Michel Foucault

Foucault, Baeumler, il Comunismo 1/2 saggio in due parti di Umberto Petrongari

Michel Foucault
Michel Foucault

Di UMBERTO PETRONGARI

Questo saggio prende spunto da un recentissimo libro di Giovanni Damiano dal titolo: Sovvertire il tempo. Scritti su l’origine e il nuovo inizio (pubblicato dalle Edizioni di Ar di Padova nel 2017), del quale dunque non vuole essere una vera e propria recensione. Mi è parso molto interessante l’accostamento che in alcuni degli scritti che lo compongono viene fatto tra il pensiero di Michel Foucault e quello di un pensatore controverso come Alfred Baeumler, che invece andrebbe rivalutato e riabilitato, stando perlomeno a quanto Damiano sostiene sulla sua filosofia di ascendenza nietzschiana.

A parte questo, Sovvertire il tempo và letto per intero in quanto è un libro di estremo interesse per quel che riguarda le tematiche in esso esaminate. Complessivamente è un’opera pensata con penetrante intelligenza. Ben padroneggiata è la terminologia heideggeriana della quale il suo autore fa un abbondante ma giustificato uso. Ma io cercherò di essere il più possibile divulgativo, cercando di veicolare il suo profondo contenuto per mezzo di una terminologia più semplice, tale cioè da essere accessibile per il maggior numero di lettori (per quanto ciò sia possibile).

Del libro ho quindi preso particolarmente di mira solo alcune sue parti. Mi sono inoltre consentito di trarre da esso delle considerazioni, le quali credo non siano in contrasto con il contenuto complessivo della raccolta di scritti, ma sue implicite conseguenze, sperando inoltre di aver colto tale contenuto in modo perlomeno sufficientemente adeguato.

Il mio saggio si apre con l’analisi di Nietzsche, la genealogia, la storia, un breve scritto di Foucault, introduttivo della sua interpretazione di Nietzsche, esegesi corrispondente all’essenza del pensiero del filosofo francese.

Passo successivamente a trattare della filosofia di Baeumler.

Espongo quindi le mie vedute, le quali sono tuttavia in contrasto sia con quelle del pensatore francese che con quelle del pensatore tedesco che aderì al nazionalsocialismo.

Dalle mie critiche di carattere puramente teoretico conseguirà, almeno parte di una lunga ma molto generale digressione di carattere storico-politico (costituisce la parte più estesa del saggio), consistente quindi, in una certa misura, nelle conseguenze politiche del mio personale e prospettico modo di vedere le cose.                 

Stando a Foucault, Nietzsche intende per origine anche l’era primordiale della tradizione nella sua accezione più banale, che potrebbe su per giù corrispondere all’età aurea esiodea così come all’era dell’Eden (il mito greco e quello ebraico, del resto, si somigliano molto).

Tali età sono quantomeno caratterizzate da una natura accogliente, ovvero da un mondo a misura d’uomo, posto al suo servizio: le conoscenze di cui abbisogna sono ben poche in quanto è un mondo privo di imprevisti, di pericoli e di malattie (cose prodotte anche da ogni presunto progresso). Ma l’uomo è radicato in un mondo simile, non solo per via della sua amena condizione materiale d’esistenza. Anche le sue esigenze meno materialistiche sono sommamente soddisfatte: l’uomo delle origini è felice, ama disinteressatamente il suo prossimo e la sua anima è grande (perlomeno alcuni di tali aspetti, caratterizzano certamente l’epoca della ‘bella eticità’ hegeliana, ma forse non le due età suddette).

Tali caratteristiche positive – eccezion fatta forse per la felicità – sono proprie anche dell’uomo ‘umano’ (ovvero dell’uomo dotato di humanitas, dell’uomo non animalesco) aristotelico: tale uomo è peculiare, cioè differente da ogni altro (ha personalità) anche se mite e ha carattere, ossia positiva costanza comportamentale (per via della sua grande e accogliente anima). Non sarebbe egoista in quanto il suo corpo è separato e indipendente da ogni altro corpo. Sarebbe realmente, qualitativamente, differente dall’uomo animalesco in quanto quest’ultimo avrebbe un’anima solo per se stesso, badando solo a se stesso, essendo incurante, per il resto, di tutto e tutti.

