“Il corpo morto dell’animale”, un racconto inedito di Vladimir D’Amora

Franco Fossa, “Cane”, 1959, legno

Di VLADIMIR D’AMORA

Si decise una mattina di fine agosto, per sputare qualcosa, il caldo di più, sulle loro tombe, che non le aveva mai degnate d’una visita, padre e madre entrambi chiavati nella terra, fino allora ossa scordate, innocue. Eppure il caldo montava come ogni anno come un cane petulante, non feroce ma inaggirabile, bisognava spartire. E si mise in viaggio, per arrivarci fradicio di puzzo e sudore il più salato volle farsi tutto a piedi, quando l’ombre hanno più pudore ma niuno bene. Chilometri di pensieri, pure tormenti furono, senza una sosta una, imbrigliato dalla voglia di non essere più solo, potere allora essere degno di compagni muti, mai molesti, impossibilitati. Fu però una speciale erezione provocata dalla vista più ordinaria lungo quelle vie che un tempo le città si tenevano gelose, attaccate al rustico, i paesi coi pani che non si fanno tosti, il sangue di gallinaceo che talvolta capitava sulle gonne spesse grigie di massaie potenti, virago elementari. Vide un cane nero, zoppo, glabrissimo che montava la sua cagna d’occasione, spingere sciolto da ogni richiamo di pastoni e getti più o meno freschi. Fu questo elemento, un altro, a prendersi il posto del segreto. Fu ragione per una deviazione inattesa, sconcia, come se ancora volesse essere tempo che si differisce, non essere, celarsi alla sua storia stessa. Dopo ch’ebbe avvicinato un crocchio di giovani impomatati e grugniti, ebbe il posto del piacere, vi corse lungo una salita ancor più ripida di ogni vita sottratta alle sue paure, quelle che non devi togliere. Perché ritornano tali e quali. E come la cagna s’era fatta montare piano e precisamente dal suo maschio asciutto e nero, una combinazione che affacceresti alla terra nel suo ventre indomito e più che secolare, incompitabile tanto i suoi sono bisogni inderogabili, in una maniera straordinaria lui aveva usato quella diversione. Per chiavarsi tra le cosce di grano d’una donna di provincia di quelle che non pagano prima. E che non squittiscono se non è duro e dura.
Il viaggio ai termini della sua catabasi infinita, matura come la vita delle cose prodotte dagli uomini per far funzionare altre cose, era stato macchiato da voglie eccentriche e soddisfatte, nel sudore, sotto il sole, che non finiva mai. Spettacoli essenziali, tanto da inabissarla questa loro imprevedibilità e onniappartenenza, come elementi principi atomici, ormai supporto d’ogni altra guisa, le maniere della digressione. C’erano stati popoli riti luoghi incantati e incanti remoti, e dialoghi tra ostinate potenze e forme del comune, nella deviazione, a ritornare nella lateralità, e ora lui, col suo indomito desiderio di quanto in fondo già lo teneva, incapsulato nei giorni e nelle notti statiche. Perciò s’era deciso, a camminare, ai morti, per trovarseli pietra e tempo che scorre senza che un verbo lo nomini, senza nessuno schema.
I morti hanno uno strano irricevibile spessore, la malattia che inchioda a se stessi, non lasciano mai solo alcuno, quasi che d’un tratto, pure se il morto è corpo martoriato da una infermità annosa e stravolgente con vermi invisibili, prefigurazioni, che mordono spalancandosi, ogni giorno una porzione, dalla più impensabile ai più sporgenti enormi visibilissimi recettori d’alterità. Una sintonia stupefacente, quanto più la carne richiede attenzioni non spregiudicate, pure solo il richiamo da sé a sé, i nostri morti ci sono compagnie stantie. imperdibili, il loro fetore inevitabile c’accompagna. E ne abbiamo paura, li fuggiamo, turati in ogni buco della mente, assoldati da contingenze che non fanno respirare, che ci assimilano, inanimatamente. E la cerchiamo questa paura, andiamo nelle sue braccia pietose, fino alle loro luccicanti morte anch’esse case. Dimore dei morti, alte basse ampie distese come fili indistinguibili dai più rasi prati, che luccicano di umidità e di futuro inerte.
Poi i cimiteri di paese. Paesi ormai inghiottiti da altri paesi, collegatissimi alle loro città, alle zone periferiche, denso e rutilante essere come in fiera, senza vuoto, come il sacro più scolastico. I cimiteri che riproducono questa compattezza, la frequenza delle forme, delle geometrie, dei solidi, in un silenzio rotto dalle mansioni espletate d’ufficio, coi loro odori maccheronici, inestirpabili. Gli odori di fuori. Da fuori. Questo cimitero qui assomigliava alla masseria dove aveva incontrato la biondezza montata con un sorriso solo, pagata a agio, pure baciato era stato, la lingua estranea. Due estranei, ma non come ormai gli era sua madre morta, e suo padre tumulato per ultimo, a breve reciproca distanza s’erano liberati dei loro mali, senza farmaco. Dopo una caterva di rimedi futili, gli sporchi moduli, i protocolli adeguati a quelle vite ridotte alla loro morte per cui non si può essere, coincidenti col loro dentro, coi residui che dalla passività, immobili trarranno potenza, una grandezza ignobile da umili piegati solo perché risero e respiravano e stringevano parti dell’altro, pezzi di vita. Poi si cade nella destinazione ci si desta in essa mai del tutto aderenti come un passaggio d’una narrazione pretestuosa perché sulle pagine gli schermi non le reggono le decisioni e neppure i tagli insospettabili.
Tornò a sera, a casa. Davanti ai loculi pianse, pisciò intorno a un albero frondosissimo, rassicurante, il suo liquido scorse finalmente per un condotto che sua madre, come ogni madre, aveva fatto in modo che reggesse tra le gambe, al centro giusto. Non tornò solo, non poteva più esserlo dopo che s’era liberato dei suoi morti, ormai chiusi pelle sue visite che sarebbero state visite di figlio, piangente e compunto. Sì, sarebbe stato un turista di quel cimitero, ci sarebbe andato odoroso e acconciato, con degli omaggi, comprando pure i biscotti tipici, duri, nel paese, c’erano forni infaticabili, rinomati al primo sguardo.
Lo accompagnava un cane, un altro nero, batuffolo col suo collare, lo aveva sottratto a dei padroni lungo quella via del ritorno. Ormai il sole era altrove, forse era morto.

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