
Di LENI REMEDIOS
A great mind must be androgynous.
(Samuel Taylor Coleridge)
In fact one goes back to Shakespeare’s mind
as the type of the androgynous, of the man-womanly mind (…).
(Virginia Woolf)
Bisogna tornare allo Shakespeare di quattro secoli fa per riscoprire la natura egualitaria che lega uomini e donne nella loro comune umanità.
Il geniale bardo era talmente avanti sui tempi che vedeva ben oltre le discussioni spesso prive di sostanza su patriarcato, femminismo e parità che imperversano sui social media del ventunesimo secolo.
Non è detto, come puntualizzò Virginia Woolf, che la sua percezione profonda della natura umana corrispondesse poi ad una consapevolezza dello status sociale de facto delle donne in epoca elisabettiana[1] o ad un proprio pensiero a riguardo. Ma tant’è che alcune delle sue intuizioni aprono degli squarci avanguardistici pure per noi che vivamo e pensiamo nel ventunesimo secolo.
A dispetto dell’asetticità dei nostri schermi mediatici, dietro i quali ripariamo la nostra impersonale identità, la figura di Lady Macbeth si ergeva allora in tutta la sua carnalità sul palco del londinese The Globe, a turbare in carne ed ossa un pubblico già turbato dal fatto che ad interpretarla fosse un uomo, come doveva essere per tutti i personaggi teatrali dell’epoca.
Con Macbeth – che è pure ambientato di qualche secolo più indietro rispetto alla contemporaneità di Shakespeare – il bardo stravolge i luoghi comuni più tipici che imprigionano il genere femminile da secoli, quegli ‘estremi’ che, secondo Virginia Woolf, hanno rappresentato troppo a lungo ciò che il mondo maschile poteva o voleva sapere di una metà del cielo segregata nelle private stanze: l’angelo del focolare, la moglie obbediente, la madre premurosa nell’ombra, la cortigiana, persino la strega, rappresentata qui nel grottesco trio che apre la tragedia.
Tre figure androgine queste streghe, al limite dell’umanità, addirittura barbute.
“(…) What are these,
So withered and so wild in their attire,
That look not like the inhabitants ò the earth,
And yet are on’t? (…)
(…)You should be women;
And yet your beard forbid me to interpret
That you are so.”
“Chi son costoro,
Così avvizzite e selvagge nell’aspetto?
Non sembrano creature della terra
Eppure la percorrono. (…)
(…) Donne dovreste essere;
Eppure le vostre barbe non mi permettono
Di giudicarvi tali.”[2]
(Macbeth I, 3 38-46)
Pochissime rappresentazioni artistiche hanno riproposto fedelmente questo aspetto del trio di “strane sorelle” o “sorelle fatali”[3]. Persino lo scrupoloso Polanski, nella sua pur eccellente versione cinematografica, ne ha fatto quasi una congrega allargata di pseudo-femministe, una moltitudine di chiari “individui femmina” sottolineata dalla nudità dei corpi.
Ma le streghe androgine di Macbeth, pur nelle note colorite che – queste sì – aderiscono agli stereotipi dei calderoni e delle ricette, non sono il vero agente malefico che trasformerà la parabola del prode barone Macbeth in tragedia.
Il sanguinario Macbeth non ha nessuna paura nell’ambito ristretto della battaglia, squarcia il nemico dal mento all’ombelico, si dimostra un guerriero infaticabile e per questo si merita gli onori del “buon Re Duncan”, nonchè il titolo aggiuntivo di Barone di Cawdor, sottratto ad un traditore del re.
Eppure il temerario barone-guerriero, una volta rientrato nell’ambiente domestico, diventa “Macbeth il codardo”: uno stravolgimento malizioso del suo nuovo titolo onorifico conquistato con tanto sforzo virile (l’inglese “coward”, codardo, è un anagramma di Cawdor). Del resto Shakespeare amava giocare con l’ambiguità, compresa quella del linguaggio.
