“Little Boy”, racconto di Sonia Caporossi in commemorazione delle vittime di Hiroshima e Nagasaki

6 Agosto 1945: la bomba di Hiroshima

Di SONIA CAPOROSSI *

LITTLE BOY

 

Mio caro professor Einstein,
La ringrazio per la Sua recente lettera
e per l’interessantissimo e importante allegato.
Ho trovato questi dati di una tale rilevanza
che ho convocato una commissione in proposito […]
La prego di accettare i miei più sentiti ringraziamenti.
Cordiali saluti.
F. D. Roosevelt

 

Ho cominciato a perdere i peli, come uno stramaledetto vecchio irradiato a cui manca poco per morire.

E’ stata brutta, la guerra, mi ha sempre detto mio padre. Ci si crogiolava ammazzando giorni tutti uguali, a dondolarsi nei rifugi antiatomici, al riparo dal fuoco della radioattività che fuori da troppo tempo ammorbava l’aria ed avvelenava i riflessi opachi del cielo.

Mi hanno raccontato quasi tutto. Di ciò che era successo anni prima, di come la nostra terra fosse stata riarsa e divorata dai flebotomi invisibili di un cancro marcescente che otturava le vie respiratorie, fra zolla e zolla, di questo nostro vulcanico paradiso di Wegener. Di come i soldati del nostro paese si fossero vestiti con le loro divise militari attillate, degne di un efebo bartolomaico alla Mishima, kamikaze modello, ligi al dovere di morire per la patria, soltanto ignari del crivellare delle frecce che di lì a poco sarebbero penetrate nei lombi sacrificali del loro costato implume, esposto alle intemperie degli shuriken. Di come, sbarbati ed ignari, felici del febbrile e fideistico fardello degli zaini, siano saliti sulle grandi macchine di lancio, avessero bombardato paesi distanti miglia e miglia e poi in risposta, poco tempo dopo, da Ovest, fossero giunti fili di ferro e fuoco nel cielo, funghi roboanti come false allucinazioni impossibili da digerire, esalazioni roventi che falcidiavano le flebili foglie ed i fili d’erba della nostra terra massacrata,  riducendone la sostanza cumuliforme ad un nulla raddensato di polvere e lamine di latta accartocciata e danzante sulle punte, come un mefistofelico effetto Hutchinson stilizzato nel moto perpetuo di una pessima ballerina di terza fila ubriaca.

Con lo stesso inizio e con la stessa inevitabile fine, mi hanno raccontato di come le viscere pneumatiche delle zolle divelte vomitassero lapilli e rocce incandescenti che si abbatterono all’unisono sui tetti delle case a milioni, quasi nell’orgasmo ecatombale di un apocalittico terremoto evocato da un profeta stanco di vivere. E poi, tutti i vetri si spezzarono in un secondo, ottantaseimila individui bruciarono vivi, cristallizzati nell’annichilimento di un buco solare asfittico, talmente incandescente da opacizzarsi in nero; settantaduemila persone furono ferite gravemente e catapultate in un inferno di dolore e sofferenza della carne, talmente acuto e scabro da risultare inconsapevole; seimilaottocentoventi case furono smantellate all’istante, grattugiate dalla crosta terrestre come briciole di pane esitanti sul bordo meravigliato di un labbro incancrenito, al risucchio di una minestra avvelenata dal cucchiaio anticiclonico del vuoto; le loro macerie in pezzi furono proiettate in piroette verso il cielo, pirotecnie saltellanti allegramente nella polvere da sparo; una cappa diafana si estese per chilometri, in altezza ed in lunghezza, come il mantello bucherellato di un moschettiere lebbroso caduto in disgrazia agli occhi di un artificiale e dittatoriale Re Sole; tremilasettecentocinquanta edifici collassarono su se stessi e presero selvaggiamente fuoco, lingue di fiamme avvolsero di lebbra termica i tessuti tegumentari di fiori frutta animali cose città, nel purgatorio senza speranza di una caustificazione sommaria di genere; neutroni e raggi gamma tentarono, nel radiante di un chilometro e mezzo, di cambiare il corso della storia biologica di esseri viventi incapsulati nell’olocausto letterale, le cui reni, inchinandosi, non ebbero nemmeno il tempo di un saluto; ognuno in capo alla seconda microscopica frazione temporale era ustionato, combusto, ricoperto di cicatrici cheloidee istantanee, mostruosamente antiestetiche, trebbiato da una falciatrice necrotica nell’interno stesso del proprio dna ormai irrimediabilmente modificato e tendente all’autoflagellazione oncologica. Oppure già morto.

