Claudiu Dunca, “In controluce”: il primo capitolo integrale del romanzo

Di CLAUDIU DUNCA *

DO

Il mondo è una conquista ma anche una grande responsabilità. Chi evita la responsabilità non vive il mondo ma vive con se stesso, egoisticamente.

Era quel tipo di frase che ti entra in testa senza una ragione e permane a lungo senza che tu riesca a cancellarla dalla memoria.

È come un flusso d’acqua continua che non può essere fermato, né dalla siccità né dalla costruzione di una diga artificiale che cerchi di troncarne il galoppo irrequieto. È un tormentone d’estate che non riesci a dimenticare, nonostante tu abbia cercato a lungo di sbarazzarti di quegli accordi discor­danti che s’insinuano nelle tue orecchie e ubriacano il tuo cervello di note. Oppure assomiglia piuttosto alle parole pungenti di un amico da cui non ti aspettavi veramente una risposta, quando gli chiedi se avresti dovuto fare qualcosa, in realtà non t’interessa ciò che pensa, ma sei spinto a chiedere per vedere la sua reazione.

Quelle parole gli dipingevano intorno un mondo minimalista, infinitamente ridotto, in cui esisteva soltanto ciò che si era prefisso di fare. In fondo non poteva fuggire da quella città. Non poteva scappare di fronte alla re­sponsabilità che l’attendeva, quasi in agguato. Non adesso, non più tardi, mai. Se c’è qualcosa da restituire bisogna andare fino in fondo e di questo ne era molto consapevole.

Quando tornò a casa, dopo la lunga passeggiata senza meta intorno al cipresso che regnava in mezzo al parco centrale della città, era già tutto deciso. All’improvviso sentì che tutti quegli anni di dubbi e indecisioni erano scomparsi, come una goccia di pioggia che si unisce alla superficie fluttuante del mare o dell’oceano e nei suoi occhi ardeva la voglia di vendicarsi del mondo e della sua debolezza nel sottoporsi ad esso, perché aveva ceduto facilmente al susseguirsi degli eventi e si era compiaciuto di se stesso.

Era una fiamma che cresceva a dismisura e irradiava i capillari, l’iride e le terminazioni nervose. Non importava se tutto questo sarebbe risultato assurdo o meglio ancora, un gesto di esacerbata pazzia. Non contava più nulla, nemmeno lui. Era questo il primo passo verso una guarigione completa. Liberarsi della passione per la vita, distruggere i legami, sopprimere la rabbia causata dall’impossibilità di rendere possibile qualcosa che non vuole essere portato allo scoperto.

Chiuse la porta dietro di sé con cura, gettò le chiavi per terra, si tolse i vestiti e rimase in mutande. Abbassò le veneziane e si buttò sul letto, infilò una mano sotto il cuscino e con l’altra sbloccò lo schermo del cellulare, toccò l’icona di youtube e quando trovò ciò che cercava si mise le cuffie e schiacciò play:

Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen,

Tod und Verzweiflung flammet um mich her!

Fühlt nicht durch dich Sarastro Todesschmerzen,

So bist du meine Tochter nimmermehr.

Verstoßen sei auf ewig,

Verlassen sei auf ewig,

Zertrümmert sei’n auf ewig

Alle Bande der Natur

Wenn nicht durch dich Sarastro wird erblassen!

Hört, Rachegötter, hört der Mutter Schwur!

La soluzione era a portata di mano e anche ovvia. Insomma come tutte le cose che ci intestardiamo di non accettare. Tuttavia non era capace di vestirsi di quel gelo che imperversava sulla città, su quell’architettura che avrebbe reso il suo viaggio non appena iniziato un intrico interminabile di elementi decorativi ma essenziali per raggiungere la destinazione prefissa. Di che cosa si doveva vestire? Qual era la responsabilità da assumersi?

Zalmoxis, era un nome eccentrico, gli era stato dato alla nascita da sua madre, una donna alquanto disturbata, che, non solo era stata accompagnata dalla sua personale follia, ma addirittura incoraggiata dal marito che trovava la sua idea del tutto fenomenale, benché si fosse ironicamente espresso: “Brava cara! Hai superato te stessa stavolta. Persino quando sei in un ospizio non smetti di reinventarti”.

