
Di SONIA CAPOROSSI
Il turpe è il calore del superstite
Lidia Riviello, Sonnologie, p. 50
i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo
Ludwig Wittgenstein
Nella giurisdizione deterritorializzata dei “supermercati onirici” colonizzati dal nostro subconscio di cui parla Emanuele Zinato nella postfazione all’ultimo libro di Lidia Riviello intitolato Sonnologie (Zona Contemporanea), ritroviamo l’evocazione di un nuovo linguaggio poietico che si offre al lettore nel nome del più eterodosso wittgensteinianesimo, laddove i limiti tracciati dalla ricerca comunicativa dell’Autrice delimitano a loro volta i confini di un nuovo perimetro di significanza, nel tentativo di dare voce e corpo alla dimensione sfuggevole e metasemantica del sonno e del sogno. Riviello tenta di ottenere lo scarto linguistico normalmente proprio della poesia sperimentale più sensata, raggiungendo così un piano estetico in cui, se aliquid non stat pro aliquo, è solo perché ci troviamo nel pieno tentativo di superare poeticamente la dimensione tradizionale del freudismo classico e dei meccanismi psicanalitici del sogno attraverso una decodificazione altra che si condensi in una sorta di allegoria dell’irrazionale, simboleggiante nient’altro che la nostra sordida e vile società dei consumi postcontemporanea, che rende merce persino l’inconscio.
Per ottenere questo risultato, la poetessa dissemina il testo di riferimenti icastici e metaforici che simboleggiano il Sistema e le sue normative reificanti e spersonalizzanti, come l’immagine dell’“Istituto” che “lascia accese le vetrate” (p. 10): l’Istituto è metafora del subconscio in cui acquistare significati e dare sensi al senso, oppure, con Savinio, “dare forma all’informe e coscienza all’incosciente”; è l’istituzione primaria dell’onirico nella dimensione del sonno, laddove, nelle “superfici in conflitto” (p. 5), il conflitto è rappresentato dal cozzo spaesante fra Sinn e Bedeutung. Nell’ipermercato del sogno, infatti, c’è in vendita “una forma di vita”, come direbbe Wittgenstein; ma è una vita, appunto, in veste di forma, cioè informata e informatizzata e, quindi, strutturata su un piano diverso di realtà: come in un ologramma balneare, immagine anch’essa ricorrente in diversi luoghi del libro che richiama la mercificazione delle vacanze e del tempo libero, la nostra società consumistica risulta iperreale proprio quando è in vendita all’ingrosso e all’ingrasso.
L’istituto che lascia accese le proprie vetrate, quindi, è anch’esso un richiamo iperrealistico all’illuminazione notturna di quasi tutte le vetrine dei negozi di oggi: il nesso metalogico tra il contesto semantico della produzione materiale di una società consumistica come la nostra e la pro-duzione onirica è evidente e si spinge fino al riferimento diretto alla demografia come scienza, che traccia in modo asetticamente statistico il prodotto umano o umanoide: “sul controllo delle nascite dei futuri insonni / sono stati scritti interi trattati”. La società, insomma, è soggetta alla propria intrinseca necessità di generare un Prodotto Interno Lordo, quello composto dal materiale umano trattato in termini di reificazione e oggettivazione, che è poi, tra parentesi, l’argumentum di gran parte della poesia di ricerca attuale almeno da quando in poesia s’è deciso sperimentalmente di dismettere qualsiasi istanza dell’Io. Ecco allora che dal PIL dell’Ur – Generazione, dagli individui prodotti in serie che ci possiamo figurare in un prossimo futuro in cui vigerà la clonazione come tecnica produttiva e ri-produttiva, si passa a considerare il contesto s-paesaggistico di riferimento e d’uso, quel “panorama alle seychelles”, scritto così, in minuscolo, “taggato alle spalle” (p. 11): ci si tagga perché in iperrealtà è la Rete il non – luogo metafisico dove pescare l’ologramma falsificato di una vita realmente ideale, idealmente reale.
