Di GIORGIO MOIO
Sul finire del 2014 gli artisti visivi Rossana Bucci e Oronzo Liuzzi hanno dato vita per le Edizioni Eureka dell’omonima associazione culturale, alla collana “CentodAutore”. Si tratta di pubblicazioni di poesia dell’area sperimentale di smilzi volumetti di una trentina di pagine in formato A6.
La scelta dei poeti pubblicati è ragionata in base alla qualità, meno per il nome dell’autore, il che rende l’operazione ancora più meritevole. Ogni volumetto è investito di una sorta di “opera unica” (numerate e firmate dall’autore) per via della personalizzazione della copertina, interventata da parte degli stessi, con tecnica e materiale a scelta. Piccoli gioielli di una collezione “ad arte”.
Fino ad oggi sono stati pubblicate dodici opere che qui presentiamo ricorrendo a stralci presi dalle varie prefazioni, corredate da un testo poetico.
scrivimi in corsa ai limiti del cielo
estrai pennelli, unguenti dalla borsa,
voci scalene, grappoli di luna,
scrivimi in bianco ai bordi della strada
un gerundio un avverbio una laguna (p. 10).
Il primo volume ha visto la luce nel dicembre del 2014. Si tratta di Illegali vene di Alfonso Lentini (Favara-AG, 1951), un poemetto suddiviso in diciassette parti, introdotto da Eugenio Lucrezi che si dispiega tra sprofondamenti e immaginazione di un mondo nel chiasso dei cieli o degli abissi, ma come lo si desideri, in cui «l’intreccio serrato dei settenari e degli endecasillabi è catturante [e allo stesso tempo catturato] come una musica stregata di fatale accompagnamento, rivolta da chi scrive ad un interlocutore – il tu che lo fronteggia, muto, in ciascuna delle lasse – anch’egli esautorato del possesso del mondo, financo del controllo della sua propria vita di creatura tra le creature. In realtà il tu che fa da sponda allo scrivente è una donna […] e dunque l’opera è un farsi la corte miseramente in una wast land che a tratti risuona come in un disco dei Radiohead più freddi»
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Eugenio Lucrezi (Salerno, 1952), ora come poeta con Nimbus (2015), decide di fare a meno di un prefatore. Azzardo o scelta autoreferenziale? Nulla di tutto questo, in quanto Lucrezi ha voluto stabilire un rapporto diretto tra egli e la sua poesia, senza intermediari, facendosi trainare solo dal ritmo dei testi.
Trainare dove, trainare dove? In un porto sicuro o in una tempesta equatoriale? Convinto che non esistono porti sicuri e non possedendo la temerarietà di affrontare uragani, la sua poesia effettua una strambata per indirizzare la prua verso acque più calme che le consente di ispezionare il mondo fin nelle insenature più remote. Quando le acque agitare del mare si ritirano, la visione delle cose assume la dimensione reale, fissandosi anche sulle piccole cose o su quelle devastate ma ancora in grado di attirare l’attenzione, di suscitare meraviglia.
Fratelli
a Bernardo Kelz
la fratellanza aggiunge alla rinfusa,
se fosti tolto fu per dare terra
a una nuova radice, non fa niente
se la voce che parla dice forte
di stare al posto tuo. Qui, riparato
date, il vento mi travolge. Abilitato
dal debito degli anni, prendo tempo,
convoco folle nuove al tuo cospetto.
Ma dare non è un dono, è la ventura
di chi nell’ecatombe chiude gli occhi.
Il tempo che mi prendo non mi è dato
da te, solo sfiorato nell’oscuro
dei sangui e delle lacrime. Nessuno
volle unirci nell’abbraccio. Ciascuno
per l’altro in conosciuto. Poco meno
di Dio, praticamente. (p. 12)
È sulla meraviglia, sull’attenzione di non cadere nel disincanto che si basano le poesie di Lucrezi, sulla ricerca dell’impossibile, sulla presenza figurale della narrazione ricognizionale, “lontane da domani e da ieri”, “tra acqua e fuoco”, solo apparentemente elevandosi dalla realtà e farsi trasportare dal vento. La cifra è data da un’avventura terrena che trapassa la presenza «… lassù, come forza / che indomita batte, già trafitta». La presenza di Dio o ricerca della propria anima? Si tratta di un viaggio mentale che porta il poeta fino ai Nambikwara, popolazione del Mato Grosso visitata da Claude Lévi-Strauss negli anni ’40 del Novecento, per farsi preghiera per una nuova vita di “fratellanza” tra le lacrime di una voce che si rivolge ad un tempo trascendentale dove però non trova le risposte.