Poi, m’hanno detto, è venuta una pioggerella di cenere e polvere che sembrava sottile e salutare, la quale continuò a ricoprire la terra martellata dal maglio edulcorante di scettiche piume grigie per le trenta ore successive, a lavare di lacrime le pietre come avvolgendole in un sudario di sudore nostratico, a curare le flittene frittellate dall’edema che ricopriva i volti di un’intera generazione di spavaldi samurai. Un’immensa escara vasta dodici chilometri di estensione in superficie, acuminata, magnetica e compatta, si scapicollò ondeggiando dalle altezze troposferiche, spargendo un eritema solare infetto e purulento, da tifo fluviale giapponese, che in breve tempo tumefece la crosta terrestre ad opera del fallout nucleare, ricoprendo ormai interamente fatali campi carbonizzati intonsi dalla benedizione del Buddha, mai più carezzati dall’alitosi enfiata della brezza primaverile, dalla benefica peristalsi intestinale di un Dio a cui non s’era mossa a nostra difesa non dico la crapula del corpo, ma nemmeno la più ovviante pietà. Campi sterminati di bolle di sangue caustico in cui non sarebbero mai più comparse timide foglie bucoliche ondeggianti di poesia, in cui non sarebbe mai più cresciuta una sola spiga di grano.

Quando l’arricchimento dell’uranio weapon – grade, al 93% dell’isotopo fissile 235, risultò concentrato al punto giusto con il metodo della diffusione gassosa di esafluoruro di uranio, il Manhattan Project dei nostri scaltri avversari poteva dirsi concluso con successo. Per questo, fra quel sedici luglio ad Alamogordo e quel sei agosto del 1945, sulle nostre teste calvificate, si sviluppò l’emivita di almeno quattro generazioni di figli del Sol Levante, decaduti, folleggiando fra le folate di vento radioattivo, in isotopo esaltato a mo’ di stella danzante fino ai nuclidi figli, nipoti, pronipoti, posteri in generale; particelle alfa, beta, neutrini, e via via di questo passo, dall’alfa di un’incredibile modificazione genetica alla nostra attuale, innaturale condanna alla soluzione finale, all’omega straziante di un farewell to arms ipoassiale a picco sulle nostre teste. La perdita di massa dell’E=mc² corrispose al perdere la guerra in dispersione di fuga ed entropia. Una moltitudine di procarioti pullulanti nelle venature infestate della terra affascinante ed erratica di Kawabata smisero in un istante vanesio e concentrato di respirare e gioire, e tutti, dico tutti all’improvviso ci trovammo solidali ad indossare i vestiti nuovi dell’Imperatore: le confessioni di una maschera di sangue. Agosto era sempre stato il mese delle giovani promesse; per noi divenne il lamento di chi non ha più fiato neanche per gridare contro la terra battuta ed illanguidita, la cartina al tornasole di come noi percepimmo la nostra rinnovata, mostruosa alterità.

L’esubero di atrocità si ottenne però nelle generazioni successive. Teratomi anaplastici in forma di bambini continuavano ininterrottamente ad essere sfornati, sformati a panettoni di carne macinata, alla bene e meglio, dalle madri della Patria; infami da sfamare, i nostri cari, teneri codini di rondine scatarranti podagra e vagiti inascoltabili! Come il lamento dell’alluce valgo di piccoli Golem deformi ed irritati dal latte cagliato e giallognolo di una terza poppa emersa in pieno petto alla nutrice ormai impazzita e vuota di seno. A peste et bello libera nos, Domine! Liberaci dal blastema blasfemo inevitabile delle salamandre pensierose che ci strisciano da sessant’anni fra le vertigini del capo e del collo uterino, urticanti di collagene extracellulare a coprire di vergogna le nostre pudenda glabre, come le stimmate del vaiolo tatuate sulle vacuità vaginali delle nostre vergini partorienti, slavate dalle lacrime di acqua e sale dei nostri santi Kami per sempre distanti da noi come le noncuranti divinità del pio Epicuro, affossati a giocare a carte e a farsi i fatti propri nelle palafitte fibromatose del torii di Itsukushima, mentre ci lasciano qui a bruciare incenso ed a morire!

