“Il principio possibilità. Masse, potere e metamorfosi nell’opera di Elias Canetti”, di Leonard Mazzone (estratto)

Leonard Mazzone,
“Il principio possibilità.
Masse, potere e metamorfosi nell’opera di Elias Canetti”, Rosenberg & Sellier, 2017

Di LEONARD MAZZONE *

L’antefatto di un capolavoro

Incentrando l’opera della sua vita sulla nozione di massa anziché sulle categorie di “classe” o di “nazione”, Canetti aveva intenzionalmente rinunciato a schierare il proprio pensiero su scacchiere ideologiche precostituite, in un’epoca peraltro lacerata dallo scontro come dalla perversa combinazione di nazionalismo e socialismo. Se nella sua evasione dal concreto la filosofia si rivela spesso complice di quei potenti dispositivi polemici per eludere la realtà che sono le ideologie, «quello di Canetti è davvero, in quello che da molti è stato definito, e con valide ragioni, il secolo delle ideologie, un pensiero impermeabile alle ideologie. Questo appare evidente già nella definizione e nell’impiego dei concetti fondamentali del suo lessico, massa e potere. Non individuo e stato. Non soggetto e totalità. Non libertà e Storia»21. Questa scelta terminologica veicola una sfida filosofica radicale: sostituire al “principio di necessità” – che proietta un’aura di inesorabilità sul rapporto storico fra un certo lemma politico (la razza, la nazione, la classe…) e il regno della libertà umana – con quello più realistico della possibilità, capace di restituire ai contemporanei di ogni epoca il senso della contingenza delle relazioni di dominio esistenti. L’impermeabilità ideologica del pensiero canettiano non si traduce, quindi, in un’ostentata indifferenza nei confronti delle speranze di emancipazione reclutate dal pensiero politico occidentale in alcune di queste categorie classiche e nei relativi “ismi”. Depositario potenziale di tali speranze, semmai, diventa un termine da sempre sospettato di complicità con derive reazionarie. Come ha notato Furio Jesi, “massa” «è una parola dinanzi alla quale, quando la si incontra in libri d’ogni specie, sorge spesso (e spesso legittimamente) il sospetto d’aver a che fare con un autore reazionario»22. Più che nella scelta di un termine apparentemente neutro come “massa”, una prima novità sostanziale dell’indagine canettiana consiste nel tentativo di neutralizzare il disprezzo politico riservato a tale fenomeno dalla pregressa tradizione di studi di psicologia collettiva. Masse und Macht rappresenta un’anomalia paradigmatica all’interno di una tradizione teorica che conferma sistematicamente il sospetto evocato dal suo traduttore italiano 23: «Perfino nella polis greca evoluta, che pure conosce benissimo la massa, questa è riconosciuta solo in quanto i pensatori la rifiutano»24.