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DNA (2015) è il titolo del volumetto scritto a quattro mani, quelle dei curatori della collana, Rossana Bucci, nativa di Corato (BA), e Oronzo Liuzzi (Fasano-BR, 1949). È un dialogo di un’unica voce che attraversa la memoria come una freccia nel tentativo di comprendere gli aneliti di sofferenza della realtà odierna.
Liuzzi è poeta e artista navigato (il suo primo volume di poesia, L’assoluta realtà, fu pubblicato nel 1971), più volte presente con sue opere alla Biennale di Venezia. Ma una strada ben tracciata negli ultimi anni se l’è costruita anche la Bucci, due personalità del panorama artistico che non temono ostacoli. In essi la poesia si muove per vedere ogni giorno quel filo di luce sottile dove si annidano le novità che, attraversando la strada dell’anima, non teme la realtà e le sue tenebre.
Come ci dicono i due autori, il loro è un connubio, una forza che si compensa e che guarda avanti per «un movimento di scambio e di conversione dentro e fuori la nostra vita» (Liuzzi), che «non può prescindere dal profondo rispetto dell’uno verso l’altro» (Bucci), «fuori dall’isolamento e dalla solitudine per attraversare nuovi orizzonti, verso l’oltre e lasciarsi condurre dall’energia della parola poetica per scandire un nuovo respiro di ritmo di inspirazioni e di espirazione e come scrive Rilke “Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde”» (Liuzzi). Ma cosa? Le luci della ribalta, le voci del successo?
Gocce di emozioni
…
il ritmo durevole della verità
i puntini di sospensione
dinamico modello del dire
limiti temporali
canto fluido del silenzio
lampi di attesa
profilo luminoso dell’universo
spazi infiniti di sospensione
la voce della pelle
contrari momenti
l’istante pensiero del cogliere
la negazione
dentro e fuori l’essenza della ragione
affermazione di vita
istinto l’indistinto che non dice
… per capire
gocce di emozioni
… per capirsi
e
… (p. 8)
Dunque, la loro è un’arte senza condizionamenti, lampi di significanti dell’attesa, tra spazi infiniti, dove il corpo materico della struttura poematica canta il suo dolore, «una poesia che ci stupisce, che stupisce e mira a divenire canto corale univoco della sinergia» (Bucci-Liuzzi), iscrivendosi nell’ordine dei segni, a curva e a sghimbescio, per calamitarsi nell’immenso spazio dell’arte dove il segno e la parola si rafforzano per mettersi in gioco e in continua discussione, divenendo voce ad unisono, perché, come scrive Bucci, «L’artista-poeta deve esprimere la sua idea creativa non più da solo ma ponendosi nella condizione di amalgamarsi con l’altro»
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Parte da lontano Antonino Contiliano, poeta, filosofo e saggista, nato a Marsala (TP) nel 1942, con il suo OnDevaStar (2015), dalla lezione dei simbolisti e dei surrealisti, nonché da quella di un Edoardo Cacciatore prima maniera, di cui i versi della prima poesia, Spegnete quelle parole, ce la ricordano: «… risacca detriti immagini avariate… / eppure il giorno dura e si ripete… / nuda ebollizione d’insonnia all’alba…».
Si comprende subito che lo scontro della poesia in Contiliano è con la parte peggiore della società in cui siamo costretti a vivere, pregnante di gesti e parole inutili, come le chat (spegnete quelle parole macina chat), la quiete del pensiero (la ferita e il corpo non danno quiete), gli show senza proposte e spesso rissosi (il tempo pieno è il vuoto e lo show), il ricorso al dejà-vu di un postmoderno pacifico e inespresso (e più del disincanto è il dejà-vu di spago), il gossip come forma narcisistica costruito ad hoc per un quarto d’ora di notorietà (Osip, occorre bruciare le radici al gossip) e infine l’espandersi di una politica che non sa governare, della demenza di una società che non riesce più a contraddire l’inerzia in cui precipitata (è creazione priva di vita, è demenza).
