Guido Turco, due Esercizi di Ammirazione inediti

Di GUIDO TURCO

Era nata in un paese

Per A.K.

Era nata in un paese che non era quello in cui viveva. Questo l’aveva accolta, lei era riconoscente, ma a modo suo, senza manifestarlo troppo apertamente, semplicemente odiando di meno i suoi abitanti. Era un paese accogliente, che non regalava grosse emozioni. Il suo verde è un verde consueto, ce n’è troppo e dappertutto. Gli autobus filano senza rumore. Ai supermercati non ci sono mai code e gli scaffali sono sempre pieni di merci. All’inizio lei non parlava la lingua del paese che l’ospitava. Era fuggita con un misero fagotto, un pargoletto e un uomo. Fuggiva dalla miseria e dall’oppressione, dalla mancanza di libertà. La fame poteva sopportarla, ma non poter fare quel che voleva, no, questo non poteva andare. Fuggì perché era giovane, e i giovani fanno cose, le fanno senza pensare troppo a quello che poi succederà. Arrivò in un paese, un altro che non era questo. Ci arrivò ma non la tennero, le dissero che doveva andare da un’altra parte. Quando finalmente si sistemò “da un’altra parte” si sentì subito sola. Sarebbe rimasta sola per tutta la vita, nonostante tre figli e un paio di mariti, nonostante da un certo punto in avanti la sua figura suscitasse l’attenzione di un sacco di persone. Successe infatti che un sacco di gente voleva parlare con lei, ascoltarla, come se avesse delle rivelazioni da fare, delle spiegazioni da dare. Lei non capiva quell’interesse, non lo capì mai. Tutte quelle domande la infastidivano, quella curiosità invadente. Si fece fama di essere antipatica, presuntuosa, scostante. Ma a lei non interessava. Coltivava la sua solitudine, inscalfibile da quando la sua lingua l’aveva lasciata. La nuova lingua l’aveva imparata a forza. Doveva lavorare per mantenere i figli, del marito gli importava meno. La nuova lingua si impossessò di lei, poco a poco si fece forza e gliene diede. Lei la prese, all’inizio per maltrattarla, ma poiché la lingua non dava ad intendere di volersene andare, ella si diede a volerle bene. Le prime cose che scrisse erano dei dialoghi. Qualcuno le disse che sarebbero andati benissimo per essere recitati. Li produssero come pièce per la radio, poi per il teatro. Anche il suo primo romanzo nacque per caso, come un amore improvviso che arriva e se ne va. Lo pubblicarono in un’altra nazione da quella in cui viveva, ancora un’altra. Poi anche altri paesi e altre lingue vollero pubblicare il suo lavoro. Lei era sempre più spaesata, se c’era qualcuno di improbabile per diventare l’emblema dello scrittore più rappresentativo della sua epoca, questo era lei. Ma fu proprio che successe. La sua scrittura era secca, dura e asciutta, ciò nonostante ebbe un successo vertiginoso. Scrisse altri romanzi, creature bastarde come lei, ispirati da un paese e da una lingua che non c’erano più, o che se c’erano ancora non erano più quelli che lei ricordava. Pensava ai suoi fratelli, a quando era bambina, a suo padre che faceva l’insegnante, alla strana felicità dell’infanzia, che è strana perché è una felicità felice, anche se c’è la guerra e la fame, se hai i piedi freddi e fai i tuoi bisogni in un cesso puzzolente. Morì dopo aver vissuto gli ultimi anni schiava di un corpo malato, un corpo che non sopportava più, e una fama grande, insopportabile anch’essa. Lasciò tanti quaderni, pieni di una calligrafia obliqua. Sulla sua tomba c’è una data e un nome. Io qualche volta vado a trovarla, mi siedo vicino alla tomba, sposto qualche sasso con i piedi, e le faccio delle domande. Lei si assesta gli occhiali con il solito gesto, come fossero sempre sul punto di cadere, poi mi ricorda che è morta e che vorrebbe essere lasciata in pace, ma che ancora una volta farà un’eccezione, che le chieda quel che voglio sapere a condizione di fare in fretta, che vuole essere lasciata sola con i suoi vermi e con lo spettacolo dell’erba che spinge dal basso.

Il piccolo pianeta n° 2817

Per G.P.

Immagina un uomo che ti chieda di immaginare un uomo che ti sta guardando immaginare. Immaginalo alle prese con un palindromo di cinquemila lettere, nell’intento di scrivere un romanzo dove la lettera “e” non compare mai, o un romanzo dove la lettera “e” sia l’unica vocale usata. Figurati il rumore di fondo della vita, l’infra-ordinario come la radice di tutto ciò che è lecito apprendere, immagina qualcuno padrone di un segreto che nessuno vuole sapere ma che tutti devono indovinare. Pensa a qualcosa come il vapore che si condensa in nuvole, alla muta sospensione della pioggia sulla seta degli ombrelli, soffermati sui percorsi dell’altezza che diventa pozzanghera. Ora disegna uno sguardo, due occhi sorridenti, ripeti qualcosa come una rosa non è una rosa dunque è una rosa, ovvero le costellazioni si perdono chissà dove, i numeri dall’aria, i fulmini come scale a salire, gli alfabeti del cuore, la mano stesa affinché gli uccelletti ci arrivino a becchettare per poi volare più in là, da qualche parte, al 24 dell’Argine dell’Eternità.
Per dodici anni, alla stessa ora dello stesso giorno dello stesso mese, munito di una tabella bi-quadrato ortogonale di ordine 12 che gli aveva fornito un matematico indù, G.P. tornò a sedersi nello stesso luogo. Una volta sul posto, si soffermava a considerare la crescita di un albero, il via vai delle persone oppure in che modo la disposizione delle panchine fosse cambiata. E le scritte sui muri, le insegne dipinte ora tubi al neon, il pavé sostituito con losanghe grigie, una vetrina dove prima si trattenevano i riflessi diventata un muro con affissi gli annunci degli studenti. Una volta arrivato nel suo studio G.P. ripeteva a memoria lo stesso luogo, tirava l’acqua che il secchio del ricordo sapeva cavare da ognuno di quei dodici pozzi: il taglio di un abito, i colori del camion dei pompieri, la segreta complicità nell’incrociarsi dello sguardo di due passanti. Per dodici anni, nello stesso luogo, alla stessa ora dello stesso giorno, con la leggerezza dell’intonaco che cade da un muro, egli rinchiuse i Soli Loci in una busta, sigillandoli con la ceralacca, mittente e destinatario di un metafisico divertissement teso a scovare il carattere immobile della ripetizione, l’inebriante della vertigine della compiutezza.

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