Di VLADIMIR D’AMORA
Se l’elaborare e il valutare riguardano la teoria, il realizzare e il gestire pertengono alla pratica. Si parte dalla teoria, si arriva alla pratica – si insiste nella pratica e si torna alla teoria. La professione del formatore (e/o educatore, e/o riabilitatore) deve saper abitare in maniera virtuosa, cioè producendo effetti reali, concreti, pubblici, riconoscibili socialmente e culturalmente, questa circolarità di teoria e pratica.
L’elaborare fa capo a una teoria già sempre intenzionata ad uno scopo (pratico), cioè un pro-getto.
Il realizzare è una pratica in stretto legame con teoria: si rende res, cioè cosa, cioè realtà (la parola realtà infatti deriva dal latino res = cosa) sempre precisamente una elaborazione teorica, una teoria, un progetto (la specificità della competenza del formatore è, allora, quella di non tenere la teoria solo prima e dietro rispetto alla pratica, ma di farle sempre convivere: l’una, la teoria, che convive con una pratica, è la capacità di riflessività.
Invece il tecnico tiene la teoria distaccata dalla pratica, cioè tiene la teoria solo prima e solo come progetto da realizzare praticamente – mentre il formatore è non solo tecnico che applica protocolli, cioè teorie sempre uguali a se stesse e che non cambiano, non si trasformano storicamente a seconda dei diversi contesti usi e scopi e che, quindi, non si realizzano mai già come solo teorie.
Una teoria, prima di realizzarsi praticamente, si realizza teoricamente: la teoria è un sapere sempre determinato storicamente, socialmente, economicamente, politicamente: non si pensa mai in astratto e da soli ma sempre in rapporto ad altri mediante strumenti e condizioni date da altri, dalla società, dall’università, dalla scuola, dalla storia, dalla tradizione, dal passato: si pensa sempre in un linguaggio: le idee hanno la concretezza delle parole, e le parole hanno una storia, un uso, una bellezza…
Le parole muoiono perché le lingue possono non parlarsi più (cfr., tra le altre lingue, il latino e il greco antico), non comprendersi più; così come ogni giorno scompaiono parole e idee perché non ci si capisce, ci si fraintende, ci si equivoca, non ci si ascolta… Il pensiero e le parole ogni giorno vivono la loro morte perciò, se logos è pensiero e parola insieme, non c’è filosofia senza filologia: teoria senza pratica: curare filologicamnete le parole vuol dire saperle perdere, saperle far morire, dimenticarle, per far spazio a nuove parole, a nuovi usi, a nuovi significati di una stessa parola: filologia significa, quindi, amore della vita della parola che è anche sempre la sua morte, il suo contrario, la sua fine: amore della vita del linguaggio, del logos, del pensiero – senza parola, senza amore della parola, senza filologia il pensiero non può nascere, sorgere, realizzarsi, perché, quando si ama veramente, si fa il bene di ciò che si ama, l’amato viene lasciato libero, autonomo dall’amante che, quindi, smette di essere filologo proprio realizzando il pensiero e la parola, proprio amandoli fino al punto di lasciarli vivere liberi, autonomi, nella pratica, nella vita, nella società, nell’uso.
E l’amante che ama solo se è capace di rinunciare al suo amore e di perderlo, se è disposto a rinunciare all’amato, fa sì che l’amato sia libero anche se sempre nella relazione, nel ricordo dell’amante: per l’amato, cioè per la parola, per la pratica, vivere significa morire, e così è per l’amante: perché l’amato, vivendo la sua libertà dall’amante, vive e rivive l’idea, la teoria, il progetto, ricordandoli e ripetendoli e, quindi, anche tradendoli, trasformandoli.
Quindi, fra amante e amato, amore e perdita, amore e morte, filosofia e filologia, parola e pensiero, teoria e pratica c’è una circolarità sempre di double blind: il vantaggio, la vita viene dalla morte e viceversa: quindi, c’è un rapporto enigmatico: e la competenza sta nel trasformare questo, che può essere un circolo vizioso, in una resilienza di positività e novità e possibilità…
Amante e amato sono, allora, educatore ed educando, maestro e allievo, padre/madre e figlio/figlia (come vuole il primo filosofo pratico e politico della storia della paideia/formazione: quel Platone che scrive in una lingua che, se è morta, lo è perché è viva, se noi, invero, ancora parliamo della competenza del formatore in termini platonici).
