
DI LUCIANNA ARGENTINO
Con una nota critica di SONIA CAPOROSSI
L’argumentum del poemetto di Lucianna Argentino che esce oggi su Critica Impura per la prima volta con il titolo di “Madre” mi è molto caro, talmente tanto da essermene occupata a mia volta in versi a più riprese, dapprima con un componimento pubblicato su Poetarum Silva diverso tempo fa, e dall’indurmi così, spontaneamente e senza pretese di confronto, ad un richiamo tematico per contrapposizione e contrasto. Infatti, almeno tre sono le differenze fra il mio modo di intendere il tema e quello di Lucianna Argentino. In primis, io mi pongo dal punto di vista esclusivo dell’esser figlia, e non da quello dell’esser madre. In secundis, in quella mia poesia intitolata “A una madre” vigeva l’estrema consapevolezza dell’istante della fine, dell’ineluttabilità del distacco e dell’incombenza disarmonica e terribile della dissoluzione che pendeva sul capo di mia madre e, per estensione e spirito d’elezione nel dolore, su di me. In tertiis, il rapporto con mia madre era un atto di dolore, in Lucianna Argentino l’esser madre invece incarna le doglie che rappresentano la forma più carnalizzata di estasi. Nella mia poesia, in una parola, c’era la morte. Qui, Argentino si occupa invece di cantare la dimensione contrapposta ma a ben vedere complementare della vita nell’atto del suo generarsi e darsi al mondo come dono; ovvero, di scandagliare più a fondo e completamente la relazione d’amore assoluta e fondante dell’Ur-Filius con l’Ur-Mèter, la Madre Archetipica che è madre di ciascuno nella propria privata dimensione monadica ma, contemporaneamente, vive della partecipazione emotivo – affettiva del rapporto di figliolanza che compete a tutti in quanto esseri umani; e la poetessa attua questa felice condensazione attraverso una sorta di sperimentazione tecnico – formale la quale, come tutte le sperimentazioni dotate di senso, affonda le radici in un tentativo di significanza assoluta che sia, con Kant, “universalmente comunicabile”: si tenta cioè la strada del poemetto – monologo, sulle tracce di un soggettivismo assolutamente non fictionale, innervato cioè di teatralità sì, ma nel senso etimologico più originario del termine, se è vero che ϑέατρον deriva da ϑεάομαι che vuol dire semplicemente “guardare, essere spettatore”, così come la madre, alzando semplicemente il capo e volgendo gli occhi verso il suo stesso ventre contratto dagli spasmi del parto, contempla a gambe larghe, dal suo letto di doglia – non – dolore, il proprio atto del dare la vita che è contemporaneamente un dono di se stessa alla morte che si toglie conservandosi nella reduplicazione cellulare e nel ciclo vitale come aufgehen. Questo, però, non vuol dire che la Madre Originaria di cui parlavo anch’io in un altro mio filosoficissimo testo poetico sull’origine matrilineare del mondo pubblicato su Kasparhauser, in questo poemetto della Argentino sia vissuto nelle medesime modalità intellettualizzanti e contemplative, anzi, tutt’altro: la teatralità è in Argentino del tutto priva dell’incidentalità accidentata del flusso di coscienza, è del tutto mondata dalle pose della teoresi e dalla freddezza scabra di un filtro antropologico esplicito; è, al contrario, un atto consapevole di presa di coscienza nel suo farsi, un incarnarsi e assanguarsi della letteratura come sacrificio eucaristico perpetuamente rinnovato, un attualizzare (questo sì, in senso filosofico) ciò che, nel verso semplicemente letto, rimarrebbe altrimenti in potenza, ovvero un ritornare, per questo stesso motivo, alle intenzioni primigenie del poeticum in quanto tale, cioè alla poesia così come si è manifestata fin dagli albori del suo nascere: più per la trasmissione orale che per quella scritta. Questo poemetto, insomma, ha bisogno di una lettura ad alta voce, che condensi e risolva nell’afflatus vocis la propria comunicazione in senso in-formativo, quando è sempre l’etimologia a darci una mano in questo senso, laddove comunicare viene da cum = con, e munire = legare, oppure da communico = mettere in comune, rendere partecipe. Infatti, la partecipazione, che vive della natura pragmatica del linguaggio e dell’informazione secondo Watzlawick, è il fondamento stesso della poesia come atto comunicativo. Ecco perché questa poesia, come molte altre che la poetessa sta componendo in questo periodo nella forma monologante del subjectum che dice io, ha bisogno di un palco e di un leggio per la propria compiuta trans-missione, a maggior ragione perché dotata di un’intensità e di una capacità di coinvolgimento sentimentale del fruitore che è propria solo della grande lirica.
