Francesco Terzago, “Caratteri” (2016): nota critica di Sonia Caporossi

Francesco Terzago

Di SONIA CAPOROSSI *

Francesco Terzago è un versificatore piano e terso, che della movenza narrativa e del periodare ampio fa la sua linea di forza. Egli perpetra l’attitudine alla narrazione di spaccati di vita vissuta attraverso il recupero di un dettato pasoliniano specifico: la quieta osservanza della forza icastica e rappresentativa dell’enjambement come figura di spezzatura sintattica atta a evidenziare le incidenze di senso sparse nel testo è un punto di forza del suo poetare, come anche il recupero di immagini tratte dalla quotidianità più immediata, in una comunicabilità estetica assoluta di gesti, personaggi, ambientazioni, interni ed esterni che si stagliano dallo sfondo panoramico fino ad autoevidenziarsi come correlativi oggettivi di stati emozionali e sentimenti mai stereotipati, bensì sempre dotati di una singolarità assoluta. Poeta della lontananza, ha saputo raccontare in questo modo, per successive ipostasi di sensazioni, lo scacco irriducibile della migranza, del disorientamento urbano ed esistenziale, dello spaesamento e del recupero della propria forza, riportando in termini figurali quasi danteschi a tratti, attraverso un recupero sistematico della similitudine e dell’immagine pittorica, la solitudine, la perdita dell’amore, l’amicizia, la scomparsa dell’individuo fagocitato nelle fauci del mostro metropolitano contemporaneo, come “ricordandoci il sottile discrimine / tra l’esistenza e la mancanza”. Con le ali degli aerei di linea internazionale e i sacchetti di patatine McDonald’s, descrivendo vite avvolte dalla necessità diafana della separazione e della distanza, Terzago ha caratterizzato un territorio narrativo della poesia che riesce a fondere, in qualche modo, la liricità con l’istanza più tipica della poesia civile. Caratteri è un libro che presenta in copertina l’ideogramma cinese Ren ripetuto cento volte, con una singola casella vuota che scorre verso destra a ogni copia, rendendo così ognuna diversa dall’altra. In una nota interna il poeta prescrive al lettore di riempire personalmente quel “vuoto” del carattere. Ren in cinese significa “persona”, ed è così evidente l’allegorismo ammiccante alla necessità imprescindibile di ognuno di saper riempire da sé le assenze e i vuoti di memoria e di senso ognuno della propria storia personale. Attraverso un ripiegamento intimistico e lirico, Francesco Terzago riesce in queste poesie a rimandarci a mente la dimensione metastatica della ricerca della propria centratura. I testi, così come sono ordinati all’interno del libro, assumono la valenza di una sorta di Bildungsroman universale, romanzo in versi di una formazione personale da ragazzo a uomo a poeta.