All’interno del testo vengono de-scritti molti altri non-luoghi, come ad esempio il cinema: dormire al cinema durante il film significa, a ben vedere, stare svegli nel plot, nella trama, nella Rete (la “trama divorante” citata a p. 16); la dimensione onirica del sonno è una narrazione in senso foucaultiano e deleuziano, dove la struttura decede e recede il contratto con il senso, tale che il sogno può essere raccontato, registrato, rivisto, ri-prodotto, ma sempre nel contesto d’uso della technè, questo contemporaneo leviatano che domina e dirige la riproducibilità nell’era dell’opera d’arte tecnica: “di questo sonno conservano molte versioni hd” (p.12). Così, se anche il sogno può essere riprodotto tecnicamente, se può essere objectum anche la nostra coscienza, può accadere quindi che il sogno sia più come un film o un serial TV surreale che come la vita; càpita che si sognino “cavalli” (p. 13), come il cavallo bianco nel salotto della Signora Palmer in Twin Peaks: “ma nel bosco”, ovvero nel villaggio globale, che è la selva dantesca per eccellenza, “si fa fatica a convincere tutti / dell’infondatezza di un qualsiasi prodotto / pensato per il suo tramonto” (p. 13): ogni prodotto, oggi, viene concepito in virtù e in nome della propria putrescente e immediata obsolescenza, affinché tramonti presto e si dia nel ciclo e nel riciclo come “mercanzia onirica”, come eterno ritorno dell’uguale, presso gli scaffali degli ipermercati globali.
Ecco che il realismo, in realtà, è una visione superficiale, una sorta di inganno politicizzato, perché il politikòs è stato sempre scambiato troppo facilmente con il concrezionale, mentre consiste in un oppio, un’illusione: “per la ostinata età del realismo si provocano nel cliente delle reazioni che lo inducono a produrre molte visioni superficiali come quella della città rossa” (p. 14), tale che, all’interno della dimensione protettiva e ovattata dell’adesione a un’insegna quale che sia, per esempio il comunismo, ovvero “fuori dal mercato”, noi tutti, dice Riviello, “avremmo un altro aspetto” e invece “l’indotto, il marchio, il riciclo fioriscono / indisturbati / nel tribal” (p. 15), persino nel tribal, che dovrebbe essere garanzia di autenticità.
Accade allora qualcosa di iconicamente preconizzato: il tribale, che dovrebbe dare luogo a una sincera adesione aborigena all’ethnos e alla socialità di riferimento, è divenuto a sua volta un marchio, una posa barocca. Il sogno fa emergere così lo scarto di significato tra il pro-dotto e l’arte (che viene simboleggiata dalla citazione immediatamente successiva ad “andrea mantegna”, ma di nuovo così, in minuscolo): come se solo all’interno del sogno potessimo trarre i significati simbolici più autentici delle cose, mentre quando viviamo, in realtà risultassimo oppressi e obnubilati dalla falsa realtà matriciale che sola invece riteniamo vera. Ecco che allora, nell’ansia e nella sete del consumo, “sull’uso e non sul significato dei sogni lavorano incessantemente / sottotitolando misticamente il profitto” (p. 16). La stessa “popolarità del bancomat” citata più avanti è un atto populistico di utenza e clienza che consiste nella più patente “sopraffazione dell’uomo sul sogno”, tale che la vita è sonno e il sonno non aiuta a vivere meglio.
Altre metafore e richiami simbolici, persino allegorici, sono sparsi nel testo; come quello a p. 18, in cui affiora la figura archetipica di Ulisse, imago dello smarrimento post-contemporaneo, descritto come un utente della Casa del Grande Fratello o come fosse un naufrago posticcio all’Isola televisiva dei Famosi: “sull’isola il cliente teme un colpo di sonno”. Ma in questa pagina c’è di più: il surrealismo postmoderno del Pinocchio semioticamente analizzato anni fa da Emilio Garroni è anche il Giona biblico che si fa materia narrativa onirica nel ventre della Balena Bianca, “andato a fondo nella preistoria, / sul dorso del pesce / si raffigura nel binocolo il naufragio del materno”, con un ennesimo richiamo al surrealismo di Savinio, il Savinio in particolare di Tragedia dell’Infanzia, che “assiste alla sindrome lattea del dormiente successivo” come metafora della maternità amniotica di un famoso passo del testo. Per ciò, nella “mercanzia onirica” di cui già si diceva, “se l’uomo non dorme perde una qualità” (p. 19), e quando è sveglio, somiglia invece terribilmente all’uomo senza qualità di Musil, l’uomo contemporaneo, inconsapevole e decerebralizzato.