Da chi riceve cotanto epiteto? Niente di meno che dalla moglie, Lady Macbeth. Lungi dal farsi relegare – come voleva la rigida struttura patriarcale dell’epoca – a ruolo contorno di angelo del focolare che spende le proprie ore nell’attesa del consorte, Lady Macbeth fa di più: interiorizza completamente il peggio degli ideali e addirittura del linguaggio che quella struttura sociale incarnava. L’ambizione di Macbeth viene tutto sommato mitigata da una consapevolezza della vanità della vita, a cui spesso allude con monologhi nichilisti che riportano alla mente il suo confratello di penna Hamlet. Il recalcitrare di Macbeth ed il suo tentennare nel portare avanti i piani omicidi ai danni di Re Duncan rivelano una parte sensibile del barone, il quale obbedisce fino in fondo ai codici di guerra, ma di fronte ai sotterfugi sanguinosi e tortuosi per la conquista del trono mostra di avere scrupoli morali e fors’anche una banale volontà di rimanere nel “quieto vivere”. Ce lo dice la stessa Lady Macbeth in un monologo prima dell’arrivo del barone a Dulsinane:
Yet do I fear thy nature;
It is too full ò th’ milk of human kindness
To catch the nearest way: thou wouldst be great,
Art not without ambition, but without
The illness should attend it.
Eppure temo la tua natura:
Essa è troppo pregna dell’umana bontà
Per prendere la via più breve: vorresti essere un grande,
l’ambizione non ti manca, a mancarti
è però la crudeltà che la deve accompagnare.
(Macbeth I, 5 14-16)
La feroce consorte poi invocherà a gran voce divinità e spiriti indefiniti, a cui supplicherà di strapparle via il suo sesso, ripudiando le caratteristiche tipiche attribuite al femminile, compresa tutta la mitologia rotante attorno all’ “amor materno”. Se sobbalzo io sulla sedia a leggere le seguenti righe, non posso non immaginare la costernazione del pubblico elisabettiano dell’epoca:
(…)Come, you spirits
That tend on mortal thoughts, unsex me here,
And fill me from the crown to the toe top-full
Of direst cruelty. Make thick my blood.
Stop up the access and passage to remorse,
That no compunctious visitings of nature
Shake my fell purpose, nor keep peace between
The effect and it! Come to my woman’s breasts,
And take my milk for gall, you murd’ring ministers,
(….)
(…)Accorrete, o spiriti
Voi che assistete i pensieri mortali, strappatemi via il sesso,
E riempitemi dalla testa ai piedi
Della più feroce crudeltà. Rendete il mio sangue più spesso
Bloccate la via e il passaggio a qualsiasi rimorso,
Così che nessuno scrupolo
possa far vacillare il mio intento malvagio, nè interporsi
fra esso ed il suo compimento! Accorrete al mio petto di donna,
E scambiate il mio latte materno col veleno, o voi ministeri di morte (…)
(Macbeth I, 5 38-46)
I have given suck, and know
How tender ’tis to love the babe that milks me.
I would, while it was smiling in my face,
Have plucked my nipple from his boneless gums
And dashed the brains out, had I so sworn as you
Have done to this.
Ho allattato un bambino e so
Dell’amore che si prova verso il neonato che succhia il latte.
Eppure avrei ben strappato le sue molli gengive dal mio capezzolo
Mentre sorrideva rivolto al mio viso
Ed avrei fatto schizzare fuori le sue cervella, se avessi
Giurato così come tu facesti.
(Macbeth I, 7 54-57)
Unsex me. Il termine scelto appositamente da Shakespeare è aspro come le vallate scozzesi battute dal vento. Urta la pelle, i nervi, il sangue.
