distruzione? La violenza ha origine dalla nostra natura animale, da un’irrefrenabile pulsione aggressiva, e la cosa migliore che possiamo fare, asserisce Lorenz, è cercare di capire le leggi dell’evoluzione che giustificano la potenza di questa pulsione.

Ma la teoria dell’aggressività innata diventa facilmente un’ideologia, che aiuta a sopire la paura per quello che dovrà accadere, e a razionalizzare il senso di impotenza.

Vi sono altre ragioni per preferire la risposta semplicistica di una teoria istintivistica a uno studio serio delle cause della distruttività: quest’ultimo, infatti, ci costringe a mettere in dubbio le premesse fondamentali dell’ideologia attuale; ad analizzare l’irrazionalità del nostro sistema sociale, a violare tabù nascosti dietro parole edificanti come «difesa», «onore», «patriottismo». Ma soltanto un’analisi approfondita del nostro sistema sociale potrà mettere a nudo le ragioni di questo aumento di distruttività, o suggerirci un mezzo per ridurlo. La teoria istintivistica si offre di sollevarci da questo compito ingrato, lasciando credere che, se anche dovremo tutti perire, potremo se non altro estinguerci con la convinzione che è stato un destino ineluttabile, determinato dalla nostra «natura», e che, insomma, noi comprendiamo perché doveva proprio andare così.

Dato lo schieramento di opinioni attualmente dominante nell’ambito del pensiero psicologico, la critica alla teoria di Lorenz sull’aggressione umana doveva necessariamente innestarsi nella teoria dominante in psicologia, quella del comportamentismo. Diversamente dall’istintivismo, la teoria comportamentistica non si interessa alle forze soggettive che spingono l’uomo ad agire in un certo modo, non si interessa a quello che egli sente, ma soltanto al suo modo di comportarsi e al condizionamento sociale che plasma il suo comportamento.

Fu soltanto negli anni Venti che, in psicologia, l’interesse si spostò radicalmente dal sentimento al comportamento, dopo di che molti psicologi eliminarono emozioni e passioni dal loro campo visivo, giudicandole dati irrilevanti, almeno dal punto di vista scientifico.

Il comportamento, dunque, e non l’uomo che adotta questo comportamento, divenne l’argomento centrale della scuola di psicologia allora dominante: la «scienza della psiche» fu trasformata nella scienza della tecnica della condotta umana e animale. Questo sviluppo ha raggiunto il suo apogeo nel neocomportamentismo di Skinner, che è oggi la teoria psicologica più largamente accettata nelle università americane.

È facile individuare il motivo di questa trasformazione della psicologia. Più di ogni altro scienziato, colui che studia l’uomo è influenzato dall’atmosfera della sua società. Non soltanto perché il suo modo di pensare, i suoi interessi, gli interrogativi che si pone sono tutti in parte determinati socialmente, come nelle scienze naturali, ma perché nel suo caso è socialmente determinato l’argomento stesso della sua ricerca: l’uomo. Quando uno psicologo parla dell’uomo, il suo modello è costituito dagli uomini che lo circondano, e soprattutto da se stesso. Nella società industriale contemporanea gli uomini sono orientati cerebralmente, sono poco sensibili, e considerano le emozioni una zavorra inutile – quelle degli psicologi come quelle dei soggetti sperimentali. Quindi per loro la teoria comportamentistica funziona a dovere.

L’attuale alternativa fra istintivismo e comportamentismo non favorisce il progresso teorico. Entrambe le posizioni sono a «mono-esplicatrici», si basano cioè su preconcetti dogmatici: ai ricercatori si richiede semplicemente di assestare i dati secondo questa o quell’altra spiegazione. Ma ci troviamo veramente di fronte all’alternativa di accettare la teoria istintivistica o quella comportamentistica? Siamo veramente costretti a scegliere fra Lorenz e Skinner, per mancanza di proposte diverse? Questo libro sostiene che esiste un’altra alternativa, e si pone il problema di delinearla.

