Il corpo e la menzogna: su Paesaggio con ossa di Lella De Marchi

Lella De Marchi, “Paesaggio con ossa”, Arcipelago Itaca 2017

 

Di MARILINA CIACO

 

Paesaggio con ossa di Lella De Marchi[1] si apre con la narrazione di «un fatto impensato e piuttosto perturbante», legato a una circostanza biografica temporalmente e spazialmente definita: l’incontro dell’autrice con Malina, una giovane tossicodipendente che vive in una roulotte e che ha subìto di recente uno stupro. Il corpo martoriato della ragazza è «sfinito dagli stenti, coperto di ecchimosi», eppure resiste nel dolore e per dolore, si illumina di «una bellezza inconsueta e fiera», assume su di sé la contraddizione estetica e ontologica connaturata alla specie umana. In esso si cela un enigma, il potente nucleo alla base dell’opera: l’enigma dell’Altro.

Malina sembra infatti personificare l’alterità assoluta nei suoi connotati profondamente irrazionali e paradossali, la potenza tutta terrena del suo esser-ci fa vacillare di colpo l’intero sistema di valori di un’umanità tanto falsificata dalla morale borghese quanto terrorizzata dall’irriducibile entropia al fondo di ogni cosa. L’occasione da cui nasce la scrittura può dunque apparire vicenda individuale solo se la si guarda in superficie, poiché il trauma radicale che ne scaturisce assume ben presto i caratteri dell’universalità, si fa dubbio iperbolico sull’esistente e tormentata ricerca di verità: il soggetto deve fare i conti con il crollo imminente della menzogna che tiene in vita il mondo, il mondo delle soluzioni e delle convenzioni, il mondo pulito. A partire da questo mancamento radiale («il vuoto di sé») si snoda un complesso percorso di analisi sia all’interno della propria monade-psiche sia perlustrando i differenti piani di realtà che l’incontro con l’Altro ha dischiuso (le «cose che esistono in controluce», «cose interrotte», «cose interdette»). La raccolta si articola così in quattro sezioni, i cui titoli indicano non a caso un processo in divenire più che una stasi definitoria: Movimenti, Astuzie, Deliri, Gesti. Si tratta di plurali che oscillano tra il cerebrale e il percettivo, tra l’astrazione del raziocinio e la tangibilità estrema della materia, generando una tensione che si riflette ampiamente nelle scelte stilistiche dell’autrice.

La sezione di apertura, Movimenti, ci conduce sin dal primo istante all’interno di questa lingua energica, stratificata, violentemente antinomica: a prevalere è la paratassi, con lacerti di vissuto che affiorano sulla pagina attraverso proposizioni brevi o segmenti di frase, talvolta con l’utilizzo di catene nominali intervallate da un punto («buchi. scorie. intoppi. riflussi. traumi. scissioni. dolori. abissi.»). È evidente la tendenza alla ricerca lessicale attraverso l’isolamento di alcune aree semantiche e l’insistenza su una determinata corda del senso, che viene fatta vibrare più volte nel conato ad attingere al vero, a toccare la trama fisica di una sensazione. Il linguaggio fisico-materico convive con vocaboli più astratti («sparizione», «sogno», «possibilità», «teorema»), ma finisce quasi sempre con il fagocitare qualunque tentativo di razionalizzazione.

L’Altro si mostra attraverso le proprie ferite, ma la ferita dell’Altro sarà varco e abisso per il Soggetto che decide di entrarvi, rovesciando le illusioni vane della ragione: «la porta vitale è una/ fessura, è soltanto un invito ad entrare». L’abbandono all’alterità è un atto di coraggio: è da questo momento che il corpo di Malina sembra estendersi all’infinito fino a costituire un mondo a sé, un mondo-Altro che ingloba e cancella un passato inconsistente, si trasforma in «un immenso paesaggio con ossa, vita che vive senza ornamenti, vita che vive solo di sé».

Se l’Altro è innanzitutto un corpo, e se in esso si è sprofondati, sino ad identificarlo con ogni cosa esistente, non stupisce che sia proprio corpo il lessema-chiave dell’opera, una parola che ritornerà sempre lungo la raccolta mediante un incessante processo di iterazioni e variazioni sul tema: «corpo disteso», «ipotesi in forma di corpi», «una distorta questione di corpi», «un corpo che soffre», per citare solo alcune occorrenze.

Nella prima sezione il corpo come verità si oppone dunque alla «farsa» di un quotidiano fatto di oggetti inerti, massificati e intercambiabili l’uno con l’altro: anche la «siringa, poggiata sul tavolo della cucina», appare svuotata di valore iconico, «poteva essere qualsiasi altra cosa». La storia “ufficiale” di ciascun essere umano, quella che raccontiamo a noi stessi e agli altri, è ridotta a puro involucro, concatenazione casuale di eventi che perdono il proprio significato di fronte alla potenza dell’indicibile.

