Henry Ariemma, “Arimane” (Ladolfi Editore 2017): cinque poesie e la prefazione di Giulio Greco

Henry Ariemma, “Arimane”, Ladolfi Editore 2017

Di GIULIO GRECO *

«E le costellazioni perse?»

Secondo Zoroastro, Angra Mainyu (avestico) o Ahreman e Arimane (pahlavico) o Ahriman (fārsì) è il nome dello spirito malvagio guida di una schiera di “demòni”. È una entità spirituale malvagia e distruttore, l’avversario di Spenta Mainyu lo Spirito del Bene che guida gli “angeli”. Ambedue sono figli gemelli di Ahura Mazda, il dio supremo.

Giacomo Leopardi lo assunse come emblema del male nell’abbozzo di un inno, scritto a Firenze forse nel 1833 e trovato autografo tra le carte del poeta. Il testo fu pubblicato nel 1898 dal Carducci nel saggio Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi.

Henry Ariemma non si inoltra in un cammino filologico o storico che riguarda lo zoroastrismo, ma si pone di fronte al perpetuo interrogativo che da millenni dilania l’umanità: Si Deus, unde malum?

Nella visione politeistica il male, il dolore, il limite della condizione universale erano attribuite a diverse divinità in lotta con quelle del bene, che dovevano essere placate con sacrifici. Il monotesimo, invece, facendo risalire ogni realtà a un Essere unico,Nei secoli filosofi e teologi si sono affannati a trovare una spiegazione razionale al problema senza riuscirvi, probabilmente perché kantianamente occorre accettare i limiti della Ragion Pura, capace di raggiungere soltanto il “fenomeno” della realtà.
lascia insoluto il quesito, perché non è amissibile mettere in dubbio la bontà di Dio.

Ariemma affronta la questione sotto il profilo esistenziale in due sezioni, dedicate la prima ad Arimane, il dio del male, e la seconda a Spenta Mainyu, lo spirito del bene, partendo dall’esergo platonico, secondo il quale «Dio è innocente», e dalla citazione di un poeta persiano che i nomi di “bene” e di “male” appartengono non alla realtà, ma agli uomini.

Nelle prime composizioni, infatti, si riafferma il concetto «Solo parlare e si intuisce la storia…», «perché il male / ancora meraviglia le carni». Forse agostinianamente il male non può avere una consistenza ontologica, non esiste se non come mancanza di bene («la coperta / non allargava / la funzione unica / dell’ a m o r e») o addirittura, secondo il concetto di Provvidenza, come nei Promessi Sposi («Il male libera. / Fa capire ogni bene»), costringe l’essere umano a porsi interrogativi, a scoprire i propri limiti («L’erba mi ricordi / di quella casa… / Cumulava dove voleva»), ad accettare situazioni inspiegabili («capire dell’amore la scusa / al rompere abitudini tristi / di più umane scelte…»), a vivere la condizione della solitudine («È stata la lettera / nella casa la causa / di future distanze») e le conseguenti barriere tra le persone, come «piano di ricordi a difesa» da una presenza femminile mai delineata, lasciata unicamente come testimonianza di accadimenti personali.

Ogni gesto, ogni parola, ogni sentimento sono parte di un’esistenza ed esistono di per se stessi, anche se confinati in confini ontologici e gnoseologici privi di senso («Il dubbio non fa vedere / totalmente il male») e privi di colpa («Bisogna essere pieni di tutto / il bene, non essere peccato»).

Ma l’uomo non accetta la situazione e si ribella mediante l’utopia, la speranza, l’ideale («A essere divisi / sono promessi ritorni / di richiami intuiti»), cui fanno da contrappunto le domande di Giobbe, del pastore errante dell’Asia e di ogni essere dotato di ragione: «E le costellazioni perse?».