Le metafore legate all’acqua si succedono nelle pagine successive, la barca citata a p. 20 sembra l’arca di Noè che però qui non reca salvezza, bensì consiste in una sospensione a-storica del detto e del fatto, tipica della nostra società post-occidentale. Per cui, “l’ultimo utente” che si nomina più avanti è come l’ultimo uomo, o il primo, che dir si voglia, nell’eterno ritorno dell’uguale che consiste in quel nulla che siamo e che riempiamo diuturnamente di non – essere come parvenza di qualcosa: ecco che “corrispondono a solitudine sul molo i salvataggi in forme estreme / dell’ultimo utente / infranti nel sonno libero”: sembra quasi che si stia citando The Truman Show, laddove l’ultimo uomo si chiama appunto Tru-man, l’ “uomo vero” che crede di vivere una vita autentica ma in realtà non può far altro che vedersi vivere pirandellianamente, nella propria sovraesposizione al Big Brother universale che trasforma l’essere umano in un mero numero di utenza domestica.
Così, nella “riflessione frammentaria”, quando anche l’intelletto è scisso e franto nell’intermittenza semiologica della fase REM, si scopre che “una volta si sognava senza produrre” (p. 21) e che i prodotti più amministrabili dall’Istituto, ovvero dal Sistema, sono proprio i miti d’oggi, a patto che risultino “utili per questo Sistema”: i miti d’oggi, come in un quadro di pop art, si sovrappongono al reale aumentandolo ma contemporaneamente diminuendolo a piacimento del Sistema stesso e all’insaputa dell’utente che non ne sa gestire l’input e l’output. Ecco che, all’interno di questa realtà aumentata ma pur sempre posticcia, persino l’elemento dell’eros subisce una stortura: “tutto è crudele se è rosa la superficie” (p. 22): “arrestare l’avanzata del godimento” è la sconfitta del Marcuse di Eros è Civiltà e dell’illusione foucaultiana che il sesso possa rappresentare, nella società postindustriale, una via di liberazione e di salvezza dalla coercizione reificante del Sistema in quanto tale. Invece, “la beatificazione del porno non cambia l’espressione del volto” (p. 23), e allora anche in sala parto vige la dimensione oggettualizzante del baudrillardiano slogan pubblicitario: “dormire meglio, dormire tutti”, per cui il neonato è come il “cliente snobbato rinviato al sogno nello strillo paterno” (p. 24). Come dire che, nella numerologia demografica dei tassi di natalità e di mortalità che già da sola ci rende alieni a noi stessi, siamo “cento milioni di utenti” come cifra ipobolica, che brulicano come formiche e si contorcono come vermi orgiastici all’interno di quel feticcio cicatriziale che è l’automa che si aggira senza “volontà e rappresentazione” al centro commerciale, il non – essere nel non – luogo, ovvero nella baluginante assenza: “nessuna produzione li riguarda, / le immagini vivono di continuo, oggetti da regalo, / sospese nel dossier del tempo libero” (p. 26). come Asperger monadici di Leibniz, non siamo altro che “gli iperattivi clienti di sebastian thrun” (27).
Thrun incarna in qualche modo la figura archetipica del Creatore, l’Architetto di Matrix, lo scienziato e ingegnere esperto di robotica che all’interno del libro viene richiamato più volte e rappresenta la liberalizzazione della cultura internettiana la quale, una volta portata all’estremo, non fa altro che bruciare l’incenso rituale dell’alienazione e della volatilizzazione del Genere Umano. È colui che, nel produci–consuma–crepa come habitus in vigore all’interno della meter-polis, ha compreso pienamente che nella nostra installazione nel mondo siamo driverless (p. 29), non abbiamo guida, e quindi prendiamo parte in un “mondo che non potremo più trascrivere” perché non ne possederemo più, in breve, la minima chiave di lettura. Siamo ormai oggetti, siamo cose messe in fila, come “la parata dei passeggeri da un tunnel all’altro” (p. 30) che ricorda la scena dell’ingresso in fabbrica degli operai di Metropolis di Fritz Lang, automatismi sospesi nel cronotopo come nel percorso indecidibilmente eternato di un nastro di Moebius.