Patibolo globale
…
al mercato dei signori della guerra
una sentenza di morte collettiva
a giro dei muri della pace S.p.a.
e subprime di insicurezza quotidiana
condita con miele al napalm o
udite udite al bosforo bianco
e tante schegge di cluster bomb
con “taglia-margherite” o daisy
cutter per pizze e mut(-il-)azioni
exstraordinary rendention aerea
una riedizione della tortura, udite
l’umanità è in pericolo, il mattatoio
allora è in edizione ogni mattino
onnipresente maisma il terrorismo
dai, convinciti, veni vidi vici, ici
islamismo brucia e cinesismo
sono invisibili, la realtà è virtuale
il visuale ormai gode in paradiso
… (p. 16)
Proseguendo nella lettura di questi testi poetici, ci piace concludere con una affermazione di Stefano Lanuzza, prefatore del volumetto: «Variando fra tecniche sperimentali di scrittura e impegno sociopolitico, fra verso, pensiero e ideologia, tra guizzi furiosi di erotismo sliricizzato e amari abbandoni, Contiliano non si sottrae alla contraddizione tra l’essere poeta e, in termini non antagonistici, anche filosofo dedito a speculazioni marxiste e psicanalitiche». Non ci sono certezze nei versi di Contiliano, ma solo domande e dubbi in caduta libera.
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La quinta pubblicazione riguarda molto da vicino chi scrive, Sui crespi marosi (2016), e per non essere presuntuoso o autoreferenziale, lascio il compito di discernere la mia poesia alla penna esperta e autorevole del prefatore, Francesco Muzzioli: «Conoscendo Giorgio Moio e la sua linea tendenziosa e coerente di de-strutturazione dei significanti, da vero “viaggio al termine della parola”, si può rimanere in un primo tempo sorpresi da un titolo come Sui crespi marosi. Che si sia dato ad una avventurosa ed epica poesia del mare? Che guardi nostalgicamente all’indietro, al lessico poetico-aulico (alle “acque crespe” attestate in D’Annunzio)?
Sennonché, già il titolo semina qualche perplessità: i marosi, infatti, non si dovrebbero contentarsi di semplici increspature. Il “crespo” poi suscita contrastanti suggestioni: da un lato il rimando a quelli che con tali capelli solcano il mare in precarie imbarcazioni migranti – promettendo allora qui una poesia politico-etica; dall’altro lato, tutt’al contrario, la “carta crespa” farebbe della tempesta un effetto artificiale di ornamento festevole – come a dire che la poesia non può contenere tempeste di carta. Sia come sia, se stiamo ai “marosi” ci si può aspettare che qualcosa si agiti: e a movimentarsi – conoscendo l’autore – sarà per l’appunto il linguaggio».
2.
sui
crespi
marosi
colori
divertenti
ridono
a
zampillo
e
zampill-
ando
zampi-
llando
si
bagna- no
sco-
lano
gnano
gnabano
lasco
nolasco
– sco’
– là
–nellindifferenza
«Il procedimento fondante del testo di Moio, lo si scopre procedendo, non è semplicemente il verso monoverbale, quanto piuttosto il lavoro anagrammatico. Con esso la stessa unità lessicale viene ripresa per essere manipolata e stravolta, come passata attraverso le scosse di un bussolotto da dadi, dal quale esce rimescolata al punto da finire fuori della significazione. Non solo les mots sous les mots di saussuriana memoria, ma in qualche modo, per così dire, “le parole fuori della parola”, ossia fuori del codice. Scomposte e ricomposte a piacere le parole vanno a costituire i cascami, i rimasugli di una lingua che non corrisponde più alle conoscenze condivise nel dizionario. Sicché la poesia, surfando sulla “cresposità del maroso”, ci invita a considerare la lingua non all’interno del dato della comunicazione prefabbricata, ma come un tentativo (esperimento) di comunicazione fondato sulla plasticità della materia verbale e sulla vitalità (idest libertà) del gesto comunicativo».