Ebbene l’idea di humanitas che ho appena concluso di esporre è del tutto infondata dal punto di vista teoretico, per cui l’uomo che la propugna è un mentitore e, in fondo, un superficiale: Foucault ironizza su tale idea di tradizione o origine.

Per Aristotele non esisterebbe tuttavia un’età dell’oro: il mondo in origine è selvaggio e incontrollato. Sta all’uomo, alla sua conoscenza, la possibilità di mitigarlo, di addomesticarlo e di dominarlo. Aristotele sarebbe cioè un sostenitore del progresso. Del resto interpreta le filosofie dei suoi predecessori (compresa quella socratica) quali tentativi scientifici di cogliere l’essenza dell’intera realtà allo scopo di dominarla. E così, ad esempio, Talete, credendo (stando ad Aristotele) di aver individuato nell’acqua l’archè, avrebbe ritenuto che tutto sarebbe stato riconducibile a particelle elementari acquatiche (Anassimene, per fare un altro esempio, avrebbe ricondotto tutto a particelle aeree): allo stesso modo il materialismo moderno riduce tutte le cose ad aggregati di atomi.

Probabilmente il filosofo di Stagira considerò il suo allievo Alessandro Magno un apportatore di civiltà fra i barbari attraverso la sua opera di mondiale conquista. Ma le sue imprese guerresche erano giustificate anche dal fatto che i vari ‘barbaroi’ erano – e lo erano anche per lo stagirita – come animali: tanto che per Greci e Macedoni potevano essere ridotti in schiavitù, se catturati in battaglia (ma un po’ di premura doveva venir preservata anche agli schiavi, così come agli animali – questo era anche il parere di Aristotele).

Sebbene Foucault faccia riferimento a Platone per quel che riguarda il senso della filosofia classica, io continuerò invece a far riferimento ad Aristotele poiché – per vari motivi – mi è stato e mi sarà più agevole e congeniale discuterne. Inoltre, sebbene ciò che intendo per pensiero aristotelico potrebbe corrispondere alla sua deformazione da parte della peggiore scolastica, ciò non deve interessare: l’importante è fornire un esempio di ciò che Foucault intende per pensiero classico quale bersaglio da lui preso criticamente di mira.

Ebbene, la filosofia aristotelica è ingenuamente realistica: il mondo sensibile viene preso per reale. Tale realtà può venire conosciuta dall’uomo, sia immediatamente, sia attraverso le divine categorie che la ordinano. La coscienza dell’uomo non si limita a curarsi del solo presente, ma si estende sia al passato che al più lontano futuro. Infine la sua coscienza coinvolge, è rivolta, anche agli altri (nonché, dunque, ai posteri).

Il pensiero moderno è più annichilente rispetto al pensiero classico. Foucault ne parla in termini, per così dire, sintetici, riassuntivi, caratterizzandolo in tal modo: il mondo non è più concreto, ma rappresentativo. La conoscenza per i moderni non diviene però prospettica, poiché il Soggetto trascendentale (ovvero le soggettive categorie – che per Aristotele sono oggettive e reali – ovvero, in definitiva, la nozione di causa-effetto) consiste praticamente in qualcosa di oggettivo, essendo qualcosa di comunque universale. E Foucault associa il Soggetto dei moderni all’idea di utilitarismo etico, il che – ancora una volta – non è qualcosa di prospettico, ma di universale. A quest’ultimo infatti si connette l’idea che vi sia una biologia, come tale, comune ad ogni uomo: ogni uomo ‘ha paura della morte’, ovvero rifugge il dolore (la vita è per tutti autoconservazione). Infine, la filosofia moderna distrugge – come è ovvio poiché consequenziale all’utilitarismo – le nozioni moralistiche di grandezza e di disinteresse.

Finalmente, con Nietzsche, l’annichilimento di ogni universale è compiuto: sebbene Foucault non vi faccia riferimento nello scritto in esame, ritiene assai probabilmente che con Nietzsche si sia tornati al pensiero di Eraclito. L’efesino sarebbe stato un’antiuniversalista ante litteram. Eraclito, Dioniso e la nozione di ‘volontà di potenza’ in Nietzsche coinciderebbero.