È lei il vero agente malefico. Non è la ferocia battagliera del suo consorte, non sono le ricette visionarie delle “strane sorelle”, che infine, come le moire greche, non fanno nulla per forzare il destino, ma si limitano a mostrare lo stato delle cose cos’ com’è, com’è stato e come sarà. Il loro compito è quello di dipanare il filo del Destino. Di mostrare a chi le interpelli la Realtà smascherata. Sono loro a rivelare a Macbeth la vanità delle sue ambizioni, nelle rifrazioni di uno specchio in cui Macbeth non è altro che un granello nell’ingranaggio della sequela dei re che furono e che saranno. Le Sorelle Fatali sono la scalcagnata Voce della Saggezza. Sono a loro volta lo specchio del comune vivere, che spesso non ha nulla dell’elaborata perfezione dell’Arte o della solidità delle infrastrutture sociali. La realtà può spesso eruttare in un modo che riecheggia esattamente loro tre: surreale, grottesca, paradossale.
Spetterà a Macbeth la scelta. Cosa farne di questa sapienza? Prenderne atto e rinunciare ai propri sogni di potere? O seguire le istigazioni della sua compagna? Già Macbeth aveva intuito che la sua coscienza sarebbe sempre stata tormentata. Per paura di essere scoperto nelle proprie trame, per autentico scrupolo morale, per tutto questo insieme. Eppure alla fine deciderà di non scegliere. Bensì di farsi trascinare dalla corrente delle passioni insane. In questo Macbeth è veramente codardo: nel non prendere posizione contro i piani assassini e disumani della moglie, che ha castrato subito gli scrupoli morali del barone stuzzicando e mettendo in dubbio la sua virilità.
Lady MacBeth è manipolatrice e si fa persino co-autrice degli atti sanguinosi di cui le sue orecchie delicate di gentildonna non dovrebbro nemmeno sentir parola, pena la morte istantanea per la soverchiante emozione.
E difatti è nella scena del ritrovamento del cadavere di Duncan che risiede il picco di genialità di quest’opera: Lady MacBeth, fingendosi ignara, chiede ragguagli al Barone Macduff, il quale esita nel dare la sconvolgente notizia:
O gentle lady,
‘Tis not for you to hear what I can speak:
The repetition, in a woman’s ear,
Would murder as it fell.
O nobil donna,
Ciò che sto per dire non vi si confà:
Il solo ripeterlo alle orecchie di una donna,
Porterebbe alla sua morte istantanea.
(Macbeth II, 80-83)
Con un colpo solo il bardo di Stratford sconquassa la galassia di mitemi apparentemente contraddittori ruotanti attorno all’idea di donna come essere delicato da toccare solo con un fiore; un’idea frutto della stessa cultura per cui quello stesso fiore delicato è per questo costituzionalmente inferiore, un soggetto iper-sensibile incapace di razionalizzare, men che meno di comprendere la ferocia che anima gli animi maschili. E per questo passibile di essere di volta in volta incapsulata per la sua protezione in un cilicio (vero o metaforico) o violentata senza scrupoli.
Nel mentre Macduff pronuncia queste parole, nel bel mezzo di una delle scene più drammatiche della tragedia, il lettore-spetattore non può fare a meno di soffocare un sorriso sarcastico e quasi vien da mormorare alle spalle del personaggio fittizio “Macduff, se solo tu sapessi”. Non solo le orecchie di lady MacBeth possono reggere benissimo alla notizia infausta. Ma le sue mani ancora odorano del sangue del buon Re Duncan, dove la stessa ha riportato i coltelli utilizzati dal marito.
Shakespeare ci dice così che il femminile ed il maschile sono in profondità paritari sia verso l’alto che verso il basso. Nelle vette dello spirito e dell’intelletto come pure nel fango della ferocia e del cinismo.
Non dovrebbe forse questa tragedia shakespiriana parlare a noi che di Lady Macbeth abbondiamo?
Il nostro personaggio darà, inascoltata, una suprema lezione di distaccato cinismo, di fronte ad un terrorizzato Macbeth incapace di realizzare il crimine che ha appena compiuto: invita con freddezza a non indugiarvi troppo coi pensieri, perché solo questo porterebbe alla follia.