Francesco Terzago, Caratteri, autoproduzione 2016

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DEDICA

Mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén
diceva e mi appoggiava una mano sulla testa
e mi diceva che era stanca. Vedi lipscén le stelle
che sono sopra di noi, il cielo – l’universo che
non ha confini pensa – a tutte le cose che ci sono
dentro pensa agli anni che ci separano e pensa
a quante persone, in questo preciso momento,
ed è possibile che sia così – tesoro, lipscén – si
staranno parlando delle stesse cose, e ci sarà una
brutta donna come me che piange dicendo al nipote
cose come queste. Lassù vorticando su delle
pietre azzurre come la terra – che è una pietra azzurra
anche se il suolo è velenoso e non devi mettertelo
in bocca quando fai i tuoi giochi, mi raccomando
lipscén, tesoro, e pensa che siamo degli atomi
tenuti assieme senza un apparente motivo, perché
siamo fatti così? Fatto sta che lo siamo. E che
questi atomi ci saranno sempre, – questi atomi
ci saranno, anche quando io non ci sarò più, –
in questo modo – e non mi potrai parlare né
ascoltare. E non ricorderai più il timbro della mia voce
che ora ti è così familiare, – né questo volto rugoso
con cui ti addormenti. Perché mi sarò fatta cremare.
E mi si potrà tenere in una scatola per le scarpe
se lo vorrai. Ma quegli atomi lipscén, tesoro, chissà
che il tempo non passi per essi a una velocità differente,
che per loro il tempo sia ben poca cosa, almeno
a confronto del nostro. E io, credo, ti aspetterò
in una sala come questa o migliore. E ci sarà un momento
in cui questi atomi si riuniranno e io sarò di nuovo qui
e anche tu lo sarai, che nel frattempo avrai fatto la tua vita,
anche tu morto, passato per la vecchiaia –. E sarai
di nuovo. E ci troveremo assieme da qualche parte,
appunto. Tu, io, tua mamma, tutti quelli che vorranno.
Tutti assieme. E capendo la cosa incredibile che ci è successa
potremo stare assieme e non incontrare più la tristezza
di questa vita o il disfacimento. Sono molto stanca lipscén,
tesoro. È tardi, sono molto stanca. O forse saremo
gli stessi. Un’altra volta come questa, ma non ci ricorderemo
nulla di quello che siamo adesso. E non avremo da passare
assieme che il tempo che già abbiamo avuto, e faremo
gli stessi discorsi rammaricandoci di avere poco tempo,
io ti parlerò per l’ennesima volta di queste cose, e questo
inverno passerà ancora. E qualcuno ti chiamerà un giorno
che sarai lontano. Ti chiamerà per dirti che sono morta.
Ma sarai abbastanza cresciuto per affrontarlo,
quella voce ti dirà che ho deciso di farmi cremare.
Prenderai questa notizia come tutte le cose inaspettate e,
arrivato a casa, ti siederai da qualche parte pensando
a queste parole che ora ti sto dicendo. Ho tanto sonno,
mio tesoro.