Così, il mondo è un circolo vizioso di tassi di nascita, crescita, inflazione, deflazione e morte che si avvicendano nel doppio fondo identitario della Rete, nella dematerializzazione del contatto umano, nella mercificazione delle relazioni sociali: “resta accesa la mail di sebastian thrun quando il cliente disorientato / cade, / si riavvolge nelle ripetizioni, / la metropolitana leggera si ferma nelle natalità scintillanti” (p. 31).
È a questo punto che ci si rende conto, nell’antilogia tra sogno e sonno, che la realtà virtuale simboleggiata dai riferimenti al primo, la quale sembrava una grande promessa del futuro prossimo venturo, talmente venturo da risultare il presente, cede il passo alla realtà aumentata di cui, in definitiva, è il sonno il regno e il territorio di conquista; e ci si rende conto di tutto questo nella semplice forma di una domanda retorica: “perché si escluse radicalmente barbie / mentre l’incanto generava il torso del giocattolo ormai reale?” (p. 32). Il surrealismo, infatti, è “combattuto sul nascere”, quando “driverless si sposta in collaudi minimal, li chiamano collant / nel progetto” (p. 33), e allora si investono soldi nonché risorse umane e materiali nella progettazione del superfluo, dell’inutile spacciato per utile, come se stessimo nelle segrete del laboratorio avveniristico di Google X. Il “nudo integrale di barbie” (p. 34) nella bambola in commercio non esiste, in quanto giocattolo asessuato e diserotizzato; come a dire che, nell’ “effetto della Torre di Babele”, la parola non se(n)so, è sovrabbondanza fossile di significati residuali, “estinzione di ossa scintillanti mai viste” (p. 34): e proprio in questo consiste la meraviglia.
Così, continuano nel testo ad avvicendarsi i richiami al consumismo materializzato della Rete (a p. 35 si cita per esempio “ebay”); i “clienti assemblati” come macchine nella grande fabbrica delle connessioni neuronali del Matrix originario, quello concepito nel 1984 da William Gibson, mandano “al museo la dialettica” come scienza del saper parlare secondo ragione, in quanto, nella sonnologia, la ragione cede il passo ai meccanismi freudiani di condensazione e spostamento e, quindi, all’alfabeto altro dell’irrazionale. Il sonno, allegoricamente, è l’ambiente elettivo di una specie di nuova guerra fredda semiotica tra Senso e Significato: “un attacco nucleare è ancora come minaccia ma sono escluse le reti” mentre la “metro” funziona da “rifugio” e il “fondo di plastica / ammattito nell’uso delle scale mobili”, in barba a qualsiasi filosofia dell’Idealismo, è “anche detto farsi dinamico dell’assoluto” (p. 37).
Insomma, la “macchina” mondiale di cui parlava Paolo Volponi, quella che nei sogni pazzoidi del contadino filosofo avrebbe mostrato mirabilmente le regole delle meccaniche universali, oggi invece, nel mondo in cui viviamo come fossimo uomini della “folla” di Edgar Allan Poe, è una macchina “incompleta” che “giace in attesa”, nelle pastoie immobilizzanti del fluire microcosmico, nell’ologramma reiterato e ossessivo delle “cascate del niagara”. Non esiste più una filosofia che tenga insieme la dimensione frammentata dell’intelletto e dell’arbitrio, “dormire lunghi sonni privi di volontà e rappresentazione” (p.39) è una sorta di luteranesimo coatto della servitù intellettuale, una Riforma asettica, una rivolta finta, una perdita di ruoli e scopi nella decostruzione di qualsiasi socialità originaria.