La lacerazione diviene la nuova cifra del mondo, anche dell’uomo con se stesso (da cui la dionisiaca ebbrezza, che è un tenue patire, in luogo della gioia, che è invece pienamente felice).

Il conflitto, l’assenza di ogni conciliazione o pacificazione (la coscienza è solo sensibile o immediata), l’impossibilità di conoscere alcunché (anche perché il mondo è sogno), l’assenza di oggettività e universalità (da cui anche il caos in ambito scientifico), caratterizzerebbero la vita per Nietzsche.

La biologia stessa perde per Foucault di significato, se per essa si intende la ‘paura della morte’, ovvero l’istinto di conservazione. In luogo di essa vi sarebbero corpi sani e forti e corpi malati e deboli, entrambi – per giunta – faziosi o partigiani: sono solo i secondi a temere per la loro vita e ad aborrire ogni dolore (piccolo o grande che sia). Infine, ogni futuro, rispetto a un certo presente (ad un certo ‘qui ed ora’), risulta imprevedibile e dunque conoscitivamente non dominabile, indomabile. Cadute le categorie (e con esse la causalità nel senso più proprio), la singolarità (imprevedibile per definizione) fantasmagorica di tutto quanto si offre al mondo è tutto ciò che resta al mondo.

Tutto ciò che ho appena concluso di dire può venire dunque indicato dalla formula nietzschiana ‘volontà di potenza’.

La forza di un corpo non è data tanto dalla bruta possanza fisica, quanto piuttosto dalla sua salute psichica, ovvero dalla sua lucidità mentale. E così, per fare un esempio, un pezzo di musica dura e ritmata è snervante per il debole e inebriante per il forte: il primo, se vi si imbatte a sentirlo, ad esempio, in televisione, essendone infastidito, cambierà subito canale. Il patimento procurato ad entrambi dal brano musicale è identico (il dolore inteso come sensazione è oggettivo, ossa uguale, per intensità, per tutti). È la necessità di respingerlo a farne ‘dolore’: per l’uomo forte che lo afferma esso è gradevole (e proprio in quanto l’afferma, ascoltandolo piacevolmente).

I sentimenti stessi sarebbero espressione di debolezza psichica: la pietà naturale di cui parla Rousseau (la quale, fra l’altro, concerne per lo svizzero solo il presente e l’annessa facoltà della sensibilità) non è universale, ma è espressione di labilità nervosa, di nevrastenia (tipica dunque dell’uomo debole). Chi, dunque, non ne dispone, non sarebbe un essere perverso. Inoltre, non provare sentimenti, non corrisponde ad essere interiormente gelidi e indifferenti. L’uomo forte, in loro luogo, prova costantemente un senso d’ebbrezza che anima e vitalizza anche ogni suo piacevole momento conviviale (ossia di partecipata socialità).

Ebbene Foucault e Baeumler condividerebbero la visione filosofica da me esposta fino a questo momento. Soltanto che il primo patteggia per i deboli, il secondo sta invece dalla parte dei forti.

Veniamo dunque alle soluzioni politiche propugnate dal francese per fronteggiare i forti dominatori del mondo.

Se la coscienza di cui disponiamo si estende al solo presente (ed è connessa quindi alla facoltà dei sensi), come faremo ad incidere sul futuro?

L’uomo debole prova immediatamente antipatia per il forte. Ma prova antipatia anche per quei deboli che non sono in grado di modificare una situazione cosmica perennemente caratterizzata dalla dialettica tra oppressi e oppressori. Vuole faziosamente (e forse anche in buona fede) avere ragione di questi ultimi. Il suo efficace operato politico colpisce nell’immediato i suoi due avversari politici: i deboli politicamente inetti e i forti che lo opprimono (tale il verbo che Foucault utilizzerebbe per designare l’atteggiamento nei confronti dei loro sottoposti dei ‘signori’ in senso nietzschiano). Il suo vero scopo, non è dunque quello previdente di stare bene in futuro, ma è quello immediato di aver ragione di chi gli è antipatico e di chi odia. Ma tale suo operare modificherà in meglio il suo futuro, anche se a ciò non avrebbe in fondo aspirato.