La madre non disse niente al riguardo. Si limitò a girare le spalle e a spingere nervosamente il pulsante che regolava i movimenti del letto. Dopo qualche secondo di totale silenzio riprese a parlare come se si fosse ricordata di una cosa molto importante che non poteva essere trascurata.

“Ultimamente mi interesso molto alla divinità dei daci e trovo che questo nome sia adatto a nostro figlio. Ti prego chiedi che me lo facciano vedere ancora una volta. Non sono così instabile mentalmente da mettere in pericolo la vita di qualcuno che poche ore fa era nella mia pancia e si nutriva delle stesse cose di cui io mi nutrivo.
“No, ma non credo che loro siano d’accordo anche se …”, e smise di continuare la frase.

“Anche se cosa? Perché non finisci di parlare? Hai paura di dire la verità? Dilla. Sono in un ospizio! Se dovesse succedere qualcosa sapranno come gestire la situazione. Tanto una ricaduta nervosa in più o in meno non farà la differenza” disse divertita.

“Il fatto è che tu sei pazza da legare. Ecco la verità.” “Va bene” riprese. “E allora perché non mi hanno legata al letto?” obiettò con la soddisfazione di qualcuno che aveva trovato la soluzione di un sudoku che fino allora sembrava impossibile da risolvere.

“Non ti hanno legata ancora perché provano compassione per una madre giovane come te che si trova in una situazione simile”.

“Beh, sai, la depressione post partum non è in fin dei conti così tragica. Passerà prima o poi” disse, soddisfatta di poter contraddire il marito. “Inoltre io sento più compassione per te che morirai da solo e passerai la tua vita a cambiare letti e corpi come se fossero delle cose inutili. In fondo sono inutili perché non portano a nulla”.

“Nostro figlio è identico a te. Quello sguardo indagatore, le stesse sopracciglia e soprattutto il colore della pelle … anche se …”. “Mi presteresti una sigaretta? Ho un immediato bisogno di nicotina. So che continui a fumare nonostante tu abbia promesso di non farlo più. Non ti biasimo. Anch’io non smetterò di essere una pazza” disse al marito.

Lui voleva controbattere, ma si fermò all’ultimo istante allontanandosi dal letto della paziente e rifugiandosi accanto alla finestra; fissò la sua attenzione su una persona di media età, vestita di nero che faceva delle flessioni accanto alle macchine parcheggiate davanti all’ospedale. Il senso dei suoi movimenti gli erano poco chiari in quel momento, poteva anche essere un malato mentale visto che si trovava in un ospedale psichiatrico.

Eppure, osservandolo meglio, capì che non si trattava di un pazzo, ma di una persona che cercava qualcosa sotto le macchine. La sua ricerca aveva un criterio preciso. Prima girava intorno all’auto, si abbassava facendo una flessione quasi corretta e guardava con attenzione sotto di essa, si rialzava aiutandosi con la mano sinistra e continuava a controllare a una una tutte le macchine, quando ebbe finito la sua indagine, si allontanò per avventurarsi sul marciapiede del condominio. All’improvviso, dal balcone del terzo piano, partì una pioggia di terriccio seguita da un pesante bustone che si schiantò a pochi centimetri da lui. L’uomo istintivamente fece un balzo all’indietro e guardò in alto incredulo gridando qualcosa d’incomprensibile, ma ac­compa­gnando tutto con gesti inconfondibili. Si sbottonò la giacca e ritornò al punto di partenza. Dopo pochi minuti qualcuno, molto probabilmente la persona che stava per ricoprirlo di terriccio, si diede da fare per rimuovere la sporcizia dal marciapiede con una paletta verde, sgomberando il tutto in una busta di plastica. “Che cosa stavi dicendo della mia pelle? Cosa vuoi insinuare? Non vuoi che nostro figlio sia di colore come me? Avresti preferito che fosse bianco come te?” chiese Albert senza nascondere i suoi sentimenti, né tanto meno la sua contrarietà.

“Ho soltanto paura di come verrà trattato dai suoi compagni di scuola, dai bulli del quartiere, dal sistema in generale. Non è facile accettarlo, ma viviamo in un mondo di contrasti e di discriminazione, dove essere di colore può essere un problema e tu lo sai meglio di chiunque altro.

