
Di GIULIO GRECO *
«E le costellazioni perse?»
Secondo Zoroastro, Angra Mainyu (avestico) o Ahreman e Arimane (pahlavico) o Ahriman (fārsì) è il nome dello spirito malvagio guida di una schiera di “demòni”. È una entità spirituale malvagia e distruttore, l’avversario di Spenta Mainyu lo Spirito del Bene che guida gli “angeli”. Ambedue sono figli gemelli di Ahura Mazda, il dio supremo.
Giacomo Leopardi lo assunse come emblema del male nell’abbozzo di un inno, scritto a Firenze forse nel 1833 e trovato autografo tra le carte del poeta. Il testo fu pubblicato nel 1898 dal Carducci nel saggio Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi.
Henry Ariemma non si inoltra in un cammino filologico o storico che riguarda lo zoroastrismo, ma si pone di fronte al perpetuo interrogativo che da millenni dilania l’umanità: Si Deus, unde malum?
Nella visione politeistica il male, il dolore, il limite della condizione universale erano attribuite a diverse divinità in lotta con quelle del bene, che dovevano essere placate con sacrifici. Il monotesimo, invece, facendo risalire ogni realtà a un Essere unico,Nei secoli filosofi e teologi si sono affannati a trovare una spiegazione razionale al problema senza riuscirvi, probabilmente perché kantianamente occorre accettare i limiti della Ragion Pura, capace di raggiungere soltanto il “fenomeno” della realtà.
lascia insoluto il quesito, perché non è amissibile mettere in dubbio la bontà di Dio.
Ariemma affronta la questione sotto il profilo esistenziale in due sezioni, dedicate la prima ad Arimane, il dio del male, e la seconda a Spenta Mainyu, lo spirito del bene, partendo dall’esergo platonico, secondo il quale «Dio è innocente», e dalla citazione di un poeta persiano che i nomi di “bene” e di “male” appartengono non alla realtà, ma agli uomini.
Nelle prime composizioni, infatti, si riafferma il concetto «Solo parlare e si intuisce la storia…», «perché il male / ancora meraviglia le carni». Forse agostinianamente il male non può avere una consistenza ontologica, non esiste se non come mancanza di bene («la coperta / non allargava / la funzione unica / dell’ a m o r e») o addirittura, secondo il concetto di Provvidenza, come nei Promessi Sposi («Il male libera. / Fa capire ogni bene»), costringe l’essere umano a porsi interrogativi, a scoprire i propri limiti («L’erba mi ricordi / di quella casa… / Cumulava dove voleva»), ad accettare situazioni inspiegabili («capire dell’amore la scusa / al rompere abitudini tristi / di più umane scelte…»), a vivere la condizione della solitudine («È stata la lettera / nella casa la causa / di future distanze») e le conseguenti barriere tra le persone, come «piano di ricordi a difesa» da una presenza femminile mai delineata, lasciata unicamente come testimonianza di accadimenti personali.
Ogni gesto, ogni parola, ogni sentimento sono parte di un’esistenza ed esistono di per se stessi, anche se confinati in confini ontologici e gnoseologici privi di senso («Il dubbio non fa vedere / totalmente il male») e privi di colpa («Bisogna essere pieni di tutto / il bene, non essere peccato»).
Ma l’uomo non accetta la situazione e si ribella mediante l’utopia, la speranza, l’ideale («A essere divisi / sono promessi ritorni / di richiami intuiti»), cui fanno da contrappunto le domande di Giobbe, del pastore errante dell’Asia e di ogni essere dotato di ragione: «E le costellazioni perse?».
Nella sezione dedidata a Spenta Mainyu notiamo un immediato cambiamento di prospettiva nella dedica «con amore» a Francesca e ad Alma, concetto ripreso nella prima composizione («È l’amore il cardine / del nostro esistere»). Anche in questo caso la ragione non è in grado di offrire una spiegazione soddisfacente. Non resta che l’umiltà di accettare i propri limiti, senza però rinunciare all’esplorazione del reale mediante la forza del sentimento («vedere nella fessura / più stretta l’attimo / nella sua essenza»), alla suggestione della bellezza («Ai tuoi gesti / danzano carni appetibili»), alle dolcezze che la vita sa concedere («Al nonno, piaceva old spice / e whisky old parr, la birra polar / e il televisore a manovella zenith».
Ci troviamo di fronte a una breve, ma suggestiva raccolta, densa di domande e di interrogativi capitali, spesso “incosati” in gesti, in situazioni, in figure appena appena tratteggiate. Ma la poesia conserva proprio il fascino di battere sul cuore e sulla mente del lettore adulto e di spingerlo a porsi interrogativi degni dell’essere umano.
Speranza, superamento del male? No, solo concretezza, realismo, visione equilibrata. Il bene e il male, come nella parabola evangelica del grano e del loglio, nella nostra vita sono così intimamente intrecciate da coinvolgere in profondità la responsabilità individuale sia nel progetto sia nella realizzazione dell’esistenza.
Lo stile asciutto va considerato come metafora di una sofferenza interiore che suggerisce piuttosto che descrivere, che tace piuttosto che cantare ore rotundo, che interpella piuttosto che ammaestrare.
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Arimane
Il male libera.
Fa capire ogni bene
e vede prossima gratitudine
alle domande insignificanti
dell’andare oltre:
respinge alte le onde
sulle stesse orme.
Il tacere frutta
solo bacche amare
lavorate per dolci inganni.
Altro parlare, propri egoismi…
A non vedere nell’ascolto
pronti tradimenti.
Ma la parola riempie spazi
e basta morire senza perdono,
pensarsi eterni per non risolvere
l’umano dolore in mancata fede
come case ostili mai colpevoli.
*
Il buio dietro hai costruito
accumulo di cristalli inutili:
vasi e bicchieri per mancati pranzi.
Su quei vetri una polvere tornia
disegni pesanti.
Agli estranei hai dato
il quotidiano di figli
in parole giuste,
forze misurate,
felice racconto
del fare bene…
Hai fermato amici,
risparmiato musiche,
parole della sera,
negato viaggi e sogni:
tolto libertà…
Perché la coperta
non allargava
la funzione unica
dell’ a m o r e
*
L’erba mi ricordi
di quella casa…
Cumulava dove voleva,
rinverdiva intensa
vicina ai sostegni
non lontano dal passo
ma dallo sguardo
e chiedeva macchie
riempite dal bordo.
La pioggia faceva fango
seccato polvere e l’acqua
donava un capsico viola.
Al basilico divideva l’orto
con mattoni affondati
scoperti picchi…
E inerpicavi capricci,
limbo dimentico ai figli
mancando promesse
a castighi del tempo
sempre tuo, perduto
in ogni andare.
*
Forse per case
nelle pareti nascoste
sono i ricordi persi
dei fratelli in città:
si rimane al crescere
insieme negli anni,
compiuti i destini…
A essere divisi
sono promessi ritorni
di richiami intuiti.
E le costellazioni perse?
Sono facce forzate
vicine nelle foto,
nascosti segnali
al voltare negli occhi,
scuse diverse
accomodate vite.
Spenta Mainyu
È l’amore il cardine
del nostro esistere
piega verghe adamantine
a soccombere ragioni
tentate di giustizia,
è velo a non vedere
determinare granelli,
disporre acque
a chi non pone mani
per chi neanche guarda.
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* Prefazione di Giulio Greco ed estratti poetici da Henry Ariemma, Arimane, Ladolfi Editore, Borgomanero 2017.
Un pensiero su “Henry Ariemma, “Arimane” (Ladolfi Editore 2017): cinque poesie e la prefazione di Giulio Greco”