Dobbiamo distinguere nell’uomo due tipi completamente diversi di aggressione. Il primo, che egli ha in comune con tutti gli animali, è l’impulso, programmato filogeneticamente, di attaccare (o di fuggire) quando sono minacciati interessi vitali. Questa aggressione difensiva, «benigna», è al servizio della sopravvivenza dell’individuo e della specie, è biologicamente adattiva e cessa quando viene a mancare l’aggressione. L’altro tipo, l’aggressione «maligna», e cioè la crudeltà e la distruttività, è specifica della specie umana, e praticamente assente nella maggior parte dei mammiferi; non è programmata filogeneticamente e non è biologicamente adattiva; non ha alcuno scopo e, se soddisfatta, procura voluttà. Gran parte delle precedenti discussioni sull’argomento sono state viziate dalla mancata distinzione fra queste due forme di aggressione, ciascuna delle quali ha fonti e qualità diverse.

In realtà l’aggressione difensiva è parte della natura umana, anche se non è un istinto «innato» (2) come veniva classificata un tempo. Le deduzioni di Lorenz sull’istinto aggressivo sono esatte finché egli inquadra l’aggressione come difesa (anche se da un punto di vista scientifico rigoroso la teoria riguardante la spontaneità e la caratteristica autorinnovatrice di questo istinto non regge). Ma Lorenz si spinge oltre. Con una serie di ingegnose elaborazioni egli classifica tutta l’aggressione umana, compresa la passione di uccidere e di torturare, come il risultato di un’aggressione originata biologicamente, che un certo numero di fattori trasforma da forza benefica in forza distruttiva. I dati empirici che contraddicono questa ipotesi sono però tanti da renderla praticamente indifendibile.

Lo studio degli animali dimostra che i mammiferi – specialmente i primati – non sono né assassini né torturatori, sebbene possiedano una buona carica di aggressione difensiva. La paleontologia, l’antropologia, la storia offrono ampie prove contro la tesi istintivistica: (Primo) i gruppi umani presentano, rispettivamente, gradi così fondamentalmente diversi di distruttività, che sarebbe impossibile spiegare i fatti col presupposto che distruttività e crudeltà siano innate; (Secondo) i diversi gradi di distruttività possono essere correlati ad altri fattori fisici e alle differenze esistenti nelle rispettive strutture sociali, e (Terzo) il grado di distruttività aumenta con il crescente sviluppo della civiltà, e non il contrario. In realtà il quadro della distruttività innata si adatta molto meglio alla storia che alla preistoria. Se l’uomo fosse dotato soltanto dell’aggressione biologicamente adattiva che egli condivide con i suoi antenati animali, sarebbe un essere relativamente pacifico; se tra gli scimpanzé vi fossero degli psicologi, questi ultimi certamente non considererebbero l’aggressione un fenomeno preoccupante sul quale scrivere dei libri.

Dunque, l’uomo si differenzia dagli animali perché è assassino; è l’unico primate che uccida e torturi membri della propria specie senza motivo, né biologico né economico, traendone soddisfazione. È proprio questa aggressione «maligna», biologicamente non-adattiva e non-programmata filogeneticamente, che costituisce il vero problema e il pericolo per l’esistenza dell’uomo come specie. L’obiettivo fondamentale di questo libro consiste nell’analizzare la natura e le condizioni dell’aggressione distruttiva.

La distinzione fra aggressione benigno-difensiva e maligno-distruttiva richiede un’ulteriore, più fondamentale distinzione: quella fra istinto (3) e carattere, o, più precisamente, fra pulsioni radicate nelle esigenze fisiologiche (pulsioni organiche) e quelle passioni specificamente umane che affondano le radici nel carattere («radicate-nel-carattere o umane»). Discuterò in seguito estesamente la distinzione fra istinto e carattere. Cercherò di dimostrare che il carattere è la «seconda natura» dell’uomo, il sostituto dei suoi istinti scarsamente sviluppati, e che le passioni umane (il desiderio di amore, tenerezza, libertà, come la voluttà di distruzione, sadismo, masochismo, la brama di potere e di possesso) sono risposte a «esigenze esistenziali», a loro volta radicate nelle condizioni stesse dell’esistenza umana. In breve, gli istinti sono le risposte alle esigenze fisiologiche dell’uomo, le passioni condizionate dal carattere sono le risposte alle sue esigenze esistenziali e sono specificamente umane. Mentre queste esigenze esistenziali sono le stesse per tutti gli uomini, gli uomini si distinguono fra di loro proprio rispetto alle passioni che li dominano. Per fare un esempio:

l’uomo può essere guidato dall’amore o dalla passione di distruggere:

in ciascun caso soddisfa uno dei suoi bisogni esistenziali: l’esigenza di «realizzare», o di muovere qualcosa, di «lasciare una impronta».