Il rapporto oppressi-oppressori costituisce ciò che si può definire ‘crisi’. La conoscenza consente di rovesciare momentaneamente tale rapporto in modo tale che gli oppressi divengano i nuovi dominatori. Ma tale operato tecnico-conoscitivo non può che – contemporaneamente – innescare una serie di cause le cui conseguenze daranno necessariamente luogo ad una crisi futura, dunque necessariamente imprevedibile al presente: ogni situazione storica, ogni momento storico, sarebbe inaudito e singolare. E, sorta una nuova crisi, ‘il gioco’, per così dire, ricomincia daccapo.

Ho dunque appena concluso di esporre come i deboli – stando a Foucault – dovrebbero fare politica.

Veniamo dunque a Baeumler. Il tipo umano per cui simpatizza non sarebbe caratterizzato dalla ‘paura della morte’: non avrebbe cioè, in fondo, paura di nulla. E così, ad esempio, non agirebbe mai per conformismo, poiché non avrebbe timore del giudizio altrui. La moda (qualora se ne possa parlare) ci spinge ad assumere atteggiamenti che non corrispondono alla misura (di ciò che vogliamo in un determinato momento), sia per eccesso che per difetto. Un carcerato che è stato per lungo tempo in isolamento apprezza massimamente un’esperienza banale quale è quella di respirare all’aperto. Nel corso del suo momento d’aria non desidera altro che quest’ultima. Se quindi lo si obbligasse a fare un’esperienza più forte o intensa non ne godrebbe, avvertendola come troppo pesante o opprimente (sarebbe per lui mal sopportabile). Nella vita di ogni uomo c’è quindi un momento per il gioco, c’è un momento per l’amore, c’è un momento per la guerra, c’è addirittura – forse – un momento per la morte (magari per una morte eroica in battaglia). È il particolare stato d’animo che si ha di volta in volta a suggerirci la migliore cosa da dover fare (quella per noi più congeniale al momento). E non c’è scelta esistenziale che l’uomo forte non possa assumere, purché vi opti al momento giusto.

L’uomo forte si trova a suo agio calato nel contesto di una natura originaria, incontaminata, selvaggia, imprevedibile, di cui gode esteticamente (in senso lato). Non usa la conoscenza per vivere. La sua forza caratteriale non è quella mentitrice e auto-mistificatrice di tipo, ad esempio, aristotelico, consistendo invece nella sua costante assenza di paura. Ma l’uomo forte non è mai identico a se stesso (è molto peculiare: è sempre, marcatamente, diverso da ciò che era un istante prima).

Ma veniamo al significato del rito (questa è una mia riflessione che quantomeno non contrasta con i principi sostenuti da Baeumler), connesso all’antica unione tra Stato e individualità umana: tra il primo e la seconda anticamente non vi sarebbe stata contrapposizione alcuna.

Sebbene io ritenga che il rito non sia stato altro che scienza superstiziosa, in molti la pensano diversamente. Il rito avrebbe rappresentato un momento solenne in cui l’individuo si impegnava di fronte a tutti (d fronte allo Stato) a sacrificare se stesso quale essere caratterizzato dalla ‘paura della morte’: il sacrificio rituale dava luogo a un dio (al Sé autentico), ovvero ad un essere privo di ogni timore. Fallire il rito significava far trapelare le proprie cattive intenzioni di tradimento nei confronti dello Stato e nei confronti di se stesso (quale Sé, quale dio). Insomma, era una sorta di lapsus freudiano.

Ma anticamente tutto era atto rituale. E così, ad esempio, il contadino, nel suo lavorare, era impegnato a non alterare troppo la natura (ovvero, gli equilibri naturali), a lasciarla il più possibile intatta e incontaminata (la tecnica moderna impiegata in agricoltura fa tutt’altro).

Il guerriero, con le sue imprese vittoriose, procurava vantaggio al mercante (che poteva espandere i suoi mercati, estendere i suoi traffici), così come (per fare un altro esempio) al nullatenente che diveniva un colono. Questi lo ripagavano, lo contraccambiavano, aumentando i suoi beni: tale il mutualismo vigente nelle antiche società (tale la simbiosi vigente fra ogni componente dello Stato).