Al di là di questa operazione di neutralizzazione assiologica, la specificità dell’approccio canettiano consiste nella prossimità acustica prestata dall’autore all’oggetto della propria indagine, nella sua metodica apertura verso uno dei fenomeni potenzialmente emancipativi della modernità. Se non è certo possibile affermare che Canetti fosse uno studioso distaccato della massa come i suoi predecessori 25, non ne fu neppure un mero “osservatore partecipante”; si dimostrò invece un vero e proprio partecipante in ascolto delle sue voci e dei suoi processi di aggregazione e disgregazione. In luogo di una teoria, che in quanto tale presupporrebbe una certa distanza dal fenomeno osservato, Canetti consegna al lettore della sua opera una sorta di verbale, contenente la trascrizione dei suoni e delle voci delle masse del suo tempo. Più che a una esperienza coscientemente vissuta in senso diltheyano [Erlebnis], la partecipazione diretta di Canetti ad alcune formazioni di massa si configura in termini benjaminiani come una “traumatica e metamorfica esperienza” [Erfahrung], che lo costrinse a prendere commiato dal soggettivismo e dalla bibliofilia giovanili, per fare spazio dentro di sé al mondo circostante 26: “La massa non è per lui un oggetto, ma un’esperienza. Quasi trentacinque anni di lavoro hanno preso inizio dalla fascinazione per un fuoco acceso dalla massa, con un desiderio di conoscenza che è sopravvissuto all’esperienza di massa più terrificante in Occidente, il nazismo, e che l’ha condotto fino all’inizio degli anni Sessanta […] Il secondo volume di Massa e potere avrebbe dovuto trattare anche del maggio 1968 a Parigi: massa di divieto, massa festiva, che per poco non è diventata una massa di rovesciamento, ma che non aveva nulla in comune con le masse aizzate degli assassinii collettivi. La massa opposta al potere, in tutte le sue manifestazioni: è questa la felicità indimenticabile – l’esplosione dei limiti, l’apertura, l’uguaglianza, l’anonimato, la “scarica” delle distanze e delle differenze – che secondo Canetti genera il più profondo desiderio degli uomini di “diventare massa”” 27. A conferma di questa ipotesi di lettura, intervengono i numerosi riferimenti agli incontri personali dell’autore con diversi tipi di masse sparsi nei tre volumi della storia della sua vita. Se l’autobiografia mise in ombra il libro che Canetti considerò come l’opera se non addirittura il compito della sua vita, «[…] ancor più decisiva di queste ombre è la luce che dalla storia della sua vita è proiettata sull’opera della sua vita. Poiché leggere Massa e potere a partire da ciò che venne successivamente, ossia dall’autobiografia, significa al contempo leggerlo a partire da ciò che lo precedette: le prime esperienze dell’autore» 28.

Nelle città europee in cui era vissuto e cresciuto fino al 1922, da Rustschuk (1905-1911) a Manchester (1911-1913), passando attraverso Vienna (1913-1916) e Zurigo (1916-1921), Canetti aveva già avuto modo di assistere a diverse formazioni di massa 29. Fu solo durante gli anni trascorsi a Francoforte (1921-1924), però, che Canetti prese parte al fenomeno e, a seguito di queste esperienze dirette, divenne cosciente della sua importanza cruciale. Tale coinvolgimento personale avrebbe propagato la sua eco negli anni a venire, imprimendosi a tal punto nella sua “memoria acustica” da confluire nei paragrafi iniziali di Massa e potere. Era il 27 giugno 1922, quando il futuro premio Nobel della letteratura si unì a un corteo operaio divampato a seguito dell’assassinio di Rathenau, il ministro degli esteri della Repubblica di Weimar ucciso da due ex ufficiali dell’esercito per la sua apertura alle riforme sociali e per gli sforzi profusi nella revisione del Trattato di Versailles 30. A rendere indelebile il ricordo di quel giorno fu l’irresistibile attrazione esercitata dalla massa sugli individui che la videro sfilare dal marciapiede. Poiché di volontaria assimilazione del soggetto alla massa si era trattato, il fenomeno non poteva essere compreso alla luce della lettura fornitane da Freud: «Il problema non era di sbarazzarsene, riconducendolo a particolari costellazioni della libido. Si trattava, piuttosto, di coglierlo nella sua pienezza, come realtà sempre esistita ma ora più che mai presente; una realtà da esplorare alle radici ma innanzitutto da sperimentare prima di descriverla: descriverla senza averla vissuta era un modo di imbrogliare i lettori»3 1.