Che la passione dominante dell’uomo sia l’amore o la distruttività, dipende in gran parte dalle circostanze sociali: queste circostanze, in ogni caso, operano in riferimento alla situazione esistenziale dell’uomo, data biologicamente, con le esigenze che ne derivano, e non a una psiche infinitamente malleabile, indifferenziata, come presume la teoria ambientalistica.

Ma quando vogliamo sapere quali sono le condizioni dell’esistenza umana, ci troviamo di fronte ad altri interrogativi ancora: che cos’è la natura umana? In virtù di che cosa siamo esseri umani? Inutile dirlo, l’atmosfera che regna attualmente nelle scienze sociali non è molto favorevole alla discussione di questi problemi. Considerati generalmente campo di studio della filosofia e della religione, vengono trattati, nel quadro del pensiero positivistico come speculazioni puramente soggettive che non possono pretendere alcuna validità oggettiva. Poiché non sarebbe opportuno anticipare a questo punto le complesse argomentazioni sui dati offerti nel corso del libro, per il momento mi limiterò ad alcune osservazioni. Nel nostro tentativo di definire l’essenza umana, non ci riferiamo a un’astrazione formata attraverso speculazioni metafisiche come quelle di Heidegger e di Sartre. Ci riferiamo alle condizioni reali dell’esistenza comuni all’uomo in quanto tale, così che l’essenza di ciascun individuo si identifica con l’esistenza della specie.

Arriviamo a questo concetto con l’analisi empirica della struttura anatomica e neurofisiologica e delle sue correlazioni psichiche che caratterizzano la specie Homo. Perciò, per spiegare le passioni umane, passiamo dal principio fisiologico freudiano a un principio storico e sociobiologico. Poiché la specie Homo Sapiens può essere definita in termini anatomici, neurologici e fisiologici, dovremmo essere in grado di definirla come specie anche in termini psichici. La prospettiva in cui verranno studiati questi problemi potrebbe essere definita esistenzialista, anche se non nel senso della filosofia esistenzialista.

Questa base teorica ci offre la possibilità di una discussione particolareggiata sulle varie forme di aggressione maligna, radicata nel carattere: il sadismo innanzitutto – la passione di raggiungere un potere illimitato su un altro essere senziente – e la necrofilia, la passione di distruggere la vita e l’attrazione per tutto quanto è morto, in disfacimento e puramente meccanico. La comprensione di queste strutture caratteriali sarà, spero, facilitata dall’analisi del carattere di alcuni famigerati sadici e distruttori del recente passato: Stalin, Himmler, Hitler.

Dopo aver tracciato le linee generali di questo mio studio, sarà forse utile indicare, anche se brevemente, alcune delle premesse e conclusioni generali che il lettore troverà nei capitoli seguenti:

(Primo) non studieremo il comportamento avulso dall’uomo; ci occuperemo delle pulsioni umane, che siano o no espresse in un comportamento immediatamente osservabile. Per quanto riguarda il fenomeno dell’aggressione, questo significa che studieremo l’origine e l’intensità degli impulsi aggressivi e non il comportamento aggressivo indipendentemente dalla sua motivazione; (Secondo) questi impulsi possono essere consci, ma più spesso sono inconsci; (Terzo) per gran parte del tempo sono integrati in una struttura caratteriale relativamente stabile; (Quarto) in una formulazione più generale, questo studio si basa sulla teoria della psicoanalisi; di conseguenza, useremo il metodo psicoanalitico di scoprire la realtà interiore inconscia attraverso l’interpretazione dei dati osservabili e spesso apparentemente insignificanti. Va precisato, però, che il termine «psicoanalisi» non è usato in riferimento alla teoria classica, ma a una certa sua revisione. Gli aspetti chiave di questa revisione saranno discussi successivamente, per ora vorrei dire soltanto che non si tratta della psicoanalisi basata sulla teoria della libido, evitando così i concetti istintivistici che sono generalmente ritenuti l’essenza stessa della teoria freudiana.