Molti di noi negano l’evidenza”. Sì, anche lui negava l’evidenza, benché non volesse farlo capire a sua moglie, in quell’istante quel sentimento di inadeguatezza nei confronti del mondo circostante lo attanagliò, era come se a ogni battito del suo cuore qualcuno gli conficcasse una lama nel petto. Cercare di contrastare l’evidenza non era mai stato facile, tanto meno nel contesto in cui si trovava. Prese il cappello e se lo mise in testa come se solo questo gesto potesse nascondere la verità che risiedeva in lui, una verità ingombrante come un blocco di cemento che lo trascinava verso il basso attratto dalla forza di gravità. Si sentiva sprofondare centimetro dopo centimetro nella terra brulla, nella propria tomba, un’immagine lugubre che lo fece trasalire. Si avvicinò al letto della moglie un po’ barcollante e abbassandosi per baciarle la mano la guardò per qualche secondo dritto negli occhi. Stava per uscire, ma prima di chiudere la porta dietro di sé, si girò all’improvviso, continuò a guardarla e alla fine un sorriso tirato affiorò sulle sue labbra, lei lo percepì subito come un gesto di distacco, una necessità non volontaria di allontanarsi. Sapeva di poter comunque contare su di lui, quindi lo comprese e lo perdonò, pensando tra sé e sé che era arrivato il momento di lasciarlo andare.

Non tutto è illuminato. È piuttosto oscuro e insicuro, incerto, indescrivibile, inaspettato e irreversibile una volta che ci si è vestiti di pazzia, un mantello di incongruenze e di false realtà che porta a cadere in un burrone di non ritorno, un non luogo come usava chiamarlo lei prima di sperimentare sulla sua pelle la follia. Sentì che l’abisso che si stava creando tra sé e suo marito non era minimamente paragonabile a quello in cui si rifugiava la sua mente destabilizzata. Si sentiva come un soffione, pronto a staccarsi e disperdersi al minimo fruscio del vento. Eppure, se la pazzia potesse essere utilizzata come uno strumento, utile a superare quegli scogli che di solito non si superano facilmente, come se fosse un espediente per sbarazzarsi delle difficoltà che la vita infligge alle persone inerti.

Era necessario affrontare le grinfie dell’immediato, nonostante la moltitudine di impedimenti che avrebbero cercato di abbatterlo lungo la strada della riscoperta di se stesso. Sorrise quando gli venne in mente che in fin dei conti una porta è il punto di partenza perfetto per ricominciare o per finire.

Bussò con determinazione con la mano destra, come se dovesse creare uno squarcio nel legno di quercia, mentre nell’altra stringeva un accumulo di pezze, che ricomponevano fedelmente una bandiera.

Prima che la porta venisse aperta si sistemò con cura il nodo alla cravatta riportandolo nella posizione centrale e si diede una passata con le dita tra i capelli ribelli, che si ostinavano a scendere sulla fronte liscia.

Quali sarebbero state le prime parole che la persona al di là della porta avrebbe pronunciato dopo aver aperto? Ebbene erano le classiche parole di qualcuno che accoglie un visitatore sconosciuto: “Salve, lei chi è?”

La risposta partì automaticamente dalla sua bocca senza pensarci a lungo: “È quello che vorrei sapere anch’io”, rispose con convinzione, cogliendo un senso di smarrimento nella persona che aveva di fronte e non si aspettava una visita del genere.

“Se non è qui per una lezione di pianoforte allora non saprei cose dirle” rispose quest’ultimo, poi soffermandosi di più sul volto del visitatore continuò. “Non la conosco eppure c’è qualcosa di familiare nel suo sguardo. Prego, entri, mi dia la giacca e si accomodi in salotto dove le viene comodo”. “Vuole bere qualcosa? Purtroppo le posso offrire soltanto del cedro o dell’acqua frizzante, magari desidera ascoltare un po’ di musica classica”. Cercò di tenere a bada le emozioni, ma queste presero il sopravvento e infine disse con tono duro che quello che gli poteva offrire era molto più che un semplice bicchiere d’acqua. Cercò di riprendere il controllo di sé pensando a qualcosa che potesse tranquillizzarlo, come il tramonto che osservava da piccolo quasi ogni sera, arrampicandosi sul tetto d’amianto della casa, nonostante il padre gli avesse proibito severamente di farlo.

