
Di SONIA CAPOROSSI
La motivazione che l’Accademia svedese propose nel 1997 per attribuire a Dario Fo il Premio Nobel per la Letteratura “perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggiava il potere restituendo la dignità agli oppressi” fa ineluttabilmente pendant con quella del Nobel 2016 per la letteratura a Bob Dylan, la quale attribuisce al menestrello folk di sessantottina memoria la capacità di “creare nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana“. Come dire che ormai in Svezia si distribuiscono onorificenze universalistiche e universalizzanti in modo surrettizio da almeno vent’anni a questa parte. E in base a più d’un argomento, che ora cercherò di esporre nel mio solito modo filosoficamente sghembo.
Certo, Dario Fo fu anche scrittore, come fu anche parecchie altre cose: drammaturgo, attore, regista, autore, illustratore, pittore, scenografo e attivista politico nonché culturale. Certo, dal canto suo Bob Dylan fu anche poeta, come fu anche, a sua volta, parecchie altre cose: cantautore, compositore, attore, pittore, scultore, conduttore radiofonico. Un po’ come me, che sono docente, musicista, musicologa, deejay, scrittrice, poetessa, critico letterario, artista digitale, filosofa (!); ma per l’appunto, di tutte queste surrettizie attribuzioni me-dicenti (a volte anche male-dicenti), ne vince e ne prevale pur sempre una e una sola come forma di determinazione del modus creandi di chicchessia (nel mio caso, fate voi quale). Allo stesso modo, Dario Fo e Bob Dylan furono tante cose, epperò, eminentemente, il primo fu uomo di palcoscenico, il secondo fu, sempre eminentemente, uomo di canzone (man of words, man of music, come si intitola in realtà, anche se pochi lo sanno, l’album di David Bowie del 1969 chiamato urbi et orbi in seguito, erroneamente ma a furor di popolo, Space Oddity).
Su Fo sono già stati scritti quintali di pro e contro e non mi pronuncio oltre. Quanto a Dylan, c’è chi oggi salva capre e cavoli come il Lello Voce nazionale, il quale proprio oggi, sul suo blog personale de Il Fatto Quotidiano, scrive: “Il Nobel per la Letteratura a Dylan ci dice che la letteratura (intesa come arte della lingua scritta, muta) forse sta morendo, ma questa non è necessariamente una cattiva notizia, anzi. È la conferma, in ogni caso, che le arti della parola stanno liberandosi da una tirannia secolare: la letteratura non detiene più il monopolio delle parole, del linguaggio d’arte. Tanto Fo che Dylan hanno fatto arte dando voce alle parole; la loro opera, prima che nei libri che ne conservano gli scritti, era ed è nel loro corpo e nel loro respiro. E questo vale anche, ieri, come oggi e forse domani, per tanti poeti.”. C’è invece chi, su più alte sfere pseudodantesche, denigra senza mezzi termini l’operazione culturale dell’Accademia di Svezia ormai palesatasi come scopritrice costruttivistica di malsane associazioni di idee e persone, e di persone a onorificenze catholicae nel senso etimologico del termine, come fa Baricco dalle pagine de La Repubblica ricordando che, forse forse, avrebbero maggiormente meritato il blasone dell’exegi monumentum aere perennius nomi della letteratura in senso pieno come Philiph Roth, Don DeLillo o, per dirne tre, Murakami. Ha detto Baricco: “è come se dessero un Grammy Awards a Javier Marias perché c’è una bella musicalità nella sua narrativa”. Addirittura più pesante e petroso, per non dire monolitico, è stato il giudizio di Irvine Welsh: “Sono un fan di Dylan, ma questo è un premio nostalgia mal concepito strappato dalla prostata rancida di vecchi hippies balbettanti”.
Non c’è tanto da chiedersi, in effetti, che cosa c’entri la musica, che è composta da sistemi come armonia, tonalità, ritmo, melodia, con la poesia, come hanno pure fatto molti commentatori poco avvezzi ai nessi inscindibili esistenti fra le due arti dette appunto musiche fin dall’incipit primigenio del loro sorgere storico e metastorico. Scrivevo tempo fa su Versante Ripido a questo proposito che il legame fra musica e poesia è davvero indistricabile esprimendomi in questi termini, checché Platone ne dica: “nelle sue vetuste origini la poesia, oltre che come declamazione religiosa ed etica nasce già performance, nasce già reading, nasce già spettacolo. E proprio in quanto performance vive della propria istanza comunicativa, è messaggio cantato o musicato che si fa tramite tra un emittente (il Dio o il Poeta Vate) e un destinatario; nasce, insomma, come l’epos didascalico di Omero o Esiodo, oppure come la melica monodica, ricolma di virtù e di passioni, e quella corale, collettività confortante e salvifica, dispensatrice di messaggi didascalici e pregna d’ethos, come accade del resto nel coro della tragedia”; e proseguendo storicamente, “La poesia musicata propriamente detta ha trovato la propria identità in forme normalizzate già medievali e successivamente rinascimentali e romantiche come il madrigale, la canzone, il sonetto o la ballata, svincolandosi dai significati etici e filosofici precedenti, ma a ben vedere, ritrovandone altri confacenti alle epoche di trapasso”, sicché “non è dunque vero, come sostengono alcuni, che la musicalità della poesia sia invenzione recente risalente al XIX secolo, nonostante il sovvertimento della gerarchia delle arti teorizzato da Edgar Allan Poe e da Baudelaire, che sono stati fra i primi a ravvisare nell’aspetto musicale la nota distintiva della nuova poesia moderna, ovvero della poesia visionaria, postromantica e simbolista”.