Nel secondo volume della sua autobiografia, Canetti ha immortalato il ricordo di quella giornata: “Io mi trovavo sul marciapiede, dovevano esserci accanto a me altre persone che guardavano, però non le ricordo. Vedo ancora le figure alte e vigorose che marciavano dietro lo striscione delle Adler-Werke. Marciavano compatti lanciando intorno a sé sguardi di sfida, le loro grida mi colpirono come se fossero rivolte proprio a me. Il corteo s’ingrossava continuamente, le persone che vi entravano avevano qualcosa in comune, non tanto nell’aspetto quanto nel comportamento. Il corteo non finiva mai, ne sentivo emanare una salda convinzione, che diventava sempre più salda. Mi sarebbe piaciuto essere uno di loro, non ero un operaio, eppure quelle grida mi toccavano come se lo fossi. Non so se le persone accanto a me abbiano provato la stessa sensazione, non le vedo, comunque non ricordo nessuno che abbia lasciato il marciapiede per entrare nel corteo, può darsi che i cartelli inalberati da alcuni gruppi di manifestanti abbiano trattenuto la gente dal farlo. Il ricordo di quella manifestazione, la prima che ho vissuto in modo cosciente, rimase vivissimo in me. Non riuscivo a dimenticarne l’attrazione fisica, il violento desiderio di partecipare, indipendentemente da ogni considerazione o ragionamento, così come non furono certo i dubbi di un qualche genere a trattenermi dal passo estremo di unirmi al corteo. In seguito, quando cedetti al mio impulso e mi trovai realmente in mezzo alla massa, ebbi la sensazione che fosse un fenomeno simile a quello che in fisica è noto come forza di gravità. Ma questa, è ovvio, non era una vera spiegazione di quel fatto sorprendente. Infatti non eri né prima, come individuo isolato, né dopo, come parte della massa, un oggetto inanimato, e la metamorfosi che si verificava all’interno della massa, un mutamento completo della coscienza, era un fatto che penetrava in profondità, rimanendo però enigmatico. Che cos’era? Era questo che volevo sapere. Questo enigma non mi ha più dato pace, mi ha perseguitato in tutta la parte migliore della mia vita, e seppure sono arrivato a qualcosa, l’enigma nondimeno è rimasto tale” 32.

L’enigmaticità del fenomeno era dovuta alla precoce intuizione che la liberazione del singolo nella massa non sortisse necessariamente anche la sua emancipazione sociale. A confutare questa presunta equivalenza era la perdita della capacità individuale di autocontrollo. Canetti scrive infatti di essere “stato afferrato dalla massa, era un’ebbrezza, nella massa ti perdevi, dimenticavi te stesso, ti sentivi immensamente dilatato e al tempo stesso appagato, qualsiasi cosa sentissi, non la sentivi per te stesso, era l’esperienza più altruistica che tu avessi mai conosciuto, e poiché l’egoismo che ti era stato inculcato da tutti ti circuiva di continuo e in fondo ti minacciava, avevi bisogno di quella frastornante esperienza altruistica come dello squillo di tromba del Giudizio Universale, e dunque ti astenevi dal disprezzare la massa o dallo sminuirla. Al tempo stesso sentivi però di non essere più padrone di te, di non essere libero, ti stava succedendo qualcosa di inquietante, per metà vertigine, per metà paralisi, com’era mai possibile tutto questo insieme? Che cos’era?” 33.