Che cosa abbiamo fatto per meritarci questo? Quando la mandorla degli occhi è l’unico cibo rimasto da divorare, quando padri ugolinici e figli citoplasmatici nati male rassettano nel seppuku, ogni giorno, l’istinto alla pietà evirandosi in un testosteronico harakiri fra le palle dei bulbi, sparandosi dignitosamente una pallottola nel mezzo della fronte? Quando non c’è rimasto nessun alleato ad aiutarci nella Tana del Lupo?

Fra i rifugiati nei bunker postatomici, molti morirono fra atroci filosofemi inerpicatisi come piaghe sulla pelle dei ricordi. La Patria, la Razza, le Radiose Giornate d’Agosto. Molti, ecco, sono sopravvissuti. Hanno continuato la loro magra esistenza imbastardita dalle pieghe pittate di mascara della radiazione ionizzante che ricopriva come una membrana di collante fibrinogeno il loro corpo in ceppi piegato come un kappa, esacerbato in modalità esecrabile dalle escrescenze deformi che reduplicavano le appendici corporee, ricoprendole di peli sinuosi come scaglie di ninfe ondine ritoccate dall’angioplastica dei nostri cuori malati. Otto braccia che presto divennero zampe prive dell’acutezza e dell’arte dell’ingegno di cui straparlava baroccamente un tempo Baltasar Graciàn, che s’agitavano inutili nell’unica occupazione di tenerci aggrappati alle pareti dei nostri amniotici, sotterranei rifugi. L’adattamento fisiologico nelle specie viventi sottoposte a radiazioni assume molto spesso delle simpatiche forme d’ironia. I miei prozii erano fra questi, figli del cromosoma X, rinchiusi in una cava a quindici metri sottoterra, un Daemon Core di roccia e breccia abbandonata dagli Dei, violentando giorno dopo giorno la propria volontà di respirare polvere velenifera e libertà. Sola dosis venenum facit, soleva dire Paracelso. Così, qualcuno è uscito all’aria aperta, e non è più tornato.

Io sono nato dopo. I miei erano ammarati amaramente nel morbo, eppure si ritenevano al riparo dalla superficie contaminata d’Oceania; ma la trasmissione delle aberrazioni cromosomiche fu lo stesso fatale a loro, a me, ai miei figli. Anche mio padre è stato affetto dalle mie stesse malformazioni congenite, anche mio padre è grande e grosso quanto me. Ormai una fitta peluria che comincia a diradarsi nella foga della masturbazione mortale mi ricopre, la pugnetta miopizzante di una damnatio benevolentiae; un probabilismo stocastico ha lavorato negli anni a danno della nostra identità di genere e specie, siamo rimasti vittime e carnefici di una darwiniana isagoge di trasformazione. Un tempo uomini, ora impigriti come insetti, dispersi nel grembo del citoplasma terrestre, nelle cavità orali della terra. Il mio destino taumaturgico leggendario di aracnide psicopompo non mi è ormai del minimo conforto, trapassare dal regno dei viventi agli inferi dei mai nati non potrebbe ormai che consistere in un determinismo fatuo che sembra già scritto dalla notte dei tempi, ma che in realtà non è stato deciso che alle ore otto e sedici minuti in punto di quella maledetta mattina di sessant’anni prima, nella fiumana in piena dell’historia deflagrata, nel contrappasso dantesco della congiura delle polveri. Dondolo diuturnamente appeso, pizziche e tarantelle atonali e dodecafoniche sembrano muovere le disiecta membra in decomposizione della prodigiosa figura mia e dei miei fratelli, la cui ombra si proietta in immagini traslucide al cartoncino nella camera oscura della caverna in cui restiamo sospesi, le nostre tele immobili di bonaria fissità priva di movimenti d’aria. Tutta una specie si è esposta al rigetto della classificazione di Cuvier e di Clerck, all’antiassioma platonico del metodo della diairesis, ed ora rimaniamo inerti ad attendere una non premeditata fine.