Il gestire è certamente una pratica ma come voler continuare a fare: è un fare facendo durare l’azione, e allora: l’azione, che dura, è un’azione che muore, che smette di essere azione, solo azione: cioè si tratta di un’azione che, se muore, è smentita negata dalla sua teoria: è sempre accompagnata dalla sua morte, dalla sua teoria.
Quindi, gestire significa assumere, prendere un’idea, un compito una teoria e saperli esporre, far vivere: significa rendere visibili i principi, renderli riconoscibili, partecipabili, condivisibili: la gestione è appunto un gesto, cioè una prassi, un modo di essere che riesce a stare come danzando tra teoria e pratica.
Il valutare è certamente una teoria, un che di teorico, formale, ma si valuta sempre qualcosa di pratico, di concreto, di vivo per saperne il livello e l’intensità della forza possibilità di vita, di concretezza, di durata: per saperne il valore: e si vale sempre più o meno rispetto ad altro, ad altri: quindi, si valuta un risultato di una teoria-pratica per avere dati teorici che facciano ben attendere una nuova, positiva, azione.
Ora, il valore investe sia la formazione attiva (il formatore), che quella passiva il (formando/formato).
Si rischia, tuttavia, sempre e soprattutto oggi di ridurre il valutare a un aver a che fare con valori solo quantitativi, numerici – mentre non c’è numero senza idea, pratica senza teoria, quantità senza qualità… Dunque: non potendo rinunciare ai numeri e alla quantità, alla tecnica, al calcolo e all’economia, cioè al proprio tempo, come garantire, assicurare uno spazio di libertà, di qualità, di criticità di idea, di significato, accanto ai necessari segni del tempo e della storia che sono numeri e dati, calcoli e protocolli?
Come misurare, calcolare l’incalcolabile?
Come valutare la qualità umana, l’individuo come persona senza solo ridurlo alla scissione tra cliente e cittadino e utente?
Quali sono i numeri con cui monitorare, calcolare e valutare la persona se proprio questa è una nozione non sperimentabile empiricamente?
Ciascuno di noi è persona se è anche qualcosa di tanto singolare però da potersi sempre e soltanto ritrovare in ciò che è qualunque e di chiunque: si è persona nel comune, nella società, nel rapporto: quindi, una persona non la si può ridurre solo alle valutazioni quantitativo-numeriche che pure sono inevitabili, necessarie, reali: una persona non la si può toccare, incontrare sperimentare ma tuttavia si è persona, siamo persone solo se riusciamo ad altri a testimoniare della nostra singolarità accogliendo quella degli altri, la singolarità comune: ciascuna persona è la prova e la testimonianza che c’è persona dove c’è valutabile, riconoscibile, comunicabile esigenza di comune, di rapporto, di relazione.
La formazione è quella situazione e condizione, quell’accadere, quell’evento, quella storia in cui si testimonia sempre di ciò che si vuole per gli altri e con gli altri: e, quindi, ciascun individuo e ciascuna teoria e idea sono, nell’essere se stessi, proprio l’altro da sé, la pratica, la società, la relazione: siamo sempre una intestimoniabilità: siamo sempre l’impossibilità di testimoniare del rapporto che pure siamo e dobbiamo essere…
La formazione insegna a creare situazioni e condizioni di reciprocità: perché, se c’è muto scambio: possibilità di apertura da ambo i lati di un rapporto, allora: se io, testimoniando non posso testimoniare perché non ho numeri, parole, per la qualità, l’unicità, singolarità, vuol dire che anche l’altro è nella medesima mia condizione e che valiamo entrambi per ciò che non possiamo essere, valere, pensare, fare: per la relazione nostra reciproca e di ciascuno di noi a ciò che infondato, qualitativo, unico solo può essere ciò che fonda il quantitativo, i numeri, l’economia.
Ciò che regge, il fondamento, il formatore è dentro al suo reggere, fondare, formare: è parte integrante della relazione formativa perché, reggendola e fondandola, la fa finire mettendo il formando nell’autonomia e libertà di una legge che definisce quella situazione per cui, quando ormai questo è formato, allora egli riesce a dare a se stesso un senso, una direzione, una legge da solo essendo divenuto il suo proprio maestro…
Solo l’infondato, l’alunno può fondare, formare – ma, se fondamento è il maestro, allora: infondato è il maestro stesso…
Allora: maestro e alunno: formatore e formando/formato sono una reciprocità insieme fondata e infondata: insieme teorica e pratica: sono testimonianze di possibilità sempre a perdersi: a essere la inconsistenza dei propri protocolli e principi: la misurabilità del proprio fallimento… Perché sempre l’alunno è maestro: si è alunno dell’alunno – sempre il maestro è alunno: si è maestro del maestro.