La futuribilità dello sviluppo tecnologico non ha, a ben vedere, niente di futuribile: è il presente aumentato come accadeva già per i Kraftwerk, in cui vigevano la ridondanza e la ripetizione con funzione di affermazione e cristallizzazione priva di movimento delle cose e degli oggetti della technè heideggeriana, presi all’interno del loro puro e semplice contesto d’uso (nel caso dei Kraftwerk, l’autostrada, l’home computer, il robot etc.). Si tratta di oggetti semplicemente esposti in vetrina (le vetrine illuminate dell’Istituto) nell’ as–it–is di un’esangue reificazione sommaria della vita da cui il sonno, respiro e russo incluso, non eccettua. Ecco che “il nucleo protetto di sebastian thrun subisce una frattura” (p. 40) e la “macchina” nominata a più riprese verso il finale del libro è proprio quella di cui parlavano i Pink Floyd in Welcome to the Machine, con tutto il suo “potere di indeterminazione” heisenberghiano (p. 41) in base al quale, se cerchiamo di osservare un phainomenon, quest’ultimo verrà inevitabilmente influenzato dalla nostra stessa osservazione, consentendo così un continuo slittamento della realtà e della verità in altro fino alla completa indecidibilità del mondo.
Così, “la macchina frena, la storia finisce in motore” (p. 42): Riviello definisce la fine della Storia come linea del tempo e l’esigenza di tornare alla propulsione semplice della stasi onirica, al circolo vizioso/virtuoso di Sinn und Bedeutung. La “specie” umana raggruma il proprio organo fonatorio principale, la lingua, in una “tautologia addensante” e così “scompare la definizione di conducente”, o meglio, scompare proprio del tutto la semantica delle cose. Questa sorta di dissipatio linguae consiste, a ben vedere, in una nuova sorta di dissipatio humani generis alla Morselli che offre il destro a una “prima fenomenologia della finzione” in cui i clienti sono accomunati ai “topi / eccitati per l’acciaio e per l’assenza dell’uomo alla macchina” (p. 45); torna anche qui il riferimento alla robotica in cui la presenza umana langue, in un’evocazione evidente del Man – Maschine dei Kraftwerk, a sua volta iconologia più-che-moderna dell’Uomo – Macchina di La Mettrie, un corpo come miracolo naturale autotelico che oggi ha dismesso la propria perfezione, in quanto ormai completamente disumanizzato.
La comunicazione è estinta, la dinamica emittente – messaggio – ricevente produce un breakpoint error in qualche punto indicibile del suo listato: “sebastian thrun non risponderà alle e-mail / vive dove nevica sempre” (p. 46). Per ciò, “siamo noi lo spazio fuori campo” (p. 47), l’entità totemica che raggruma i segni in una distopia iposignificante del linguaggio; la metropolitana, che ricorre come immagine in più punti del libro, è la metafora del viaggio umano che diviene prima umanoide, e poi disumanizzato, nell’assenza completa del conducente e della cabina di guida. Tuttavia, la nostra “assenza collettiva”, in fondo, depone a nostro “favore” (p. 52): l’ignavia è segno di sparizione volontaria dalla memoria storica, dal ricordo individuale; il nostro mondo, ormai, “come impero si disfa come casa si dimentica” (p. 53), e non vale “sentirsi opinion leader per dimenticare il réel de la mort” (p. 52), perché “la mort” incombe inevitabile sulla dissolvenza incrociata della realtà aumentata in virtù della quale la nostra dimensione percettiva primaria dilegua. Allora, “è fatto di sola memoria il mondo che ci lascia nel gruppo, nelle basi della responsabilità di vita e morte”, quando anche “le ginestre che non usate nelle rivoluzioni materiali sono davvero insopportabili adesso” (p. 54): Leopardi non vale più, il lirismo dolente dello storicismo romantico che simboleggiava nel fiore del deserto la resistenza umana alla natura delle cose non ha più modo, senso e ragione di esistere, è, ormai, una “rimozione”, un torto tolto, un’absentia pacificata e grata del suo non esserci. In fondo però, nelle Sonnologie di Lidia Riviello, una traccia di ri-ciclo lirico permane esangue e dimessa, conscia di una fine che coincide col proprio fine, se è vero che “resta sul punto lacrimale la rimessa in moto d’uno stupor” lirico tradizionale, come rappresentasse la condensazione sintomatica della storia dell’arte, del mondo e dell’uomo dagli albori al tramontare: uno “stupor”, infatti, “per ora appena sgranato”.
Un pensiero su “La clientela mitografica di sebastian thrun nelle iperrealtà ipnomorfiche di Lidia Riviello”