“Marcia Film” di Dome Bulfaro (Edizioni Scalino 2016): recensione di Nicolas Cunial

Dome Bulfaro, “Marcia Film”, Edizioni Scalino 2016

Di NICOLAS CUNIAL

 

Dome Bulfaro è in marcia: inarrestabile, entra nel nostro campo visivo, ci scuote e ci lascia in sospeso oltre l’ultimo grado oculare capace di mettere a fuoco. Di una vita, una vita qualunque o la vita del poeta, Marcia Film rappresenta un segmento, della cui retta non ci è dato modo di vederne né l’inizio né la fine. Si giustifica così l’apertura e la chiusura del libro, marcata da un cinematografico [continua], che contiene il gusto della promessa, per cui possiamo davvero aspettarci un prosieguo, sequel o prequel che sia, dell’opera che qui intendo in qualche modo analizzare con i limitati strumenti di cui dispongo. E mi sia concessa questa giustificazione: nella mia ricerca poetica è stata imprescindibile, a un certo punto, la commistione con elementi appartenenti alla cinematografia (mi riferisco al mio Il sosia zero): con ciò non intendo in alcun modo affermare che Bulfaro sia stato influenzato da questa mia prova – il libro è diviso in tre parti, introdotte da un antefatto che in parte richiama l’uso dei titoli delle scene di una sceneggiatura – bensì non mi è possibile non essere attratto da Marcia Film poiché ritengo abbia spostato il limite che ho incontrato oltre il segno tracciato da me ed altri.

Il poeta-performer di Monza ha scritto un libro che coniuga perfettamente dimensioni contigue – poesia, teatro, musica, immediatezza – con il filo chirurgico della ricerca personale, fondata, già a partire da Ossa/Carne (Dot.com Press, 2012), sull’immaginifico, sull’esasperazione della realtà come mezzo di comprensione dei suoi lati più estremi. Non una mera rêverie poetica, giacché Bulfaro è sì «un essere sognatore felice di sognare, attivo nella sua rêverie (che) possiede una verità dell’essere, un avvenire dell’essere umano» (Bachelard G., La fiamma di una candela, 1961/2005, p. 14) ma è altrettanto spettatore di se stesso, quasi spingesse i suoi personaggi all’estremo vivere al fine di analizzarne le azioni conseguenti del proprio agire in un mondo ostile. Bulfaro ricopre così il doppio ruolo di generatore e catalizzatore, di padre e osservatore, di studioso e curioso di ciò che lo circonda foss’anche creatore stesso dell’ambiente in cui s’immerge.

Il rischio più grande, per chi si dedica a questo tipo di studi e mette in atto un approccio multi-cross-oltremediale (un libro, un disco, uno spettacolo: Marcia Film non è la somma di elementi singoli, piuttosto un totale capace di manifestare gli elementi sommati per il solo fine di una destrutturazione che abbia scopo critico), è l’incapacità di gestire i molteplici aspetti che compongono un’opera siffatta. Alla prova dei fatti, però, emerge con forza la sapienza con la quale Dome Bulfaro sia riuscito a gestire i singoli ingredienti al fine di ottenere un amalgama nutriente come pochi: la musica – rigorosamente improvvisata – segue, anticipa e valorizza il testo orale; la recitazione segue, anticipa e valorizza la componente musicale; la messa in voce, coordina gli altri due aspetti per ricondurli a un fare poetico davvero unico. Ecco che l’oralità diventa dunque centro di gravità permanente, attrae gli elementi sopra citati e li restituisce aggravati all’arena pubblica, fine ultimo e necessario dell’azione di un poeta che sia inserito in questo imprescindibile, a mio avviso, agire versificatore.

Il libro si apre con la dichiarazione quasi pubblicitaria da parte del regista – alter ego dell’autore? alter ego di un suo attore? O viceversa? Un pregio del libro è il metterci di fronte ad un gioco di matrioske continuo, spezzato da allucinazioni visive per cui è impossibile determinare quale pezzo contenga l’altro – su cosa consista Marcia Film, e una volta dentro è impossibile «dire basta inarrestabile la marcia ti calpesta». Il lettore/spettatore è già imprigionato, poiché c’è da ballare nonostante il terremoto, c’è da pensarsi «innocui […] il problema è fino a che punto, fino a quando». S’intuisce già da ora la tematica di fondo che padroneggia  in tutto il viaggio: la violenza.