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Entropia del fuoco (2016) è il titolo del volumetto di Francesco Aprile (Lecce, 1985), un giovane poeta verbovisuale, critico, giornalista, curatore, con Cristiano Caggiula, della rivista on line «Utsanga». È scontato che l’entropia del titolo non ha niente a che fare con la termodinamica, di cui l’entropia rappresenta il secondo principio (l’energia non può trasformarsi liberamente da una forma all’altra, ma esistono delle limitazioni). Per Aprile ha una rappresentanza tutta poetica definita come graduale degenerazione di un sistema, tasso di incertezza di un sistema nel tempo:
2015-10-24/25
Il numero degli alberi abbattuti, il numero, l’ombra
e la curva della caduta sul terreno. L’arrivo dell’ombra
sul terreno. Il numero degli striscioni e il numero
delle urla, la marcatura degli accenti e il rosario delle
imprecazioni. L’immagine televisiva raccoglie il fatto
da un punto di vista diffidente. L’ombra e la curva
della caduta sul terreno, l’ombra e una lunga terra
di passi d’elefante. Resistenza d’Annibale contro le
ruspe fa l’albero all’uomo. Sudore rosso di montagne
d’Epiro. Pelle scorticata dalle unghie della terra. Un
negoziato di primavera fa l’inverno calmo sulla rupe
trasparente di questo cielo senza cielo. E fa guerra la
Grecia all’Atlantide del capitalismo. Le strade occupate.
Voyeurismi d’amplesso mediatico. Il successo della
manifestazione dipende dall’onestà dalla complessione
del corpo tonale dalla metrica del dissenso dall’astinenza
da un paesaggio d’informazione. Ora le ruspe gialle, ora
la semenza, ora il grido del gallo di ritorno dalla notte,
di ritorno dalle lotte. Ora l’alfabeto nuovo dei corpi nel
mare. Migliaia di corpi nel mare. (p. 5).
Una poesia socio-politica questa di Aprile che narra sofferenze e diffidenze della gente, flash di corpi materici che denunciano l’arroganza e lo stato comatoso di una società destinata al fallimento, che corre dietro a notizie clamorose mass-mediatiche ma ipnotiche, per rincorrere un successo che sa di sconfitta prima di concretizzarsi. Paradossi e metafore, si rincorrono “… nel crespo delle nuvole al tramonto…”, tra un canto della terra, il corpo della lingua che si rimette in gioco tra “la forma del volo nel vento”, nella luce di una via d’uscita “o solo per trasparente amore”.
Dunque, entropia come direzione, questa proposta di Aprile, o meglio trasformazione del dis-ordine. «Dentro la trasformazione del fuoco, coraggio di caverne le radici che divampano, archèsuperno del Mediterraneo e stretto fra le mani che si consumano, mani di un bracciante, mani che porgono aiuto, mani di chi muore, lì stretto, il fuoco. L’opera di Francesco Aprile è ilcontinuum di un nuovo ritrovato, riacciuffato dalle grinfie retoriche e pedanti, restituito verace nella sua entropia: il Sud, un secondo capitolo della sua materia, un nuovo aspetto che il poeta, indisciplinato indagatore, grida ancora a questa “terra che balorda straborda in bocca in fumo di ansie in rivolta”» (C. Caggiula).
Le ventiquattro poesie che formano questo lavoro di Aprile sono la summa di un tentativo per frenare il sistema corrotto che reca incertezze. E lo fa con l’amore per la sua terra che da sempre ha subito soprusi e trascuratezze dal potere costituito. È lo stesso Aprile a darci una spiegazione, in una nostra recente intervista, ai nostri dubbi: «Entropia del fuoco rappresenta un “secondo capitolo” di un discorso poetico attorno al Mediterraneo, nella continua lavorazione di una lingua meridiana, che segue ad un primo lavoro edito nel 2015. L’opera vuole mantenere uno sguardo critico aperto sull’attualità del Mediterraneo: le morti giornaliere di chi cerca di attraversare il mare, un Sud non idilliaco stravolto dai rifiuti e dall’inquinamento, rapporti clientelari, impatto e prospettiva dei media su questa realtà».
I versi di Aprile, dunque, guardano ai media, quantificando, attraverso l’informazione, errori e trascuratezze, per una poesia civile e sociale che produce in prospettiva di uno sguardo nuovo del mondo, unitamente al “fuoco” che qui è rappresentato dalla metafora di ricerca e assunzione di responsabilità estrema, con la sua mutevolezza e distruzione, rivelando all’interno delle ceneri di un discorso poetico diverse sfaccettature.