La seconda sezione segna l’emergere di un sentimento più chiaro e insieme la progressiva coscienza di un limite non valicabile: «l’amore è un corpo/ sorpreso nella sua impossibile danza». La forza con la quale l’Altro chiama a sé il Soggetto non varia in intensità, ma è un richiamo destinato a scontrarsi con la necessità di autoprotezione, con la coercizione a restare uguali a se stessi. Si tenta di strappare l’istante di abbandono reciproco a un sospetto di caducità («insegnami il luogo della sfumatura dove dura ciò che non dura») ma i «movimenti» appena compiuti si rivelano «fatti cinetici destinati a produrre dissipazione», fino a una tragica asserzione: «non oso sentire/ la tua ferita non posso soffrire di più». E sarà ben più assertivo il tono generale di Astuzie, si cercherà di ristabilire un ordine, una linea argomentativa, ma le tensioni irrompono ancora sulla pagina, emergono nei secchi enjambements che spezzano di continuo il discorso, nella punteggiatura intermittente o distrofica, negli sforzi di definizione subito mutilati che tentano di abbracciare il reale ma distanziano irrimediabilmente un agente dall’altro: «c’è sempre qualcosa che fa da barriera che impone/ la circumnavigazione come forma d’intesa», e ancora «il corpo è un’astuzia una speranza un’aspirazione/ un tendere verso/ il corpo è la nostra irraggiungibile meta».  Si può vagare intorno all’Altro, si può ricercare senza sosta una «congiunzione come atto supremo», avvicinarsi, sentirsi, ma non è mai possibile entrarvi fino in fondo, non è possibile essere l’Altro. Come hanno in precedenza notato sia Enzo Campi che Maria Luisa Vezzali, il lavoro condotto da Lella De Marchi è senza dubbio un lavoro sull’identità, tanto sul piano psicologico quanto su quello fisico-anatomico, ed è soltanto attraverso questo incontro drammatico e dialettico con l’Altro che si può raggiungere una più consapevole definizione del sé.

Nella terza sezione, Deliri, il ritorno-in-sé tenta di sedare la volontà di evasione fuori-da-sé: l’analogia di apertura è particolarmente efficace («stiamo bene soltanto dentro le celle come le api», con ripresa centrale «c’è una cella per ognuno di noi, con sotto scritto/ l’origine il luogo di appartenenza la serie fossile/ il teorema inventato per ognuno di noi»), ci si rassegna all’evidenza, «abbiamo paura di quello che è oscuro», senza possibilità di mutazione. Il corpo, ormai distante da una verità onnicomprensiva, diventa a sua volta un ossimorico «corpo-fantasma», «corpo astratto», la lingua si fa più piana e uniforme, il paesaggio con ossa «brucia» e non resta che abitare l’unico paesaggio vivibile, il proprio, assorbendolo fino al parossismo.

A ciascun mondo-paesaggio corrisponde poi un «linguaggio che porti dentro/ il cuore e per la memoria»: è qui che si apre una riflessione metalinguistica e metapoetica sulle convenzioni comunicative alla base di tutte le forme di espressione, l’impossibilità di essere l’Altro diventa l’impossibilità di dire il mondo senza servirsi di una «trascrizione imperfetta», senza – almeno in parte – mentire.  La pulsione vitale di Malina, vigorosa e compiuta in se stessa, sopravvive come ricordo, traccia epiteliale e mnestica che vive nella luce del proprio delirio, mentre il delirio del Soggetto è rabbia che divora se stessa, fame inappagata di una verità che non sussiste.

Alla fine di questo viaggio c’è tuttavia qualcos’altro che resta, e ci viene consegnato dall’ultima sezione, Gesti, che raccoglie una serie di omaggi a diverse artiste contemporanee, da Ketty La Rocca a Marina Abramovic, attraversando Gina Pane, Francesca Woodman e non solo. Si tratta non a caso di personalità orbitanti attorno alle performing arts, ciascuna secondo l’autenticità del proprio percorso; il gesto totale dell’artista si esprime attraverso il corpo, che ritorna centrale, e in esso si imprime, segnando una ferita di tipo diverso rispetto a quella iniziale di Movimenti. La lacerazione che ha origine dall’arte è al tempo stesso chiave di accesso all’abisso e sigillo a-temporale dell’umano, è ostinazione di eros divenuto agape: il gesto come «luogo della sofferenza» conserva se stesso al di là della carne, «perché non vada perduto. Perché non vada rimosso/ sotterrato misconosciuto o frainteso». L’ultimo testo-omaggio, separato rispetto ai precedenti, è dedicato ad Amelia Rosselli, l’unica madre poetica nominata in modo esplicito; Rosselli è infatti evocata pronunciando una sostituzione straniante con la giovane Malina. Lo spazio metrico rosselliano è la forma della sola (non) verità pensabile («se si resta si resta di umanità elevata al cubo») e non ha più senso imporsi una risposta, delimitare un fine o un confine. La raccolta si conclude con una frase sospesa, dichiara l’impossibilità di parola lasciandone trasparire in extremis la necessità: «se non riesco a parlare se non riesco a parlarti perché continuare a». Il corpo di Paesaggio con ossa si trasfigura così nel gesto supremo, percepito per violenza di negazione: l’urlo soffocato, la parola non detta.

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[1]    Paesaggio con ossa è stato pubblicato da Arcipelago Itaca nel 2017 all’interno della collana “Lacustrine”, diretta da Renata Morresi.

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