Veniamo dunque al mio modo di vedere le cose. Le premesse da cui parto sono quelle probabilmente estremamente lucide del nichilismo, poiché onnidistruttive, che tuttavia accolgo solo teoricamente. Si tratta di far piazza pulita di tutto, di ogni credenza. L’ingenuo realismo della realtà sensibile rivela come il mondo sia un’inesistente rappresentazione. Dio e le categorie non esisterebbero. In poche parole, non esisterebbe nulla.

Ritengo tuttavia assai poco probabile che possa verificarsi il miracolo della violazione del principio di causa-effetto: sebbene dunque quest’ultimo per me non esista, sarebbe come se esistesse. L’Io – in linea di principio dotato di assoluto libero arbitrio – deciderebbe allora di agire sempre in base ad un movente o ad un presupposto scientifico.

La vita senziente è tale da avvertire costantemente dolore (spesso anche molto tenue). È il dolore a trasmetterci il senso della realtà esterna, concreta, ovvero estranea all’Io.

Se pathos e rappresentazione non possono quindi che essere sempre e costantemente congiunti – essendo dunque uniti anche alla paura – vediamo in che modo la realtà possa venire de-realizzata.

L’uomo può guerreggiare, gareggiare in una competizione, può avere preoccupazioni conformistiche o esibirsi in modo vanesio per gli altri (per fare degli esempi): se fa tali cose provando il minimo di paura che si possa provare è un nichilista (e ogni sua azione, fra l’altro, gli riuscirà al meglio). E così, si può dare pochissimo peso al fatto di non avere lo stesso tipo di scarpe che hanno tutti gli altri, si può dare il minimo valore al fatto che in una nostra qualsiasi attività si possa riuscire o meno (ed è allora che le cose andranno per noi per il meglio).

Se non vigesse praticamente (ma non vige dunque per me teoricamente) la causalità, potremmo trattenere un nostro impulso conformistico quando, per così dire, ‘bussa alla porta’, potremmo trattenere la nostra voglia di esibirci, potremmo, di fronte al nemico, rimanere immobili e ricevere dolorosamente da quest’ultimo ogni suo atroce colpo, dimenandoci e urlando. Ebbene, la possibilità (mai fattuale, o meglio, mai effettuale) di poter scegliere se (in generale) agire o non agire (trattenendo un impulso di qualsiasi tipo), de-realizza interamente, completamente, il nostro essere in vita. È proprio in virtù di tale assoluto libero arbitrio che vita e morte, essere e nulla, coincidono pienamente: il mondo è per noi sogno. Il mondo è rappresentazione e lo è quindi nel vero senso della parola.

È quindi in virtù del grado di simulata, insincera, paura che proviamo liberamente nel compiere i nostri vari atti, che possiamo individuare tre principali tipologie umane (che possono oltretutto combinarsi tra loro in vari modi): l’egoista (finge di temere per se stesso), l’umanista (l’uomo ‘umano’, ossia l’uomo dotato di ‘humanitas’), che finge di temere anche per gli altri, il nichilista, che non teme né per sé, né per gli altri.

Ora, sebbene il credere nell’assoluto, illimitato, libero arbitrio umano possa addirittura sembrare un’idea delirante (Julius Evola afferma qualcosa del genere, anche se riterrebbe che esistano e siano sempre esistiti – sia pure in minoranza – dei puri e assoluti nichilisti) – ed è certamente un’idea da sostenere con ogni dovuta cautela – ritengo che vi siano buoni motivi per credervi. Per farla molto breve (non mi soffermerò a discutere dettagliatamente su tale problematica filosofica), ritengo personalmente che il provare paura – quando non si riduca a un grado minimo – ci derivi interamente da un’inculturazione ricevuta e impartita dall’esterno, che quindi in origine (cioè a partire da quando si nasce) non si offrirebbe ancora (in coloro che solo eventualmente, dunque, la riceveranno).

Del resto non sono il solo a credere che il dolore (ogni possibile dolore), in fondo, non esista: Lord Byron (ma potrei apportare anche altri esempi) la pensava così, anche se tale visione delle cose lo inquietava. Il più autentico materialismo (Hobbes) sostiene un po’ ciò che io sostengo: attribuisce al dolore carattere rappresentativo conferendo realtà unicamente alla res extensa e alle sue scientifiche leggi (cui l’uomo obbedirebbe quale – ad esempio – morto grave che obbedisce alla gravità – senza provare nulla, non avendo cioè, in realtà, un’interiorità).

