Di VLADIMIR D’AMORA
silloge distrutta
E proprio quando siamo presi da una vita che ci sembra, e che poi in effetti è, piena di dolore e di tempo sottratto a noi stessi – e chiamalo lavoro: chiamalo stress: e… chiamalo! – vale la pena, in questi momenti, di darsi al vuoto: capaci di amare anche il nulla… Altrimenti s’è dei fottuti imbecilli: degli economicistici del cazzo: che, quando tutto fila bene o più e meno bene, si concedono lo sfizio, che so, di far poesie del cazzo: di star connessi: di andare al parco: al centro dei commerci e normati e anormali: di scopare e di mangiare un gelato o di contemplar le stelle del cazzo… O proprio un cazzo…
” te come la ribevuta /
ti ho fatto nascere libera d’istanti raggomitolata per gli scarti comuni /
a queste scriteriate
potenze di parola
nei giorni disciolti nel / ripetersi delle
covate simili ai
figli e a baci /
e se ti porto nell’intreccio d’acqua di gomorra è un alito il mondo /
che si distende al polline serale
e se ti spargi io sono nel tuo… /
ed elemosinammo mille su mille e i mille
baci per la notte, in cui i fratelli… /
mille inquieti rivoli fummo un saggio – solo di umido respiro
e continuammo così,
tra la sborra copiata
era un altro canale / acceso da un dio, dal suo terribile largo mancare
Quando visito uno schermo, quando, come oggi, le cose, per dirla col sociologo Bauman, si fanno liquide, non è che non si capisca proprio un cazzo della e nella propria vita…
La vita, le vite schermate – non sono solo vite di pesci guizzanti-sempre nel mare sempre-ondoso, se non sempre-burrascoso… – in modo che ciò che nuota nel mare diviene, esso stesso, solo mare!
No, i corpi che noi siamo, nella vita schermata, le identità che continuiamo a essere, le storie che sempre abitiamo e viviamo, certo che si fanno fantasmatiche e mascherature tutte di vita, ma appunto sono come quanti di potenza: schegge definitissime di identità che gravitano nel vuoto; e per gravitare senza senso e senza direzione, nella con-fusione del contesto e dell’ambiente, continuano ciononostante a essere riconoscibili e praticabili e narrabili e vivibili…
” è un buio ricordo /calarsi a funi che legano le voci /
sulla lingua che lecca alla linea, un arco /
si tende sulla punta
e il mio cazzo è peso è
caldo sul tuo seno /
io che cado mentre precipito in queste forme esse / sono dischiuse dalla mia e tua natura /
e siamo l’acqua
sulla terra tua /
e mi bevi, mi prendo il sapore dalla tua bocca
rotta /
Cos’altro, lo schermo, in fondo, se non quella dimensione che rende percepibili e visitabili le vite e le forme come sempre staccate le une dalle altre: come forme assolute, ossia separate dalle vite, e come vite nude, ossia denudate, private delle forme?
” nei giorni del notturno
non abbandonerai le forme / mani tese al cazzo mio sognavi
scrivere / occhi
sordi della precisa via ai giusti /
non hai lasciato /
altro che un’idea inattendibile /
essere questo tuo mondo e esterni / erano i pugnali duri ma mi cercavi anche nel silenzio
” la nostra mano sarà il testimone sangue che fece rossa l’infanzia e il battito /
assurdo nella stanza siamo noi il nervo dei fiori contesi dalla vita /
” chi parla pieno di primavere nel pieno inverno se nevica anche la neve /
” una bufera di tempi sradicati o terra /
i tuoi seni /
tu che vuoi /
manifesti
– riuscire a vedere
riuscire a sentire –
– superare la parola e
scavarla col renderla a una porta
e non hai la chiave –
– la bocca conosce il sapore e non lo sputa –
” e nelle ore che verranno
non ci sarà caduta /
in brevi attimi non può
perché la voce a una donna – è un progetto /
di passeri o di un battito d’ali e libera e sempre /
– questa è la contraddizione,
anche in seno al cazzo mio –
” rischi /
e i limiti /
i giudizi /
giudichi cosa se ne facciano i primi nati del pane /
se i secondi non conoscono e gli ultimi no, ora no /
Lo schermo è quella dimensione, per cui le forme sono stagliatissime ma solo forme, ossia solo riconoscibili e visitabili con lo sguardo, con la mente; e le vite sono vivissime ma solo vite, ossia solo esperibili, solo avvertibili e oscuramente e paticamente.
” e come smettere di volerti finire sulla sabbia in una notte /
la costiera è rettilinea e uguale alla nostra /
direzione di vita, era la solitudine /
la magia degli eterni brusii /
queste vertigini di stanza in esclusione umana /
come spegnere le macchine che ci costringono /
a chiedere /
ancora /
un attimo a un’altra forma… e tu eri l’altra donna… /
un’ora di stupore artefatto, se ti pensavo come altra e destinata… /
– la fresca marmellata di finzione –
ma eri la mano – tu – e odorosa e santa /
– essere questa decisione, stringere un nulla: ferrarci quei significanti fuori da una storia… –
senza più
un albero poggiato /
Lo schermo lascia che le vite e le forme, che sono il materiale di ogni storia, non riescano a integrarsi vicendevolmente, in modo che il terzo tra la vita e la forma, e cioè lo schermo stesso, sia qualcosa di esistente solo attraverso le e nelle forme e vite.
“Ti voglio
(Ma tu anche lo sai scordare un altro amore esitante)
Per muoversi volano lente l’espressioni di stagione
Sprecarsi dicendo che noi amanti noi non ci apparteniamo
Forse è bere
Contando o sulla disunione più disfatta –
O stamane era cenere e non resti
Mai più e vorresti che il bene fosse per te la scorza di una ferocia è amara –
questa vita?
Improvviso è il tempo e torna su del te
e s’invoca salvezza – se una preghiera a stento è tollerabile
la nostalgia dove ti perdo fra la perfezione
estrema delle ossa e il giorno che da sempre
Ininterrottamente
Avanza
Lo schermo è quel tertium che vive la sua propria forma, che informa la sua propria vita: non più un medium tra la vita e la forma, ma un ingombrante e vacuo insieme, essere ibrido sì, ma tanto presente e totemicamente inaggirabile. Ovunque si accenda, ovunque si spenga.
” le nostre lingue si assomiglieranno
e non è scrittura /
il posto dove mostrano i tratti
i fratelli questa cosa /
strana che eravamo quando altri
occhi si fermavano sulle nostre parole /
Le lingue /
Che hanno una forza che viene dal basso una infanzia /
ha radici è una scorreria per plastiche visioni forse /
una testa bacata che non vuole perdere le sue stelle e il cielo /
e il suo velo.