Il cinismo e la disumanità sono il fio da pagare per soddisfare la sete di ambizione e di potere.
Nella scala di valori patriarcal-virili negativi che lady Macbeth incarna così bene, Macduff riecheggia, in un gioco di specchi, la codardia di Macbeth e subodorando un complotto fugge abbandonando vilmente proprietà, terreno, moglie e figli.
La moglie di Macduff – anch’essa una curiosa rifrazione della Lady sua superiore e lungi dall’essere il fiore delicato nell’ombra, pur priva della sua ferocia – non lesina parole aspre nei confronti del marito, che qualifica come “traditore” e, per l’appunto, “codardo”. Ma la sua posizione socialmente inferiore la esporrà alle trame sanguinose dell’ormai despota Macbeth, e morirà trucidata assieme a tutta la famiglia dopo essere stata violentata. Perché il fiore delicato che non può udir parole forti, quando appartiene ad altri, si tramuta in oggetto da distruggere legittimamente, al pari degli edifici messi a ferro e fuoco.
Entrambi i “codardi”, Macbeth e Macduff, riscatteranno la loro codardìa alla fine, guarda caso quando entrambe le compagne saranno morte: il primo perché non ha più nulla da perdere. Il secondo per furia vendicatrice.
Macbeth non è tanto un codardo. È un debole. Questo è il succo della tanto blasonata virilità di quel modello patriarcale lì introiettato da Lady Macbeth: la sua successiva tirannia esprime una forza che viene dalla debolezza. Una forza che non viene dalla solidità dello Spirito, bensì dalla reazione alle proprie paure e folli paranoie. Messo sempre più alle strette, non fa altro che imprigionare, mettere a tacere il dissenso, ergere muri, soffocare col sangue. Un castello di congiure e sotterfugi impossibile da reggere a lungo.
Quale contrasto con la forza della coesione dimostrata dall’esercito messo su in quattro e quattr’otto da Malcolm e gli altri: “i custodi del retto agire”, i rappresentanti di quel patriarcato che non si piega al volere del tiranno e difende i buoni valori, coloro che non ci stanno a fingere fedeltà per paura di perdere privilegi o la vita. Essi pongono fine all’incubo non con complicate strategie militari, non con altri sotterfugi, bensì con uno stratagemma fantasioso, sfruttando inconsciamente la folle paranoia del tiranno. La mente dedi Macbeth, memore delle parole delle Sorelle Fatali, era rassicurata:
“(…)‘Fear not till Birnan Wood
Do come to Dunsinanè”
“(…) ‘Timori non avere finchè il bosco di Birnan
Non arrivi a Dunsinanè”
(Macbeth V, 5 44-45)
Ma alla fine l’esercito si fa bosco ed il bosco si muove verso il castello.
Su ordine di Malcolm, il futuro re che ristabilirà l’ordine sociale dopo la tirannia, ognuno dei soldati si mimetizza e procede silenziosamente portando innanzi un ramo.
Nè il glaciale cinismo di lady Macbeth – che giungerà a suicidarsi inseguita dalla propria coscienza – nè la tirannia del barone avranno la meglio.
La disumanizzazione delle nature – sia che alberghino in corpi femminili che in corpi maschili – alla lunga implode, condannata all’autodistruzione.
Nei corsi e nei ricorsi della Storia, la luce torna e ritorna a riscattarsi ciclicamente sul buio.
Non ci resta che raccogliere un ramo.
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[1] V. Woolf, A Room of One’s Own, (1928), Penguin, London, 2004, p. 114.
[2] Traduzione mia, cosi’ come le successive. La traduzione non tiene conto della metrica.
[3] Fra queste il dipinto del 1783 di Henry Fuseli.
l’amor materno esiste come esiste quello paterno, molti ma purtroppo non tutti i genitori ce l’hanno. Comunque io non credo che una grande mente debba essere androgina, ma sì la brama di potere è maschile come femminile, e donne e uomini sono moralmente e intellettualmente pari nel bene e nel male