Questa identificazione della teoria freudiana con l’istintivismo appare, comunque, molto dubbia. In realtà, Freud fu il primo psicoanalista moderno che, contrariamente alla tendenza dominante, indagò nel regno delle passioni umane: amore, odio, ambizione, avidità, gelosia, invidia; passioni di cui prima si erano occupati soltanto drammaturghi e romanzieri divennero, attraverso Freud, argomento di indagine scientifica (4). Questo può spiegare perché la sua opera trovò un’accoglienza molto più calda e una maggiore comprensione fra gli artisti che fra gli psichiatri e gli psicologi, almeno fino all’epoca in cui il suo metodo divenne lo strumento per soddisfare una crescente richiesta di psicoterapia. Gli artisti intuirono immediatamente che Freud era il primo scienziato ad occuparsi del loro peculiare argomento, l’«anima» umana, nelle sue manifestazioni più sottili e segrete. Con chiarezza estrema, il Surrealismo mostrò l’impatto enorme esercitato da Freud sul pensiero artistico. Contrariamente alle precedenti forme d’arte, accantonò la «realtà» giudicandola irrilevante, e non si interessò al comportamento: quello che contava era l’esperienza soggettiva. Era semplicemente logico che l’interpretazione freudiana del sogno diventasse uno degli elementi che maggiormente influirono sul suo sviluppo.

Necessariamente, Freud diede una formulazione alle sue nuove scoperte secondo i concetti e la terminologia della sua epoca. Non essendosi mai liberato dal materialismo dei suoi maestri dovette dunque trovare un modo di mascherare le passioni umane, presentandole come il risultato di un istinto. Vi riuscì brillantemente attraverso un tour de force teorico: allargò il concetto di sessualità (libido) al punto che tutte le passioni umane (tranne l’auto-conservazione) potevano essere inquadrate come la conseguenza di un solo istinto. Amore, odio, avidità, vanità, ambizione, avarizia, gelosia, crudeltà, tenerezza, tutto fu inserito nella camicia di forza di questo schema, trattato teoricamente come sublimazione, o formazione reattiva delle varie manifestazioni della libido narcisistica, orale, anale e genitale.

Comunque, nella seconda fase del suo lavoro, Freud cercò di uscire da questo schema, presentando una nuova teoria che costituì un passo decisivo verso la comprensione della distruttività. Riconobbe che la vita non è governata da due pulsioni egoistiche, una per il cibo, l’altra per il sesso, ma da due passioni – amore e distruzione – che non sono al servizio della sopravvivenza fisiologica nello stesso senso di fame e sessualità. Tuttavia, sempre legato alle sue premesse teoriche, le chiamò «istinto di vita» e «istinto di morte», riconoscendo così alla distruttività umana sua importanza come una delle due fondamentali passioni umane.

Questo studio libera le passioni – come la tensione d’amore, di libertà, e la pulsione a distruggere, a torturare, a controllare, a sottomettere – dal matrimonio forzato con gli istinti. Gli istinti sono una categoria puramente naturale, mentre le passioni-radicate-nel-carattere sono una categoria sociobiologica, storica (5). Sebbene non siano direttamente al servizio della sopravvivenza fisica, esse sono altrettanto forti – e spesso ancor più forti – degli istinti.

Costituiscono la base dell’interesse che l’uomo ha per la vita, il suo entusiasmo, la sua eccitazione; sono la materia di cui sono fatti non solo i suoi sogni, ma l’arte, la religione, il mito, il dramma: tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. L’uomo non può vivere come una cosa, come un dado gettato dal bicchiere. Soffre intensamente quando viene ridotto al livello di macchina per mangiare o per moltiplicarsi, anche se ha tutta la sicurezza che desidera. L’uomo è alla ricerca del drammatico, dell’eccitante; se non riesce a ottenere una soddisfazione di livello superiore, crea per se stesso il dramma della distruzione.

L’attuale clima di pensiero incoraggia l’assioma che una motivazione può essere intensa soltanto se serve a un bisogno organico: e cioè che soltanto gli istinti hanno un intenso potere motivazionale.

Smantellando questo punto di vista riduzionista, meccanicistico, e basandosi invece su una premessa olistica, si comincia a capire che le passioni umane devono essere considerate nel contesto della loro funzione rispetto al processo vitale dell’intero organismo. La loro intensità non dipende da bisogni fisiologici specifici, ma dalla necessità di sopravvivenza dell’intero organismo, dall’esigenza di crescere sia fisicamente sia mentalmente.

Non è vero che queste passioni diventino potenti soltanto dopo che sono stati soddisfatti i bisogni fisiologici. Esse sono alla radice stessa dell’esistenza umana, e non costituiscono affatto una specie di lusso che ci si può concedere dopo che sono stati soddisfatti i bisogni normali, «inferiori». La gente si è suicidata per l’incapacità di realizzare la propria passione di amore, potere, fama, vendetta.