*

ESORCISMO

Ci sono stati periodi in cui appoggiavi la testa
sul mio petto, pomeriggi assolati nel lento inverno
di città. Stavi così e piangevi come un’annegata.
Io ti accarezzavo le guance. E ti dicevo di non
pensarci, perché tutto si sarebbe messo a posto.
Mi raccontavi, ma la tua voce era quasi silenzio,
che certe cose non sono capaci di attendere.
La tua era una vita a testa ingiù. Almeno noi due
siamo noi due, replicava il me di quei giorni. Poi,
quelle stesse tue parole ti conducevano alla quiete
di un sonno inquieto. Dopo un po’ appoggiavo
il libro al tuo fianco e ti scostavo. Ti scostavo piano
così da non svegliarti. Raggiungevo il sentiero,
il sentiero quasi invisibile, il sentiero che insegue
la strada ferrata fino agli incolti. Lo misuravo
nei passi – ogni volta che ci andavo. Trecento, trecento
e ventuno, duecento e cinquanta quattro. Ma le finestre
delle fabbriche, e delle case nere – come tizzoni
spenti – aspettavano là, ogni volta, nello stesso numero.
C’era, davanti al sottopassaggio, un vecchio fusto,
un vecchio fusto di ferro – qualche volta
mi fermavo davanti a lui e ci facevo a botte.
Era un buon avversario, uno di quelli che non
si lamentano e stringono i denti. Ogni fibra
del mio essere riverberava – quasi io stessi percuotendo
il timpano del pianeta. Ero, a quel modo, sollevato
dal mondo – potevo sentire il vento sulla pelle,
il vento che in giornate come questa sgombra il cielo
di ogni fardello. E nella città decide delle
nuove distanze di ghiaccio – oggi, ciò che ci è chiaro
è ciò che ci è lontano. Hai ragione, mi dicevo, non
c’è scampo. Tornavo a casa ripetendomi che sempre
lo inseguiamo. È il lavoro – il lavoro che va
da una parte all’altra, senza dirci niente.
Vorrei che andassimo assieme nel luogo dove il Bounty
condusse uno scampolo di umanità. Si chiama Pitcairn,
ed è solo una voglia tra le scapole dell’Oceano Pacifico.
Potremo starcene su quell’isola per un po’, o per sempre.
La grigliata di pesce ti è sempre piaciuta parecchio
e hai sempre detto che la faccio bene.
Qualcuno dei nostri amici prima o poi ci raggiungerebbe,
di questo stanne certa. E allora saremmo
in buona compagnia – per attraversare il territorio
della vita. Il pomeriggio il cielo si stenderebbe come
una vela e noi ci schiacceremo nell’erba allo stesso modo
dei rospi che prendevi con il retino quando
eri bambina. Il mare farebbe i suoi esercizi
di stretching davanti ai nostri occhi e, dopo
essersi infranto, tornerebbe lo stesso di sempre.
La mansuetudine trarrebbe un nodo solo
dai lacci delle nostre scarpe e a quel modo
ci farebbe inciampare, ci ricorderebbe la vita
con un trascurabile dolore. Potremmo starcene laggiù,
quasi al di là di tutto, sarebbero anni più felici
che tristi. E di quel tuo pianto rimarrebbe l’estemporaneo
getto dell’ombra, una maschera qualche volta
affiorerebbe dai flutti, mutevoli, fuori
da questa baia, e sarebbe inafferrabile
per i becchi dei grandi rapaci oceanici.
Quasi ogni giorno andavo da loro, persone
che, ora, per un motivo o per un altro, non vedo più.
Abitavano sopra una piccola impresa di pompe funebri,
le tende sempre tirate erano nere. Percorrevo
strade dove incrociavo altri come me. Mi guardavano
per farmi capire di essere guardato. Non era un problema,
me lo ripeteva sempre mio padre, l’importante è non
fermarsi mai. Io non ho mai conosciuto qualcuno,
dentro a questa vita di strade, che abbia avuto fortuna
o privilegio di farsi una sosta, di frenare la rivoluzione
incombente del pianeta anche se solo per un istante.
Nell’ultimo periodo della mia permanenza andavo da loro
con maggiore frequenza. Erano tutti più grandi di me
ma ognuno di noi faceva parte del progetto,
un cubetto di lego, si sarebbe potuto dire, della stessa rovina;
questo era sufficiente ad avvicinarci. Ci divideva
un tavolo verdastro, l’ultima notte che ho passato in loro
compagnia. Abbiamo giocato a poker i nostri ultimi soldi,
nessuno aveva la forza di dire basta. Parlavamo di tante cose
e tra queste della vecchia che abitava in quella casa
prima che ci andassero loro. Quella casa al primo piano,
sopra all’impresa di pompe funebri. Parlavamo dei pesanti
mobili di legno inscurito dal tempo, i vecchi mobili
che la vecchia non si era portata nella tomba. Alla fine
si lascia tutto da questa parte perché in paradiso
l’appartamento ti viene assegnato, non puoi scegliertelo,
e non ci sono nemmeno le torri di marzapane né i fiumi
di latte e miele che mia nonna mi descriveva quando,
da bambino, avevo la febbre. La vecchia, come in un racconto
di Stevenson, nelle notti d’inverno raschia la pancia del solaio.
I ragazzi si sono abituati a quella compagnia,
così, quando sentono lo scalpiccio dello spettro
per loro è come dormire sottocoperta, cullati nel mare
delle Antille. Il dolore è qualcosa di elastico, questo
è il problema. Abbiamo bevuto vodka secca, l’ultima volta
che sono stato da loro. Vodka secca portata
dalla Cecoslovacchia. Con succo di albicocca
e un po’ di ghiaccio. Ma in quei giorni faceva troppo caldo
per il ghiaccio, si scioglieva nel bicchiere
come burro in una minestra, lasciava una leggera patina
di cloro cangiante – nella luce al neon.
Quella notte è passata in fretta e ho vinto la partita a poker,
il mattino è rotolato fuori da un punto imprecisato del cielo.
È caduto sulla città senza fare rumore. Quando
mi torna in mente quel periodo della mia vita
penso che tutto stia nell’elasticità di esserci, di esserci a metà
e di non esserci del tutto, come stare in bilico sul trampolino,
da questa parte, quasi da un’altra parte, allo stesso tempo.

