Giovanni Gentile, L’insegnamento della filosofia nei Licei

Giovanni Gentile
Di GIOVANNI GENTILE *
Dato tale inscindibile rapporto, come di forma e contenuto, tra spirito e lingua, è evidente che la questione dello studio delle lingue deve rifarsi da un criterio storico. Ecco qui: prima di tutto, voi volete insegnare, in Italia, la lingua italiana; e insegnare questa lingua, — già questo si ammette generalmente, — significa formare lo spirito: con qual forma? Con la forma spettante allo spirito italiano, diversa certo dalla forma spettante allo spirito francese, allo spirito tedesco ecc. Infatti nessuna prosa italiana sarebbe peggiore, non dico di quella che accogliesse le forme etimologiche francesi o tedesche, ma le sintattiche. E nelle forme etimologiche e sintattiche è tutta la individualità di una lingua. La forma spettante allo spirito italiano è la vivente lingua d’Italia appunto pel criterio storico, che mi dice che lo spirito anche in Italia ha avuto una storia dal Duecento a questa parte, e ha camminato; e non può quindi esser rimasta ferma la forma, di cui lo spirito è l’inseparabile contenuto. Ma per la stessa ragione per cui ogni produzione dello spirito è essenzialmente la sua storia; la lingua vivente d’Italia si adegua alla lingua veramente storica d’Italia, dalle origini in poi. Qualche cosa, nel corso del tempo, è andata morendo; ma la parte sostanziale è sopravvissuta; il genio particolare, come si dice, è sempre quello; come nella vita dell’individuo mutano i mores, rimane costante incancellabile una propria individualità, un certo temperamento, tutto l’essenziale delle caratteristiche dell’individuo. Quindi è saggio consiglio dare a studiare oltre la «prosa viva», anche la prosa storica, senza il cui fondamento è molto difficile che la prima acquisti e conservi vera e schietta fisonomia d’italianità. Per la stessa ragione, per la quale, oltre il Manzoni, va letto Dino e il Machiavelli e il Galilei, va pur letto Cicerone e Platone, che ci dànno la nostra lingua stessa viva in uno stadio più remoto del suo perenne svolgimento. Ben aveva ragione il secolo XVIII di combattere lo studio delle lingue classiche; perché col suo spirito antistorico esso non intese né che fosse una lingua, né, tanto meno, che fosse la storia d’una lingua. Ma combatterlo un’altra volta nel secolo, che ha speso tutta la sua attività a correggere con la storia le teorie astratte del precedente, è un anacronismo: tanto più grave in Italia, dove quel solitario del tempo suo, che fu il Vico, unico in tutto il secolo XVIII, intese non solo il valore della storia in generale, ma intuì meravigliosamente anche la vera teoria del linguaggio. Formare lo spirito italiano non è impresa da patrioti, o da letterati, da retori, da cruscanti o che so io; anzi la prima e la suprema opera dell’educatore, nel suo programma minimo. Formare italianamente lo spirito italiano in Italia significa né più né meno che formare lo spirito, dargli quella forma senza la quale esso non esiste, né può avere alcuna realtà concreta. Che questa forma abbia da essere la italiana, e non la francese né la tedesca né altra, è una necessità storica, indipendente dall’opera dell’educatore. Ma formare uno spirito italiano, cioè imprimere nello spirito la forma o la lingua italiana, equivale, per ciò che si è detto, a fare studiare la lingua nella sua realtà storica, e rimontare quindi per lo meno al latino; ma molto meglio, anche al greco, non solo perché le due lingue rampollano da un medesimo ceppo più antico, ma anche per la influenza grandissima della greca sulla latina nel periodo storico.