Nella sezione dedidata a Spenta Mainyu notiamo un immediato cambiamento di prospettiva nella dedica «con amore» a Francesca e ad Alma, concetto ripreso nella prima composizione («È l’amore il cardine / del nostro esistere»). Anche in questo caso la ragione non è in grado di offrire una spiegazione soddisfacente. Non resta che l’umiltà di accettare i propri limiti, senza però rinunciare all’esplorazione del reale mediante la forza del sentimento («vedere nella fessura / più stretta l’attimo / nella sua essenza»), alla suggestione della bellezza («Ai tuoi gesti / danzano carni appetibili»), alle dolcezze che la vita sa concedere («Al nonno, piaceva old spice / e whisky old parr, la birra polar / e il televisore a manovella zenith».

Ci troviamo di fronte a una breve, ma suggestiva raccolta, densa di domande e di interrogativi capitali, spesso “incosati” in gesti, in situazioni, in figure appena appena tratteggiate. Ma la poesia conserva proprio il fascino di battere sul cuore e sulla mente del lettore adulto e di spingerlo a porsi interrogativi degni dell’essere umano.
Speranza, superamento del male? No, solo concretezza, realismo, visione equilibrata. Il bene e il male, come nella parabola evangelica del grano e del loglio, nella nostra vita sono così intimamente intrecciate da coinvolgere in profondità la responsabilità individuale sia nel progetto sia nella realizzazione dell’esistenza.

Lo stile asciutto va considerato come metafora di una sofferenza interiore che suggerisce piuttosto che descrivere, che tace piuttosto che cantare ore rotundo, che interpella piuttosto che ammaestrare.

____________________

Arimane

 

Il male libera.

Fa capire ogni bene

e vede prossima gratitudine

alle domande insignificanti

dell’andare oltre:

respinge alte le onde

sulle stesse orme.

 

Il tacere frutta

solo bacche amare

lavorate per dolci inganni.

 

Altro parlare, propri egoismi…

A non vedere nell’ascolto

pronti tradimenti.

Ma la parola riempie spazi

e basta morire senza perdono,

pensarsi eterni per non risolvere

l’umano dolore in mancata fede

come case ostili mai colpevoli.

*

Il buio dietro hai costruito

accumulo di cristalli inutili:

vasi e bicchieri per mancati pranzi.

Su quei vetri una polvere tornia

disegni pesanti.

 

Agli estranei hai dato

il quotidiano di figli

in parole giuste,

forze misurate,

felice racconto

del fare bene…

 

Hai fermato amici,

risparmiato musiche,

parole della sera,

negato viaggi e sogni:

tolto libertà…

Perché la coperta

non allargava

la funzione unica

dell’ a m o r e

*

L’erba mi ricordi

di quella casa…

Cumulava dove voleva,

rinverdiva intensa

vicina ai sostegni

non lontano dal passo

ma dallo sguardo

e chiedeva macchie

riempite dal bordo.

La pioggia faceva fango

seccato polvere e l’acqua

donava un capsico viola.

Al basilico divideva l’orto

con mattoni affondati

scoperti picchi…

 

E inerpicavi capricci,

limbo dimentico ai figli

mancando promesse

a castighi del tempo

sempre tuo, perduto

in ogni andare.

*

Forse per case

nelle pareti nascoste

sono i ricordi persi

dei fratelli in città:

si rimane al crescere

insieme negli anni,

compiuti i destini…

A essere divisi

sono promessi ritorni

di richiami intuiti.

 

E le costellazioni perse?

Sono facce forzate

vicine nelle foto,

nascosti segnali

al voltare negli occhi,

scuse diverse

accomodate vite.

 

Spenta Mainyu

 

È l’amore il cardine

del nostro esistere

piega verghe adamantine

a soccombere ragioni

tentate di giustizia,

è velo a non vedere

determinare granelli,

disporre acque

a chi non pone mani

per chi neanche guarda.

__________________

* Prefazione di Giulio Greco ed estratti poetici da Henry Ariemma, Arimane, Ladolfi Editore, Borgomanero 2017.

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