Buona lettura.
Sonia Caporossi
MADRE
Non occorre aver detto di sì al male
per esserne posseduto. Mentre il bene
prende l’anima solo quando essa è consenziente.
(Simone Weil)
La sento, sai la sento la forza che ci plasma
plasmare te nel mio utero
fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua
e tu, grappolo di vita, mora succosa,
aggrappato alla mia carne
fatta falda di sangue per le tue radici. Radice io pure
eppure io albero da frutto, ponte da te edificato
dalla tua voce chimica inturgidita.
In me ti seppellisci, in me sprofondi
e mi faccio pasto, focaccia
per il tuo crescermi negli abiti, nei cromosomi,
per il tuo somigliare a tutti quelli della tua misura.
E tu fai me fuori misura, me donna sempre in fuori uscita,
in spargimento di qua da te,
a prepararti un nome, a scavarti un luogo.
Quando ero bambina, di notte, dal mio letto,
vedevo gli uccelli che decoravano la sommità dell’armadio
animarsi, prendere vita. Li vedevo allungare le ali
quasi volessero sgranchirsi dall’immobilità,
prima di spiccare il volo e venirmi contro minacciosi.
Allora mi rannicchiavo sotto le coperte,
chiudevo gli occhi perché sapevo
che era il mio sguardo a dargli il movimento,
sapevo che era la paura rimasta nascosta
durante tutto il giorno che sgattaiolava fuori
e tutta si radunava sotto le ciglia.
Radunata io tutta attorno a te, attorno a te coagulata.
Io e te adiacenti, legati dalle scorribande del sangue,
dalla gioia di farti uomo e di rifarmi tu bambina
ché senza età è il mio esserti madre,
materia docile al tuo volermi madre in biologia e in amore.
Amore il primo, amore del sì detto in tremore
il sì che nella esse striscia, scorre basso col peso del dubbio
nella i poi s’innalza, veste le ali e incede verso l’infinito incanto.
E sento sai che sempre c’è un angelo
che senza domandare attende una risposta.
E sì lo dico, lo dico ancora per la terza volta,
perché mi hai scelta, perché mi ridici madre un’altra volta.
E’ il mestiere che gli entra in corpo,
dicono gli operai e i contadini
quando un apprendista si ferisce
o ha male ai muscoli. Come se solo
attraverso il dolore si possa davvero imparare,
come se solo il dolore possa darci la competenza delle cose.
Ma è già mio il mestiere di madre
e allora perché in me qualcosa duole?
e non è come quando da bambina mi ammalavo
e mia madre teneva la stanza in penombra
e mi portava bamboline con abiti di carta da ritagliare.
E io abitavo il male come una pausa, una vacanza,
giocavo con la me riflessa nello specchio grande,
fingevo fosse un’altra con cui parlavo,
a cui raccontavo lo stupore di essere viva.
Non siamo soli sai, altro ci insidia
in proliferazione di cellule cattive…
Mi penetra, mi assedia, mi fa contesa da due forze,
io come tutti già contesa, già nella terra di mezzo
e questa che mi lotta dentro
è divisione, è faida, è guerra fratricida
e io ne sono il campo, la città
messa a ferro e fuoco e devastata.
Ma lì dove sei tu è pace e forse solo un battito attutito
ti arriva del mio inquieto e doloroso stare.
Da te è sciabordio d’acqua, è un parlarci
la lingua degli ormoni e dei sogni.
Ho sognato che allattavo un’aquila
e dolce e intimo era lo sguardo da creatura a creatura.
Al risveglio ho pensato ad Anna quando mi dice
che siamo qui per mettere le ali
e ho compreso che tu sei insieme il mio volo
nel cielo altissimo delle schiere degli angeli
e il mio tenero approdo
nel ventre terreno dell’amore.
Potrei salvarmi, io al disotto delle dighe,
forare la sacca d’acqua tua che ora hai un nome difficile da dire
tu da me disinnescato per mistero di concepimento.