Ma io dico: il nostro spirito è sostanzialmente lo stesso spirito classico, greco-romano, giunto a un ulteriore grado di svolgimento; e può esser quello che dev’essere, in quanto è lo stesso spirito greco-romano maturato fino al presente grado di svolgimento. E se lo spirito è concreto in quella sua particolar forma, che è la lingua, il nostro spirito, italiano e moderno, acquista la sua forma reale rifacendo in sé quello antico spirito nella reale concretezza che gli è propria, nella sua lingua nativa. Qui non si tratta di essere in un modo o in un altro; in un modo migliore per un verso o per un altro; ma di essere o non essere. Lo spirito moderno c’è, in quanto racchiude in sé lo spirito antico; né lo spirito moderno né quello antico si ritrovano fuori delle rispettive lingue, che ne sono, ripeto, la forma concreta. So bene che non si sarà disposti a menarmi buona questa ragione, che io credo la sola inoppugnabile a sostegno dell’insegnamento delle lingue classiche; e non è questo il luogo opportuno a trattarla ampiamente e confermarla con considerazioni di fatto. Non voglio per altro tralasciare di esprimere anche qui la mia ferma convinzione, che la pedagogia dev’essere una scienza, e non un’opinione; e che la discussione presente comporta argomenti più o meno plausibili per entrambi le tesi opposte, appunto perché essa si fa al di fuori del campo in cui è possibile una deduzione scientifica, sul terreno degli argomenti (stavo per dire delle chiacchiere) più o meno probabili. Per me, non è dubbio che l’unico principio pedagogico a difesa degli studi classici è quello della storicità del sapere; concetto filosofico, che non è materia opinabile. Se tutti non convengono della necessità degli studi classici per l’apprendimento sicuro e consapevole, cioè pel vero apprendimento della lingua nazionale, tutti per altro son d’ accordo intorno a ciò, che è pur conseguenza delle osservazioni ora fatte sulla natura della lingua: essere cioè possibile accompagnare lo studio della lingua nazionale con quello delle classiche. Ma ciò che tutti non vedono, è appunto l’impossibilità di accompagnarlo con quello delle lingue straniere. Impossibilità reale; ed è da augurare che se ne accorgano quanti aspettano l’esito dell’esperimento che si vien facendo per una graduale riforma dei nostri licei. Essa discende dal concetto stesso di lingua come forma concreta dello spirito; poiché la forma è unica, e non può non esser tale. Pigliate un pezzo d’argilla, e plasmatela come volete; ma non le potrete imprimere mai più che una forma. Se volete farne contemporaneamente un orciuolo e un mattone, non farete né l’una cosa né l’altra. Il voler contemporaneamente conferire due forme a una stessa materia, è uno di quei propositi vani che rompono inevitabilmente nello scoglio (come dire?) della metafisica. Aristotele per primo l’ha detto: la realtà consiste nel singolo, unione necessaria della materia e della forma; vale a dire non v’ha materia senza la sua (quindi unica) forma; né v’ha forma al di fuori della materia. Così avrete dato realtà allo spirito, quando gli avrete dato la forma sua, la forma che gli spetta per la società in cui viene a trovarsi, nella storia in cui attuerà la sua concreta esistenza. Ora tra italiano,latino e greco c’è identità, unità di forma; ma tra l’italiano e le altre lingue moderne c’è differenza, alterità, repugnanza: c’è repugnanza già tra italiano e francese; ma la repugnanza diventa grandissima tra l’italiano e il tedesco. L’italiano e il francese hanno almeno una comunanza d’origine; né sono gravi le differenze, — che pur ci sono, né trascurabili, — lessicali e grammaticali; ma l’italiano e il tedesco sono proprio le forme correlative a due spiriti assolutamente differenti per lessico e per grammatica. E come si può pretendere d’imporre due lingue così ripugnanti, due forme così differenti a uno stesso soggetto che è ancora nel periodo della sua formazione? Poiché si tratta appunto di questo nella scuola media: non si sa ancora la lingua nazionale, non si è ancora sicuri nel maneggio di essa, lo spirito non è ancora in possesso d’una sua forma. E la forma diversa, entrando in contrasto con la precedente già in corso di studio, quale miglior esito può avere di quel che s’avrebbe da chi s’affannasse a foggiare con uno stesso pezzo di ferro due arnesi diversi? Senza dire della ripugnanza che viene ad esserci anche tra il francese e il tedesco; onde si otterrebbe proprio un bellum omnium contra omnes, con quel vantaggio di ciascuna lingua che è facile immaginare. E già non c’è bisogno di tirare a indovinare: da qualche anno si fa l’esperimento del francese nel ginnasio, e tutti sanno quanto poco si profitti e nel francese e nell’italiano, se già non s’intende per sapere l’italiano lo scrivere scorretto e impacciato, proprio ormai della nostra scuola liceale, scrivere che dimostra ai ciechi quanto informe sia ancora lo spirito dei nostri giovani; e per sapere il francese, il non esser capace di leggerne esattamente una sola parola.