Se tali quesiti avevano cominciato a ossessionarlo dal 1922, Canetti avrebbe iniziato a ipotizzare autonomamente delle risposte solo cinque anni più tardi, ma non prima di essere venuto a contatto con qualcuno che conosceva a fondo l’infiammabilità della massa. Canetti si era imbattuto in un vero e proprio “piromane della massa” durante un viaggio a Sofia nel gennaio del 1924 per far visita a una delle zie paterne. Qui aveva conosciuto suo cugino Bernhard Arditti, uno dei leader sionisti che contribuirono all’esodo degli ebrei di origine spagnola dalla Bulgaria verso la Palestina 34. Durante un colloquio col cugino, Canetti si era reso conto che l’oratore stimato e ascoltato da tutti i concittadini non smarriva mai il senso della propria individualità, quando parlava alla massa dei futuri esuli nella Terra Promessa; al contrario, maggiore era l’entusiasmo della massa, maggiore era la sensazione di potere provata dall’oratore, che si era rivolto a Canetti con queste parole: «La gente si può tenere in pugno come cera molle, si può farne tutto quello che si vuole. Si può spingerla ad appiccare il fuoco alle proprie case, non ci sono limiti a questo potere. […] Non c’è nulla da capire. È dappertutto lo stesso. O sei una goccia che si dissolve nella massa o sei l’uomo che sa dare una direzione alla massa. Non hai altra scelta» 35. La drastica alternativa prefigurata dal cugino strideva troppo con l’esperienza vissuta da Canetti due anni prima a Francoforte, quando si era consapevolmente unito a un corteo spontaneo, sorto senza la guida di alcun pastore. Canetti avrebbe visto confermati i propri dubbi nell’estate del 1927 a Vienna, pochi mesi dopo il trasferimento nella stanza dove in seguito avrebbe scritto il suo primo e ultimo romanzo. Non a caso, nelle pagine del saggio Il mio primo libro: Auto da fé è custodito il ricordo dell’esperienza che avrebbe influito sulla genesi del suo romanzo e sullo sviluppo di alcune nozioni centrali di Masse und Macht (prima fra tutte, quella di “massa aperta” 36). Si era trattato, a detta del suo stesso autore, di «[…] uno di quei rari avvenimenti che turbano a tal segno una città intera che essa, da allora in poi, non è più la stessa» 37.

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21 Portinaro 2003b: 727.

22 Jesi 1974: 353. Si veda, a questo proposito, anche Baudrillard 1982.

23 Cfr. Bell 1991 (1960), che prende le distanze da questa tradizione di pensiero: secondo Bell, la tradizione degli studi di psicologia collettiva esprimerebbe il disagio dei suoi esponenti più rappresentativi verso la società moderna sotto forma di pseudodescrizioni della stessa.

24 Canetti 2006b (1973): 324. Si veda, a questo proposito, Platone 2007: 493e-500c, dove la massa (pléthos) viene esplicitamente contrapposta all’aristocrazia filosofica deputata a governare la pólis; cfr. anche Aristotele 2007: 1261a, 1274b, dove la massa viene descritta come la componente maggioritaria della pólis greca.

25 Ishaghpour 2005 (1990): 117: «Per tutti i teorici, la massa “sono gli altri”».

26 De Conciliis 2006: 75.

27 Ishaghpour 2005 (1990): 117-118.

28 Menke 2003: 11.

29 Cfr. Canetti 2010c (1977): 34-37: in queste pagine Canetti ricorda di essersi imbattuto per la prima volta in una “massa festiva” in occasione del Purim – la festa della liberazione degli ebrei da Hamán – e in una “massa statica” quando moltissime persone si riunirono fuori dalle loro case in attesa stagnante della cometa che avrebbe dovuto inaugurare la fine del mondo nei primi anni del Novecento.

30 Walther Rathenau fu uno degli esponenti di spicco della cultura liberale della Repubblica di Weimar: militante del Demokratische Partei – di cui fece parte anche Max Weber – si rese promotore di una politica di apertura verso il movimento operaio. Anche per questo motivo fu ucciso da militanti dell’estrema destra.

31 Canetti 2007b (1980): 156.

32 Ivi: 88-89.

33 Ivi: 103.

34 Cfr. ivi: 98-107.

35 Ivi: 102.

36 Riferendosi alla giornata del 15 luglio 1927, Canetti scrive di aver «[…] sperimentato, una volta per tutte, ciò che in seguito avrei chiamato una massa aperta», ivi: 255. Non si trattava, dunque, di un mero artificio espositivo o di un caso ideale postulato dall’autore nelle prime battute di Masse und Macht per mere esigenze espositive: la massa aperta esisteva e Canetti l’aveva sperimentata.

37 Canetti 2007a (1976): 332.

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* Pubblichiamo, per gentile concessione dell’Editore, un estratto dell’introduzione al libro recentemente uscito di Leonard Mazzone, Il principio possibilità. Masse, potere e metamorfosi nell’opera di Elias Canetti, Rosenberg & Sellier, 2017.

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