Ammesso anche che l’uomo sia davvero cosciente solo al presente (dimensione temporale legata dunque alla sola sensibilità) e solo di se stesso, non può certamente avere coscienza sia del passato che del futuro (dimensioni legate invece al pensiero, ossia alla memoria e all’immaginazione) e, anche nelle anzidette dimensioni cronologiche, l’uomo non può avere consapevolezza (ossia curanza) né di se stesso, né degli altri.

Se infatti senso di colpa, rimorso, angoscia, noia (spleen), rimpianto, depressione, panico (per il futuro) ecc. sono certamente delle patologie, non possono – con assoluta certezza – rivelare qualcosa di reale: saranno stati d’animo, per così dire, erronei (che – come tali – non andrebbero mai provati, in quanto indubbiamente costituiscono dei disagi psichici, delle nevrosi, delle isterie).

Ma vi è anche una follia felice o piacevole: pascersi nel sentimento, piuttosto che compiacersi della propria ricca e singolare personalità (o altro ancora), sono gioie folli e istrioniche (poiché non hanno ragion d’essere – nulla infatti esiste), mere esaltazioni da tipi irrealistici o irrazionali, emotivi.

Ora, se nulla esiste, tutto ciò che appare avrà lo stesso grado ontologico (pari a nulla). Una conseguenza del nichilismo è dunque il relativismo: non esisterà più una norma (e una sorta di verità ad essa connessa) e quanto la contraddice (l’opinione, la falsa opinione), ma tutto sarà egualmente opinione, prospettiva. E non vi può essere un’opinione che sia migliore di un’altra, che sia preferibile rispetto a un’altra. Nichilismo e religione (in senso lato, cioè comprendente anche l’egoismo, oltre all’umanismo) si equivarranno perfettamente quali scelte esistenziali. Io, ad esempio, sto prevalentemente dalla parte dell’humanitas (sono, ad esempio, favorevole ai sentimenti e alla giustizia sociale): è bene che ognuno – qualsiasi cosa sia – affermi con forza la prospettiva che ha deciso – in fondo del tutto liberamente, gratuitamente – di incarnare, di assumere.

Ma veniamo alle critiche di quanto ho esposto in precedenza. Oggi, prevalentemente, in ambito filosofico, sia a destra che a sinistra, si sostiene la visione eraclitea suesposta (corrispondente, fra l’altro, ad una certa interpretazione del pensiero di Eraclito). Ma non è una visione, in fondo, religiosa (estremamente religiosa) delle cose? È come se si fosse un po’ tornati al pensiero di Paolo di Tarso, in cui all’intelligenza infinita e provvidenziale di Dio si contrapporrebbe l’infinita, l’assoluta, stupidità dell’uomo (la cui azione si restringe dunque al dover seguire la Legge, i comandamenti, e proprio in quanto frutto di divina rivelazione. Per il resto l’uomo non potrebbe nulla di buono attraverso le sue iniziative).

Mio intento è, al contrario, quello di recuperare una più audace visione magica, scientifica, delle cose. Ritengo che non si debba troppo e sempre temere per le conseguenze dell’attività scientifica, pur essendo fautore di uno sviluppo sostenibile. Faccio un esempio: se la catena di montaggio ha positivamente semplificato e reso meno faticoso il lavoro, il fatto che essa abbia anche impoverito la vita, non è poi un fatto così svantaggioso per l’uomo. Il dolore, infatti, si è detto, non esiste: una conseguenza di ciò sta ad esempio nel fatto che tra l’operato di un artista e quello di un moderno operaio non sussiste, in fondo, nessuna differenza.

Per fare un altro esempio, non è vero che ogni ‘qui e ora’ storico sia sempre inaudito e completamente imprevedibile da parte del suo antecedente momento. Sarebbero gli egoismi incontrollati del capitalismo a produrre situazioni del tipo anzidetto. Per cui, non faccio fatica ad immaginare un mondo futuro interamente socialista in cui tra un momento e il suo susseguente sussista un rapporto di grande e positiva somiglianza: ciò, infatti, non è in contrasto con l’indiscutibile principio degli indiscernibili e non è in contrasto con l’indiscussa idea filosofica del divenire.

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FINE PRIMA PARTE

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