*

Il corriere è passato questo pomeriggio. Ci vorranno
quattro giorni, ti dico al telefono, perché tutto sia da te.
A Shanghai la pelle del viso ti si screpola, il clima
è più secco che a Canton. Nel vano di carico, i tuoi
dodici colli vengono mischiati ad altri cento colli.
Cerco di tenere a mente quali siano quelli
che contengono le tue cose ma non ci riesco,
si confondono. È la tua vita, quella nei dodici colli
che si mischia ad altra vita. Divisa, per il momento,
dalla nostra vita. Bianchi erano bianchi, i nostri armadi
– ora sembrano di fredda pietra lunare, l’umida brezza
è arrivata dal balcone, si è posata sulle mie spalle
come una vecchia coperta. Se ne stanno nell’altra stanza,
uno affianco all’altro, ritti come menhir, i miei armadi,
la luce che tracima dalla finestra si spalma sul pavimento,
loro si sono messi sulle punte dei piedi ed è
per questa ragione che con le loro teste arrivano
a sfiorare il soffitto. Cerco di non andarci, di là, nella
stanza dei menhir, ho paura che vedendomi possano
prendere paura – perderebbero l’equilibrio, non voglio
che mi cadano addosso. Ho spostato il computer
in soggiorno, ora lavoro su quel tavolo dove
abbiamo cenato senza dirci altre parole che
buon appetito. – La porta che divide il soggiorno
dalla stanza dei menhir ha un sigillo di quiete. Eppure
se ora la spalancassi, d’improvviso, e raggiungessi uno
di quegli armadi – se io poi lo aprissi, senza tentennamenti,
chissà con quale maleficio, vi troverei dentro le tue cose,
nel disordine e nei colori caldi che contraddistinguono l’esistenza,
là come nelle giornate che hanno preceduto la tua partenza.
Sarebbero le stesse cose, io credo, ma non sarebbe la stessa vita.
L’odore dell’asfalto bagnato, l’odore dell’ultimo taxi
per l’aeroporto, per un momento, si alzerebbe davanti a me,
si dissolverebbe nelle lingue della mia memoria, su tutto
scenderebbe la stessa sonnolenza.