Virtualmente inesistenti sono i casi di suicidio per insoddisfazione sessuale. Queste passioni non-istintuali eccitano l’uomo, lo accendono del loro fuoco, rendono la vita degna di essere vissuta; come disse una volta von Holbach, il filosofo dell’Illuminismo francese: «Un homme sans passions et désirs cesserait d’être un homme» («Un uomo senza passioni e desideri smetterebbe di essere uomo»). (P. H. D. d’Holbach, Parigi 1822). Sono intense proprio perché, senza di esse, l’uomo smetterebbe di essere tale (6).

Le passioni umane trasformano l’uomo da semplice cosa in eroe, in un essere che cerca di dare un senso alla vita, nonostante spaventosi ostacoli. Vuol essere creatore di se stesso, trasformare la sua condizione di incompletezza in quella di individuo con un certo obiettivo e un certo scopo, capace di raggiungere un certo grado di integrazione. Le passioni umane non sono banali complessi psicologici che si possono spiegare adeguatamente con qualche trauma infantile.

Per capirle, bisogna spingersi al di là della sfera della psicologia riduzionista e riconoscerle per quello che sono: il tentativo umano di dare un senso alla vita e di sperimentare l’optimum di intensità e di forza che egli può (o crede di poter) raggiungere in determinate circostanze. Sono la sua religione, il suo culto, il suo rituale, che deve nascondere (persino a se stesso) se sono disapprovati dal suo gruppo. Certamente, col ricatto o con la corruzione, e cioè con un abile condizionamento, si può persuaderlo ad abbandonare la sua «religione», convertirlo al culto generale del non-io, del robot, dell’automazione. Ma questo rimedio psichico lo priva della sua caratteristica migliore, della sua qualità di essere uomo e non cosa.

La verità è che tutte le passioni umane, sia «buone» sia «cattive», possono essere intese soltanto come il tentativo di un individuo di dare un senso alla propria vita, di trascendere le pure e semplici esigenze di sussistenza. Un cambiamento di personalità è possibile soltanto se egli è in grado di «convertirsi»: di trovare cioè un modo nuovo di dare un senso all’esistenza, mobilitando le passioni-che-incoraggiano-la-vita, sperimentando così un senso di vitalità e integrazione superiori a quelli che aveva prima. Altrimenti potrà essere addomesticato, ma mai guarito. Sebbene le passioni che si trovano al servizio della vita producano un maggior senso di gioia, di integrazione, di vitalità rispetto alla distruttività e alla crudeltà, queste ultime rappresentano, come le prime, una risposta al problema della esistenza umana. Persino l’individuo più sadico e distruttivo è umano, umano come il santo. Potremo definirlo un uomo corrotto e malato che non è riuscito a dare una risposta migliore alla sfida di nascere uomo, e questo è vero: ma potremo anche vedere in lui un uomo che ha preso la strada sbagliata nella sua ricerca di salvezza (7).

Queste considerazioni non implicano assolutamente che crudeltà e distruttività non siano maligne, ma semplicemente che il vizio è umano. In effetti tali pulsioni distruggono la vita, il corpo, lo spirito, distruggono non solo la vittima, ma anche l’aguzzino.

Costituiscono un paradosso: la vita che si rivolta contro se stessa nel tentativo di darsi un senso. Sono le uniche vere perversioni.

Capirle non significa perdonarle. Ma se non le capiamo, non abbiamo modo di scoprire come limitarle e quali fattori tendono ad accrescerle.

Tale comprensione è particolarmente importante oggi, poiché la sensibilità verso i fenomeni di distruttività-crudeltà sta rapidamente diminuendo e la necrofilia, l’attrazione per ciò che è morto, putrescente, senza vita, puramente meccanico, sta aumentando in tutta la nostra società industriale cibernetica. F. T. Marinetti fu il primo a esprimere in forma letteraria lo spirito della necrofilia nel suo Manifesto futurista del 1909. La stessa tendenza emerge in gran parte dell’arte e della letteratura degli ultimi decenni, ostentatamente affascinata da tutto ciò che è putrefatto, non-vivo, distruttivo e meccanico. Il motto falangista «viva la muerte» minaccia di diventare il principio segreto di una società in cui la conquista della natura ad opera delle macchine costituisce il significato stesso di progresso, e in cui la persona umana diventa un’appendice della macchina.