Il muco che secerno non è più bastevole per produrre la trama e l’intreccio della mia kafkiana testimonianza, enumerata e scomposta un tempo in centonove famiglie e quarantamilacinquecento specie. Perché io, proprio io!…Nella mia mastodontica e vilipesa nudità, nella verace voracità che ormai mi spinge a divorare i fratelli morenti, a masticarli in gangli gangrenici e a digerirli con l’enzima intestino della più cupa disperazione, mi sono rappreso, come in un cristallo d’ambra in qualche modo, mi sono immobilizzato, astenico e pensoso come un filosofo sifilitico, mi sono domandato di me stesso più e più volte, come un tarocco enigmatico che richiede un’interpretazione univoca e loquace presso i posteri pensatori. Troppo pesante perché non cada, mi dondolo, mi dondolo, mi dondolo sul filo, in attesa della liberazione. Cadrò, cadrò, mi perderò in panne, mi renderò impuro nel contatto con le rocce contaminate, quelle stesse a cui cerchiamo di sfuggire in orde fossilizzate di individui fissati dal flash di un punto interrogativo, sospesi sulla tela secreta dai nostri dorsi prostatici così come risultano in letteratura sulle orme ordinatrici di Latreille.  Dominium: eukaryota; regnum: animalia; subregnum; eumetazoa; ramus: bilateria; superphylum: protostoria ecdysozoa; phylum: arhtropoda; subphylum: chelicerata; classis: arachnida; ordo: araneae, in muta ricomposizione, in ricomposta mutazione, sopravvissuti alla morte omertosa che si stende come letame incatramato sopra e sotto, sopra e sotto, sopra e sotto. Unici compagni di sventura: gli scorpioni, parenti serpenti; ma insomma, come dire, non parliamo neanche la stessa lingua, ci divide la sospensione fra la terra e l’aria, e soprattutto noi, noi!…Una volta, eravamo umani, più che umani, oltreumani…

Sono stanco, stanco, terribilmente stanco. Da troppo tempo, a piccole colonie sottocutanee nell’abbraccio più che fisico di una progenie malata, cerchiamo di resistere in attesa di novità; ma qui, nelle caverne al riparo da sole, non vola neanche una mosca, in questa tana priva di sensi, in questa tana priva di senso. Moribondi aneliti al niente ci opprimono fra le fessure di antiche ossa rocciose indovinate, ormai svanite come semini di miglio durante un’inondazione tifoidea, e non ci resta che annaspare nell’attesa, al buio, agitando gli arti attaccati al soffitto con lo sputo della tela a quest’opistosoma posteriore da cui cacheranno fili di risa e flautanti cachinna gli ilari posteri, privati, perché risus adbundat in ore stultorum, di qualsiasi sympatheia, della fascinazione orrorifica ed illuminante della testimonianza oculare. Posteri che mancheranno l’occasione della storia, che stenteranno per questo a credere, ad addolorarsi, a premeditare, a capire; che si rifiuteranno, a loro volta, di testimoniare. Che non sapranno, a loro volta, amare.

Non ho più forze per pensare, per sovvenire ed ovviare, per ricamare la mia trama mucogena di scrittore fallito nel genere, umano e letterario, fallato nel corpo, trapassato e metamorfico, da Cro – Magnon a Cronenberg. Non ho più forze per sorreggermi nei ricordi di un confortante come eravamo. La vita è sempre stata difficile, così, appesa ad un filo, nel dopoguerra atomico, per un superstite solifugo di Hiroshima, devoto al Dai Nippon Nihon Teikoku. La vita non può che essere una lussuosa scomodità, un’appendice al principio di indeterminazione di quanti siamo, saremo e siamo stati, una cacofonica assenza di Dio in pieno stato di disgrazia, per un ragno umanoide di trentacinque chili di peso.

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* Pubblicato su MareNero, Anno I, n. 1, Agosto 2014, a cura di Alda Teodorani.

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