*

Vorrei dire, agli altri passeggeri che mi sono vicini,
che spettacolo, che gran spettacolo, quest’ala
che ondeggia al mio fianco, pare quasi che
il suo vertice sia una lama puntata alla giugulare
del crepuscolo, ma è un’illusione. Che spettacolo,
vorrei che lo sapessero ma alcuni di loro
hanno il viso infilato in un sacchetto di carta, altri
stanno soffocando il finestrino con una coperta viola.
Qualcuno se ne sta con gli occhi chiusi, fingendo
di dormire e allora me ne sto zitto a contemplare
quest’ala. Mi accorgo che è simile al corpo flessuoso
di un pesce gatto, un pesce gatto che sta
risalendo la pigra corrente di un canale di irrigazione,
è un morbido movimento, una lenta esse.
Da mezzora il nostro aereo è scosso
in ogni direzione. È cominciato non appena
abbiamo concluso il pasto: noodle con piselli
e cubetti rosa di carne di maiale. Ho sempre trovato
curioso che le compagnie aeree cinesi
distribuiscano queste grigie posate di plastica –
capisco che sarebbe una scena poco edificante
una baruffa ad alta quota che veda i suoi contendenti
brandire bacchette lunghe come spilloni. L’aereo
sul quale sto viaggiando, per un istante, affonda.
Ora, un istante dopo, è più giù di alcune decine
di metri (centinaia?), un altro istante, ancora affonda.
È quasi come se questa nostra esistenza avesse
lasciato la presa, avesse ritratto, delle due,
la sua mano munifica. Il vuoto d’aria. Il vuoto d’aria
è un silenzio che si diffonde lungo tutta la cabina,
che scende come un balsamo bianco e ci segna
la fronte; anche il ragazzino, tre file avanti a me,
ha smesso di parlottare con sua madre e di fare
i capricci per il suo tè. Ognuno dei passeggeri
stipati con me in questa siringa di metallo, nell’aereo
della Shanghai Airlines, meraviglioso esemplare
di Boeing 767, sta pensando che il senso di ogni cosa
stia in quel segreto che risponde al nome di ‘peso’
– mentre cadiamo ci pare di non averne più, sentiamo
qualsiasi cosa dentro il nostro corpo diffondersi
e rivoltarsi. Quando, alcuni secondi più tardi
l’aereo riprende quota, so per certo che ognuno
di noi si è gonfiato d’elettricità. Sono
gonfio di elettricità, sono un rospo elettrico.
Sudo elettricità. Ho invocato, con le mie preghiere,
il dio benigno dell’alluminio e ora mi sento gonfio
di elettricità. Ala, ala mia – flessuosa come il corpo
di un pesce gatto, te ne prego, ala che stai
sempre al mio fianco, che sei tutta attorno a me. Ala
che raggiungi l’orizzonte, che buchi l’orizzonte,
che lo fondi, che lo pieghi e che lo intrecci
facendone un canestro di scie… Ala, lubrificata
come il corpo di un pesce gatto. Una forza
aveva consegnato all’ala una vita
apparente. Come se lei fosse divenuta, per un poco,
carne e lega metallica. Uomo e macchina
nel medesimo istante, nel medesimo luogo,
l’ala fu tutt’attorno a noi e noi fummo lei, trascesi
alle giunture metalliche, ai cilindri idraulici,
ai flap, agli slat e agli spoiler – ogni bullone,
ogni singolo bullone, sino al carburante, pompato
nelle turbine come sangue, e ai bluastri
circuiti elettrici guizzanti. E fu forse troppo facile, in quei
minuti euforici, dimenticare che c’era un altro mondo
in attesa, al disotto delle sconvolgenti nubi, un mondo
spaventoso e amato. C’era solo l’ala, il tintinnio
della carlinga, i motori sagomati dalla velocità, c’erano
le nubi ribollenti come quando, nella torrida estate,
uscimmo dimenticandoci il pane a lievitare. Quando
la sera tornammo una massa ribollente aveva inondato
il tavolaccio dandoci prova del fatto che alla vita
non basta il principio – la vita è mutamento.

*

Siamo entrati nel nuovo appartamento,
diciannovesimo piano, diciannovesimo pianto,
vista sui grattacieli che stanno rimpiazzando
uno degli ultimi villaggi. Pulendolo
ho avuto modo di comprendere che la polvere
ci è sgradevole solo in modo transitorio,
poiché con l’umidità di questi luoghi presto
si raggruma, si fa terra, si fa muschio bianco,
erba nera; chissà – con la dovuta pazienza
sarà la radice, che scenderà giù, nel profondo,
tra le scapole. Non sono mai stato un buon cristiano
ma dico tra me e me, polvere sei, polvere
ritornerai – tu, amore, dall’altra stanza,
mi chiedi se ti stia chiamando, ti rispondo
che vita siamo, vita – siamo.

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* nota critica letta a Bologna in occasione della Cerimonia Segnalati del Concorso Letterario Bologna In Lettere 2018 il 29/09/2018.

Un pensiero riguardo “Francesco Terzago, “Caratteri” (2016): nota critica di Sonia Caporossi

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