La prima parte (Campana suite: da dire camminando e correndo) è la stupenda storia di Cane sciolto, alter ego del poeta Dino Campana, che grazie ad una riproposizione, mediante un lavoro di ri-montaggio di due celebri poesie del poeta fiorentino, ci spinge nei meandri del borgo San Frediano di Firenze del 1914, in uno scenario ricco di elementi violenti, eppure trattati romanticamente. Pur mantenendosi fedele alla propria poetica, Bulfaro ha saputo destreggiarsi nell’uso della forma metrica dell’ottonario in omaggio a Campana, senza scadere mai nella mera citazione, ma anzi affondando le radici nel fango creatore (i Canti orfici) qui rimanendo fedele, lì mutando significato rispetto all’originale senso poetico a cui attinge (l’esempio lampante è Batte Botte, se per Campana è un suono che il poeta associa ad una solitudine profondissima, per Bulfaro diviene personaggio sovraccarico intenzionato a colpire chiunque non sia ritenuto puro). Questa è l’azione dei grandi registi che volendo omaggiare i proprio Maestri, non si limitano a copiarli, ma colgono un materiale genetico per generare qualcosa di nuovo, mettendo in atto un rapporto padre-figlio: due soggetti autonomi, distinti, eppure intrinsecamente legati.

Non intendo qui, né altrove, svelare i contenuti più narrativi dell’opera, poiché ritengo che gli elementi migliori non debbano mai essere svelati: mi basta scrivere che i personaggi di questa prima parte riescono a sedimentare profondamente nel lettore/spettatore, poiché si allacciano a una dimensione prettamente emozionale (oltre che di critica sociale, di cui darò conto oltre), senza però scadere nel sentimentalismo fine a se stesso.

La seconda parte (Zebra blues: telecronaca del precipitare umano) è invece situata a Monza nel 2001, e il richiamo ai celerini verso la fine della poesia che dà il titolo al capitolo ci spinge a pensare che siano i giorni del triste episodio italiano qual è il G8 di Genova. La forma metrica non è più chiusa, anzi è completamente svincolata, come il blues richiede che sia, per cui il ritmo è alternato fra parti incredibilmente celeri e rotto da ritornelli che hanno tutto il gusto di un canto malinconico, che comunica un senso di arrendevolezza rispetto al tragi-comico spettacolo in atto: il pretesto di una bambina investita altro non è che il la per una sequenza di violenza terribile, paradossalmente alleggerita dal caos che questa scena mette in atto. Si conclude con una ninna nanna che vorrebbe restituire dolcezza al lettore, ma che in realtà altro non fa che mettere in luce le contraddizioni deleterie di questa società. Il registro linguistico, da contemporaneo e di uso quotidiano, diventa dolce grazie all’uso di allitterazioni che invocano un sonno il cui unico scopo è l’evitare l’ulteriore visione della malvagità finora rappresentata. In questa parte è del tutto evidente la critica sociale di Bulfaro verso una società troppo impegnata a sfruttare il momento a proprio vantaggio economico, dimenticando l’umanità di cui potenzialmente potremmo far uso al fine di un progresso meno violento e più rispettoso del nostro stesso genere.

La terza, ma non ultima, come ho avuto modo di anticipare, è la svolta del libro: qui viene manifestato l’inganno da noi vissuto nella lettura, che è però lo stesso vissuto dal regista dell’opera Marcia Film. Ci troviamo quindi accostati in tutto e per tutto al protagonista vero e proprio di questo film, un regista così sedimentato nella propria immaginazione da dimenticare la realtà in cui in realtà egli respira, fino a correre il rischio di dover condividere il destino di Cane sciolto che si troverà «perso ed ubriaco» a «cantare amore alle persiane».

Non esiste una fine, una conclusione è impossibile giacché l’intento di Bulfaro è restituire quel senso di incompiutezza costante che la vita ci mette di fronte quotidianamente, di infinito vivere e conoscere, per cui queste prime parti altro non possono che essere solo parziali rappresentazioni – più umane tese a respirare con noi che figure plastiche finalizzate a significare e dare significati predeterminati – di un mondo che andrà a crescere e, fortunatamente per noi, accrescere chiunque ne entri in contatto.

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