L’altro non mascherò la sua reazione e disse spaventato: “Se lei è l’uomo che mio padre mi ha chiesto di sorvegliare le dico subito che non ho accettato l’incarico e non voglio avere niente a che fare con i vostri intrighi”.

“Invece devi! Tu fai parte di tutto questo. Certo, hai la libertà di scegliere ma non credi che ormai sia troppo tardi? Hai comunque accettato di ascoltarlo, quindi adesso devi fare tutto il necessario, perché voglio vedere fin dove arriva”.

L’altro non riusciva a capire le sue parole e prima ancora di riuscire a controbattere, il visitatore lo investì come un treno in corsa, schiacciandolo con una verità che si teneva dentro da fin troppo tempo: “Sono il tuo fratellastro. Ecco la bandiera che ho ricomposto con cura dai pezzi di stoffa che mi mandavi ogni anno per il mio compleanno. Sappiamo entrambi che non si tratta della bandiera della Romania ma piuttosto dalla bandiera di una riunione mai avvenuta fino adesso. Oggi ci conosciamo finalmente e non è stato facile per me riuscire a fare questo passo”. L’altro lo guardò ammutolito come si guarda qualcosa d’incredibile che non si credeva possibile, come lo sguardo di coloro che ebbero la sfortuna di vedere il cielo riempirsi dei colori giallo e arancio provocati dall’esplosione della bomba atomica. Non era però l’incredulità che lo spingeva a rimanere senza parole ma piuttosto l’incidenza di quello che stava accadendo davanti ai suoi occhi colmi di stupore. Aveva desiderato tanto conoscerlo, toccarlo, abbracciarlo ma non lo fece. Rimase fermo come un sasso, in attesa che il semplice rincorrersi della lancetta dei secondi lo spingesse a rotolare giù per la collina.

“Basta mentire a se stessi, fare finta che il tempo non esista, che non gravi sulle nostre azioni. Sono qui, adesso, e anche il tempo è qui. Non sono due cose separate il tempo e il luogo. Siamo noi che le distinguiamo, siamo noi che ci allontaniamo. Mi sono detto adesso basta, basta ingannarsi, basta ignorare il tempo e il luogo che ci lega inesorabilmente. Bisogna fare dei passi, dei semplici passi e rompere la barriera tra tempo e spazio. Sì, sono qui di fronte a te, perché voglio smettere di sprecare il mio tempo e agire. Anziché rinunciare al tempo ho scelto di rinunciare a non occuparmi del tempo. Sì, io adesso voglio bere il tempo, come si beve l’acqua, ne voglio fare il mio combustibile interno, la mia linfa vitale. Lo so, molte delle cose che sto dicendo adesso ti sembreranno assurde ma, se ci rifletti per un attimo, troverai un minimo di senso in tutto questo. Non starò a elencare i motivi per cui non ti ho cercato finora. Ogni ragione ha una sua logica. Che sia buona o meno ispirata o semplicemente per comodità. Io non devo perdonare niente, tu non devi perdonarmi niente. Siamo pari. È perciò il tempo, questo combustibile che mi brucia sia dentro che fuori, ad avermi spinto a fare il primo passo. Prima o poi la fiamma che dà inizio a tutto si spegne ed e per questa ragione che sono qui. Indugiare vuol dire cercare di dilatare il tempo. Ma la brutta notizia è che il tempo non si può dilatare, solo contrarre scegliendo di rimanere immobili nella propria condizione. Indugiare vuol dire uccidere il tempo proprio mentre il tempo nella sua forma universale continua a scorrere a tua insaputa. E adesso starò zitto. Voglio solo guardarti e godermi questo momento. Ho parlato troppo. In fondo, forse ho ereditato la pazzia di mia madre”.

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* Pubblichiamo il capitolo I del primo romanzo di un giovane romanziere romeno che scrive in lingua italiana: Claudio Dunca, In controluce, Amazon Independent Publishing , Ottobre 2017.

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