Ma per il male no, non c’è rigetto,
è abile, è forte in me fatta nutrice di vita e di morte.
Quale salvezza allora? Dovrei reciderti per non morire
e poi recisa andare in giorni senza vita.
Perdonali perché non sanno che sei tu a tenermi stretta,
che apri per me la porta al sacro.
Tu vienimi in soccorso lungo i confini della mia paura,
tienimi sul bordo a lato del solco dell’aratura,
là dove i ciuffi d’erba vegliano la buona riuscita del raccolto.
E non cedo sai, non guardo le impronte dei miei passi.
Lego il mio ventre alle onde quiete del lago, al volo alto degli uccelli,
a questo tempo che ha la grazia di un dono,
al nero dei suoi occhi carichi di alfabeti,
alle sue mani piazza e radura, ristoro alla mia stanchezza.
Lo lego a te che mi stai tra la pelle e l’anima perché il vero e il bello
non stanno nel fondo delle cose, ma traboccano
nel più che sarà dato a coloro che nella vita hanno tracimato.
Piove. Da due giorni ormai.
Da ragazzina una volta, era d’estate,
durante un acquazzone me ne restai immobile
a piedi nudi sotto la pioggia, il viso rivolto verso il cielo.
Volevo provare cosa prova un albero
quando la pioggia lo sferza. Non fu facile
perché le gocce che mi picchiettavano addosso
mi provocarono una miriade di sensazioni
che non riuscii a far tacere. E chissà cosa prova l’albero
che qui fuori vedo invecchiare. E’ qui da prima
che io nascessi e di stagione in stagione
le sue foglie si fanno più rade, opache,
alcune sono rosse come piaghe da decubito.
Ho pena per lui. Sembra che persino il vento lo eviti
e che nemmeno più gli uccelli nidifichino o si posino tra i suoi rami.
Ne stanno lontani, come a non volerlo disturbare
o per quel timore o forse ribrezzo che suscitano i moribondi.
Un altro sì mi attende e in me lo attendo,
mentre mi fa incredula e diversa
a tutto persa tranne che a te. Doppiamente gravida
che pure il male in me nasce e cresce
ma tu della mia vita piena sei il frutto amato
e solo e sempre questo ti scorra nelle vene
e solo e sempre questo ti sia nello scorrere degli anni.
Io fatta terra di parole giovani
io con la scure alla radice, io tralcio in potatura.
Scardinata e battuta dai venti,
sola nell’approssimarsi dell’indicibile
sola in un tempo inconciliabile.
Davanti a me sta la vita, è lei ad interrogarmi
a chiedermi cos’è la verità,
questa che mi penetra e possiede, questa che mi fa fedele.
E loro già lo sanno che ancora un poco e poi non mi vedranno…
ma tu dì soltanto una parola. Una parola.
Nell’ora del mio Getsemani,
veglio perché le veglie delle madri fanno le notti assolate.
Tu dì soltanto una parola…
Eterna e ordinata, facile da dire,
facile da obbedire. Ché questa mi fa scandalo,
incrocio tra fede e bestemmia, bivio dove vita e morte
vanno alla rivelazione lievi e leggere senza il peso dei “Perché?”
Cadute sono tutte le domande. Depongo la voce e rispondo.
Amo il lago. Amo la sua calma profondità,
la sua quieta immobilità, il suo volto sereno
che nulla riesce a turbare,
appena increspato dal vento,
dalla vita che ci scorre sopra.
Amo il lago che mi ha insegnato a navigare a vista.
E tu in me nell’acqua nuova navighi
verso questa sponda che a me si fa lontana
e un’altra sconosciuta m’attrae sulla sua rotta.
Amo il lago. Mi somiglia. Apparentemente calmo,
calma io mentre nel fondo mi vive un mare in tempesta.
Di lui le mani e le braccia, di lui le labbra e il respiro
di lui gli occhi e il silenzio, di lui l’odore e il calore
di lui il corpo e il cuore davanti a me, dentro di me
nuda e disfatta mentre ti faccio uomo prossimo e futuro.
Di lui la forza e il consenso, di lui la cura e l’attenzione
di lui il dolore e il sorriso,
di lui l’essermi in quest’ora un poco padre.
