
Di ALDO GIORGIO GARGANI *
Ci sono molti modi di fare cultura, ovviamente, ma in ogni caso sono due gli atteggiamenti fondamentali con i quali gli uomini si pongono di fronte ad essa, l’uno è quello di coloro che operano sempre all’interno di essa e che formano perciò le loro idee trascorrendo da un testo all’altro nella continuità di un percorso prestabilito dalla tradizione di quei testi; l’altro è quello più raro, più rischioso ma anche più avvincente di coloro che fanno cultura perché di tempo in tempo si pongono al di fuori di essa, la ribaltano e rovesciandola alla fine producono paradossalmente ancora cultura, ma una cultura che è nuova e che perciò dissolve questo effetto di paradossalità.
Mentre i primi sono gli intellettuali che esauriscono la loro attività nella tesaurizzazione delle opere dei vecchi maestri, proteggendole dalle incursioni della vita e dalle inquietudini dell’esistenza, i secondi producono una cultura differente in quanto, essendo motivati da un’intenzione che non è scolastica ed erudita, scrivono soltanto per reagire ad una cultura ufficiale che li soffoca perché non restituisce le ragioni della loro vita, perché non arriva sino alle scaturigini di quei grandi temi preverbali dell’esistenza che essa anzi vorrebbe esorcizzare, ma nei quali alla fine risiede l’irrequietezza del destino cui essi sono inevitabilmente esposti. Costoro scrivono non per estendere l’area della cultura, ma per riuscire a respirare nuovamente; costoro scrivono perché avvertono che la cosa più importante della loro vita, forse l’unica importante, non riescono a riconoscerla nella cultura ufficiale assestata dalle istituzioni, protetta e tesaurizzata.
Prima o dopo costoro si mettono a scrivere in quanto avvertono che senza tentare di esprimere quella cosa che la cultura tace e che costituisce il segreto più inquietante della loro esistenza essi si sentirebbero soffocare o rischierebbero di precipitare nella nevrosi o addirittura nella follia. Costoro allora si mettono a scrivere spingendo le loro domande oltre il limite che sino ad allora era consentito dalle istituzioni della cultura; essi scrivono per domandare dove sino allora non era lecito domandare.
Alla fine avranno scritto, alla fine avranno anche loro collezionato una serie di opere che andranno a far parte della cultura contro la quale altri successivamente reagiranno; ma questo è un effetto del tutto inconsapevole della loro opera, così come lo è l’effetto di ciò che dice un bambino, che è sempre più grande di lui.
E sarebbe superficiale giudicare la loro opera sulla base del suo esito oggettivo finale, e cioè che anch’essa alla fine dei conti è destinata ad andare a far parte un giorno della cultura dei vecchi maestri e della tradizione, perché non soltanto la loro opera è nata da ragioni profonde ed essenziali che la opponevano a qualsiasi cultura ufficiale e istituzionalizzata, ma soprattutto perché la cultura autentica è la cultura che ogni volta ricomincia da capo e che dunque reagisce contro un’altra cultura non in nome della cultura, ma in ragione delle domande di coloro che pongono in scacco la cultura che è divenuta un mero esercizio di abilità intellettuali.
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* Da A.G. Gargani, Premessa a “La frase infinita”, in L’arte di esistere contro i fatti, Lamantica 2017.
In effetti la cultura intellettuale alla quale si riferisce il suo articolo non aggiunge nulla di nuovo alla nostra esistenza in un mondo segnato dalle incertezze e dalle angustie senza scampo.
Io stessa mi trovo in questi ultimi anni a rifiutare le letture che non mi dicono più niente, perché non colgono le vere inquietudini dell’essere. D’altra parte, non mi sento in grado di offrire niente di più alla cultura “ufficiale”. Ma almeno il suo intervento mi ha spronato a fare questo commento.