
Di VLADIMIR D’AMORA
Francesca Marzia Esposito scrive. E siccome, scrivendo, vive una partecipata anche da segni non di scrittura narrativa, allora Francesca Marzia Esposito scrive vivendo la scrittura, tra scritte vive. Il che si inscrive in una certezza di postmoderno – se il feticismo è postmoderno, ma feticismo solo in quanto un vuoto, dei significanti di zero, e innescano storie e restano librantisi accanto a queste.
Nome e firma, questa scrittura: progetti non gettati nel mondo, ma involti in esso: scrittura e silente stentorea esposizione: come un giardino di poliedriche e intrattabili anche costellazioni di organismi di scrittura: i dialoghi, le narrazioni, le descrizioni, gli affondi verbali, le coppie aggettivali, questi cominciamenti di periodo con marche-di-scrittura, ossia i personaggi grumi di storia del segno e della etichetta e della letteratura recente, generata da voci di pubblicazioni importate e tradotte, sotto-titolate – ne esce configuarabile un paesaggio che fermo ci sta, solo se si ha cattiva coscienza. O previa e distratta disposizione. Perché ne va non solo dell’estetica, della letteratura, e non solo dell’impegno, con questa nuova scrittura italiana. Le forze della cultura, in Italia, in vero ormai si complicano, le possibilità non solo si realizzano, restando sospese… – la costrizione è non soltanto a figurare, a fare evento… La spudorata confessione, la lode straniata, ulcerata, è immane di una elementarità artificiale: abissi che aprono in universali, irriducibili ridotte simpatie trans-umane… La pagina che si buca, che lascia il bianco d’un avvento esigito quanto irrilevante: e va per singulti preparandosi un’attenzione agli accadimenti, in questa disponibilità alle storie pure capitandovi, per bisogno intimo di naturalità. E ciò come per equilibrare, per una salute, e salvezza, che punti a un senso però minuscolo, sempre sfaldato, sempre di nuovo ricercato: sine ira cum studio, con certo ardore blandito, il senso, ricacciato stordendosi, resuscitando dalla porta più piccola, per la più sbarrata e, insieme, battuta via.
E, allora, l’io di Francesca Marzia Esposito, i suoi io – sono il suo divino. E s’appartano (e le forme di questa reciproca – di divino e di umano – dimenticanza, che sarebbero asintotiche, oggi sta che invece s’apparentino troppo trivialmente, speciosamente: e nello spettacolo dimentico di valere come tale…), restano gli occhi risucchiati dai meccanismi del potere, d’una comunità devastata, fattasi nicchie d’ipercoscienza, condivisioni scimmiesche: uno sguardo attratto negl’ingranaggi del discorso, nelle sue regole potenziali, dai suoi abusi: lo sguardo di occhi in un corpo che resiste, insiste, attraversa: si dilata e si diminuisce: recita e si presta, e che disattento si chiude.
Come se scrivesse in una spiaggia tirrenica. O adriatica.
Ma non regge l’una-volta. Quando ci sarebbe stato un soggetto che, fidando nelle storie e nei loro sensi, la denunciava la civiltà dell’abuso, gl’illeciti impiantati, e le maniere dello sperpero, del gigantesco individualismo, rapace e triviale. Un soggetto che, innocente, si schermiva, oggi ormai non rivendica, già da tempo pretenzioso, gregario: diffuso e irriconoscibile, a deglutire quasi, indifferentemente. Un soggetto che, per oggetti d’una pianificata interessata mostruosità, non dispone di livelli prospettici, rinvii e puntualizzazioni: non sono pagine fitte di soccorsi all’intelligenza, non sono pagine ancora cogenti, legittime. E non si sente il bisogno che lo siano…
In Francesca Marzia Esposito il piano non è più l’uomo né il comune, ma il discorso: logologia lieta. Come ab-soluta, indialettizzata. E rischiosissima. Eppure ineludibile. Non c’è più potere. Solo vite nutritesi di forme che non cedono mai, assorbita vita da rinvii a rinvii, incarcerata nell’educazioni barbariche, i piani di commercio che generano la quotidianità del risaputo innaturale, degli sverginati passatempi, delle conversazioni fortuite solo, incredibilmente ripetitive. Una giovinezza che cita, o solo manda, a memoria l’inessenziale, che si abituerà alle manopole ad assorbire la manipolazione della realtà dell’immagine (non è più solo la realtà dall’immagine manipolata…), che ama e desidera e rifiuta e spera senza sangue, perché è tutto raggelato dal silicio: post-silicio. E che solo potrà credere di decidere, perché ancora come ieri chiamata a farlo, però su fondamenta d’incompitabile automaticità, in una nuova, medusizzata mitologia: indecostruibile.
Quindi discorsi più o meno esposti, acquistati, dimenticabili. E ciò, forse, perché non c’è amore, c’è l’amore in una fenomenologia parziale, archiviabile sempre, non universalmente verificabile. La forma, che tiene insieme in un’impossibile endiadi amore e parola, è un luogo d’immedicabile malessere, esso stesso disastrato. E che però, (pur) data l’ineludibile giuntura di parola e amore, è possibilità di un’esigenza: una salute, la salvezza sempre impossibile, da sempre smarrita(si), e proprio per questo indistruttibile: in una pagina che lo lascia sì decantare, ma senza requie, quest’inferno.
Sarà pure scrittura a-cefala, una scrittura di una bambina… O senza coda.
Senza equilibri cotestuali, come se, sebbene se ne possano allegare riferimenti e modelli di costruzione e ideazione e esecuzione, questa scrittura non si esasperasse qualora si trovi a essere ingenerata. Unica. Sospesa. Felice.
Una scrittura felice, un vuoto di felicità.
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· Francesca Marzia Esposito, La forma minima della felicità
· Prezzo: € 16.00
· Baldini&Castoldi
· Pagine: 280
· Data di uscita: 08/04/2015