Questo studio tenta di chiarire la natura della passione necrofila e le condizioni sociali che tendono a incoraggiarla. La conclusione sarà che un rimedio in senso lato potrà prodursi soltanto attraverso cambiamenti radicali nella nostra struttura politica e sociale, tali da reintegrare l’uomo nel suo ruolo supremo all’interno della società.

Il motto «legge e ordine» (piuttosto che vita e struttura), la richiesta di punizioni più severe contro i criminali, come l’ossessione per la violenza e la distruzione che caratterizzano certi «rivoluzionari», sono soltanto ulteriori esempi della potente attrazione che la necrofilia esercita sul mondo contemporaneo. Abbiamo bisogno di creare le condizioni adatte perché la crescita dell’uomo, questo essere imperfetto, incompleto – unico nella natura – diventi l’obiettivo supremo di tutti gli ordinamenti sociali. La libertà genuina, l’indipendenza, la fine di ogni forma di controllo e di sfruttamento sono le premesse indispensabili per mobilitare l’amore per la vita, l’unica forza che possa sconfiggere l’amore per la morte.

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Note:

0-A: Trad. italiana: Il cosiddetto male, Milano 1969 [N.d.T].

1: Lorenz definì «etologia» lo studio del comportamento animale, un termine peculiare, dato che etologia significa letteralmente «scienza del comportamento» (dalla parola greca ethos, «condotta», «norma»).

Per definire lo studio del comportamento animale, Lorenz avrebbe dovuto usare l’espressione «etologia animale». Il fatto che abbia deciso di non qualificare l’etologia, comporta naturalmente l’idea che il comportamento umano debba essere sussunto a quello animale. È interessante rilevare che, già parecchio tempo prima di Lorenz, John Stuart Mill aveva coniato il termine «etologia» per definire la scienza del carattere. Se volessi riassumere molto brevemente il contenuto di questo mio libro, dovrei dire che si occupa di «etologia» secondo il significato che Mill, e non Lorenz, ha dato al termine.

1-A: : Trad. italiana: L’istinto di uccidere, Milano 1968 [N.d.T].

1-B: : Trad. italiana: La scimmia nuda, Milano 1968 [N.d.T].

1-C: : Trad. italiana: Amore e odio, Milano 1971 [N.d.T].

2: Recentemente Lorenz ha qualificato il concetto di «innato» riconoscendo la presenza simultanea del fattore dell’apprendimento.

(K. Lorenz, Chicago 1965).

3: Il termine «istinto», sebbene piuttosto antiquato, è usato qui provvisoriamente. In seguito userò il termine «pulsioni organiche».

4: La maggior parte delle vecchie psicologie, come quella degli scritti buddisti, quella greca, la psicologia medievale e moderna fino a Spinoza, si sono occupate delle passioni umane, come argomento principe, seguendo il metodo di accoppiare al pensiero critico un’attenta osservazione (sebbene senza sperimentazione).

5: Confronta R. B. Livingston (New York 1967) sulla questione della misura in cui certe passioni si formano nel cervello; discussa nel capitolo 10.

6: Questa asserzione di Holbach deve naturalmente essere intesa nel contesto del pensiero filosofico della sua epoca. La filosofia buddista e spinoziana hanno un concetto completamente diverso delle passioni: dal loro punto di vista la descrizione di Holbach sarebbe empiricamente valida per la maggioranza delle persone, mentre la posizione di Holbach è esattamente l’opposto di quello che essi considerano l’obiettivo dello sviluppo umano. Per capire a fondo la differenza mi riferisco alla distinzione fra «passioni irrazionali» come ambizione e avidità, e «passioni razionali» come l’amore e l’attenzione per tutti gli esseri senzienti (di cui si discuterà in seguito). Quel che è rilevante nella citazione, tuttavia, non è questa differenza, ma l’idea che la vita imperniata prevalentemente sulla sopravvivenza è inumana.

7: «Salvezza» deriva dalla radice latina sal, «sale» (in spagnolo salud, «salute»). Il significato deriva dal fatto che il sale protegge la carne dalla decomposizione; «salvezza» è la protezione dell’uomo dalla decomposizione. In questo senso (in un senso non-teologico) ciascun uomo ha bisogno della «salvezza».

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* Introduzione a Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana,Arnoldo Mondadori Editore 1975. Titolo dell’opera originale: The Anatomy of Human Destructiveness (1973). Traduzione di Silvia Stefani.

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