Conosco il suo nome dolce d’aggettivo
eppure scuro, nero, germe infettivo.
So la strada su cui avanza i suoi passi acuminati
nella mia carne vulnerabile, il suo volto,
il suo sguardo guasto in cui non mi rifletto.
So il vuoto che mi scava attorno
l’aspro suo respiro, lo spazio che rende brulla la distanza,
ma la spiano perché in me non c’è resa, né cedimento.
Sto salda nell’amore e se l’amore fa degna
e bella la vita più bella e degna ancora farà la morte.
In pieghe d’anni, in avidità di avi vissuti in me
che non invecchio su questa strada sbarrata,
dove le cose, tuttavia, fanno largo ai miei passi.
E mi alzo e vado e al buio sto ferma, li ascolto respirare
e m’acquieta la fragranza di vita appena fatta,
il fiato croccante dell’infanzia. Se ne nutre questa vita mia
in caduta, in mutamento, nel giusto del timore
a dare il mio consenso perché sia fatto santo tutto il tempo.
Appartata e raccolta, senza rimedio né miracolo
perché s’è già compiuto, perché lo credo sai lo penso
in fondo è piccolo l’immenso.
Stamattina sedevo presso la finestra e guardavo fuori,
senza pensieri. Il cielo era coperto,
ma poi da dietro una nuvola è spuntato il sole.
Ho chiuso gli occhi e ho sentito
la luce fendere il buio, il calore colarmi sulla pelle
come una carezza, scrosciarmi dentro
e sussurrarmi: “sei viva sei viva”,
mentre un vento leggero traduceva per me il silenzio delle cose.
Ti partorisco in misericordia, nel luogo degli opposti
nel nove difettivo a dirci in perfezione
e tu mi partorisci nel coraggio di vedere più chiaro
sotto la luce radente del mio volerti qui mentre mi congedo
e vado via a passi ritrosi che mi sembrava non finito
il mio compito terreno e invece no, forse è questo il limite
e altro ancora e di più non posso.
“Comprendo che tu puoi tutto
e che nessun progetto per te è impossibile.
Chi è colui che da ignorante,
può oscurare il tuo piano?” (1)
Non c’è ragione, non c’è giustificazione
ma c’è tanta gioia in questo dolore
progetto d’amore oscuro alla mente
luminoso al cuore. Mi spoglia dell’umano,
me che terrena ancora vorrei essere
per loro di cui avrò altro sapere
e anni ancora vorrei per la vicinanza delle mani
per il loro crescere ricco e buono
con una radice nella terra e una radice nel cielo.
Ora basta. Ho riempito le mie giare d’acqua
fino all’orlo. “Ora pensiamo alla cena”.(2)
Tu figlio bello e benedetto,
figlio dell’obbedienza alla legge che regola l’umano.
Tu nato al mio principio di vita nuova
al mio transito in un silenzio leggero verso la parola giusta,
tu mia ultima parola, mio tutto è compiuto
perché nessuno ha amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici.
E’ questo il canto che vi lascio, la fede che rammenda lo strappo
perché mai e poi mai sentiate l’abbandono
ma solo e sempre l’abbondanza del dono.
A molti l’ho taciuto.
Per pudore. Per paura che possano farmi vacillare,
che mi puntino addosso i loro sguardi polverosi
e come potrei spiegare quello che sento, che vivo?
Il mistero che mi sta davanti e mi risucchia tutta l’esistenza.
Come potrei far capire loro che è un miracolo
questo che accade e questo in cui siamo dentro tutti,
che l’intera vita è gestazione e la morte è parto mistico?
Madre morte che ci partorisce in tutti i nomi dell’aldilà.
Le curve dolci dei colli regolano il mio respiro,
stanno attente al corso di me donna in doppia fioritura,
a poco a poco dis-detta dalla vita. Detta altrove, detta nella cesura
in sopravanzo di dizione, già in trasparenza,
in dissolvenza, già sulla soglia dell’assenza. Io fortemente soglia
e come sento estraneo il corpo, ma non peso, né sostanza densa
ma solo ciò che mi fa passo, prossima al rimpatrio,
ancora un poco chiusa nel pugno del tempo in attesa che s’apra
all’eterno. Io viva e dischiusa, io finalmente
all’aperto!
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(1) Giobbe 42,1-4
(2) Iliade XXIV v. 601