Le lingue moderne sono incompatibili con l’italiana nel periodo di formazione dello spirito, proprio della scuola media. Bisogna che si compia e assodi, quanto è possibile, la forma italiana, che cioè si formi, si concreti lo spirito, perché questo spirito si provi poi a studiare altre lingue, altre forme; le quali, — s’intende, — non s’ingenereranno più come forme nello spirito già formato; ma vi entreranno come semplice contenuto, non altrimenti di qualunque altra materia di conoscenza. — «Ma la lingua tedesca [nel 2018 diremmo: la lingua inglese…?] oggi è indispensabile a chi vuol profittare degli studi universitari». D’accordo. Se non che io ho conosciuto all’università due sole specie di giovani: una di quelli che avevan voglia di profittare, e un’altra di coloro che non avevano altra voglia che di raggiungere la laurea. I primi, accortisi presto da sé o avvertiti sul bel principio dai professori, che è necessaria, per chi voglia far bene, la conoscenza del tedesco, si dànno subito a studiarlo da sé o con l’aiuto di qualche insegnante, e dopo pochi mesi sono in grado di leggere in quella lingua gli scritti relativi alla materia, che è oggetto speciale de’ loro studi, e poi a poco a poco s’impratichiscono in modo da leggere anche i poeti; e qualcuno si conduce tanto innanzi da affrontare l’esame di abilitazione all’insegnamento della lingua. Gli altri sentono dai compagni e dai professori la stessa canzone della grande utilità del tedesco; ma essi non leggono né i libri francesi né gl’italiani; e sarebbe ben curioso che si invogliassero ad apprendere ancora un’altra lingua per poter leggere i libri, che non leggerebbero mai ! Queste le sole due classi di giovani, in cui si dividono tutti i giovani all’università; non ce n’è che piglino sul serio gli studi e si scorino per quattro o cinque mesi di applicazione alla lingua tedesca, come strumento degli studi stessi. Perché non si pensa piuttosto quanto sia necessario che i giovani licenziati dalle scuole medie sappiano vera- mente scrivere la loro lingua; cioè, sappiano veramente pensare? Ancora non siamo arrivati a questo; ed è una necessità ben più urgente che non quella tale infarinatura di modernità, che possono promettere questo francese e questo tedesco, cui si dà facoltà di invadere i licei. L’esperimento non può non riuscire funesto ai licei scelti; ma se dev’essere esperimento, se ne attendano almeno i risultati. Né questi si possono ottenere dopo un anno, e né anche dopo due che s’è fatta la riforma; perché il vero indice del vantaggio o del danno sarà sempre la composizione italiana alla licenza liceale; e a rilevare in essa un progresso o un regresso è necessario, pare a me, almeno un decennio. E se s’aspetterà un decennio, si vedrà, — non ne dubito, — che quei licei messi alla prova ci sconsiglieranno la riforma. Nella scuola classica bisogna formare la mente: questo il principio da cui è d’uopo sempre partire. Se questo principio non si ammette, distruggiamo la scuola classica, e facciamo le scuole reali, cioè contentiamoci di una formazione mentale inferiore, come ora facciamo nelle scuole tecniche; su cui, del resto, son noti i giudizi di matematici insigni come il Betti, il Brioschi e il Cremona. Ma se il principio si ammette, non sono lecite riforme che, alterando essenzialmente l’indole della scuola classica, rendono impossibile il suo fine proprio, di una formazione superiore della mente per renderla atta alle ricerche più alte, nelle scienze naturali, nelle matematiche, e nelle morali. I temperamenti e le mezze misure in questo caso non possono riuscire se non funeste: meglio nessuna scuola media, che una pretesa scuola che sformi lo spirito e distrugga ogni base agli studi superiori e alla solida educazione delle classi dirigenti.

 * Giovanni Gentile, L’insegnamento della filosofia nei licei. Saggio pedagogico, Palermo, Sandron 1900. Poi ristampato con il titolo Difesa della filosofia, Firenze, Sansoni, 1969.
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