In quell’articolo intitolato Le meccaniche terrestri: una riflessione estetica sul nesso tra poesia e musica approfondivo di molto il concetto, per cui rimando il fruitore del presente articolo alla lettura completa del testo. Qui mi limiterò a notare come la poesia, in quanto ποίησις originaria del dettato umano, vive dell’inscindibile legame di ritmo, suono e semantica, come a dire: della fusione e compenetrazione (detto così, sembra un po’ crociano, lo ammetto) di forma e contenuto. Tuttavia, proprio per questo motivo, non esiste una canzone senza musica, mentre può benissimo esistere la musica senza poesia (ovvero senza il cosiddetto testo: è nell’identificazione dell’aspetto testuale con quello poetico che tutti danno per pacifico e notorio, infatti, l’inghippo): giacché la musica è arte formale per eccellenza, in cui il contenuto può essere informato anche semplicemente tramite il richiamo sentimentale evocato dal suono, senza la necessità imprescindibile di un contenuto concettuale, mentre non è vero il contrario. La poesia, infatti, non può fare a meno della musica, perché dalla musica, sulla musica e con la musica è sorta, generata, informata. Lo diceva già in qualche modo sibillino Ezra Pound: “i poeti che non si interessano alla musica sono, o diventano, cattivi poeti” (a questo riguardo, noto è che Benedetto Croce non amasse la musica e non ne capisse poi molto, e forse per questo cominciò a non capire più nemmeno la poesia dal Decadentismo e dal Simbolismo in poi, quando quest’ultima ormai declinava sull’aspetto puramente formale gran parte del proprio modus essendi).
Il problema è, piuttosto, il fatto che nell’oggetto d’arte che corrisponde a una canzone, la percezione collettiva indotta dal giudizio meritorio dell’Accademia di Svezia fa sì che il testo sia percepito come l’aspetto poetico, la poesia della musica: mentre così, immediatamente in senso hegeliano, non è. Ergo, il reale motivo filosofico – estetico per cui a Bob Dylan un Nobel per la letteratura non spettava affatto è il seguente: nella canzone l’aspetto musicale, formale, prevale su quello contenutistico, testuale che viene erroneamente percepito come poetico; e il caro Bob, essendo eminentemente cantautore e scrivendo eminentemente canzoni che, in quanto tali, non abbisognano del contenuto concettuale per potersi dire arte in modo necessario e sufficiente, non può dirsi poeta senz’ulteriore determinazione; mentre il poeta, viceversa, può sempre dirsi anche uomo di musica, perché la poesia è musica, ma la musica non necessariamente è poesia. Dunque, le canzoni di Dylan non dovrebbero essere considerate belle in senso estetico tanto per le parole, quanto per la musica (sed sic non est!). In questo senso, occorrerebbe riconsiderare (finalmente!) anche tutta la stregua del cantautorato storico nostrano, Francesco Guccini e Fabrizio De Andrè in primis: cantautori che avrebbero fatto meglio a pubblicare libri di poesia (quelli sì!) piuttosto che vinili, in quanto autori in cui il contenuto testuale ha sempre prevalso in valore estetico sulla forma musicale nella percezione collettiva dei fruitori e di fatto, e che spesso hanno prodotto canzoni scritte in giri armonici stantii e abusati e per giunta arrangiate alla ben’e meglio (talvolta, ma non sempre: vedi la felice collaborazione De André – PFM), canzoni che quindi possono dirsi assolutamente belle solo per le parole.
Conscia di arrecarmi così gli strali inviperiti di tutti i fan del cantautorato anarchico e di sinistra dall’orecchio musicale impigrito da decenni di giri di Do, credo di avere almeno contribuito a chiarire l’aspetto filosofico – estetico della Chose.
Augh, ho detto, poi fate voi.
Sul cantautorato italiano mi trovo assolutamente in sintonia.
Preferisco Piero Ciampi e Luigi Tenco.
A me sembra che il nobel a Dylan sia una resa alla società di massa capace di riempire gli stadi, non un premio alla letteratura
Ritenendo valide tutte le premesse non mi ritrovo d’accordo sulle conclusioni per alcune ragioni che proverò a chiarire. Nella nostra epoca la percezione musicale è strettamente legata alla registrazione e alla riproduzione, ma Bob Dylan durante i suoi concerti stravolge totalmente le sue canzoni (rendendole praticamente irriconoscibili): questo dimostra che i suoi testi sono spesso prevalenti sulla musica (difficile ammetterlo, perché parliamo di grande musica) e le parole unico mezzo che riportano alla fruizione di un contenuto già sentito e diffuso. Ricordo un concerto a Roma: ascoltai una versione di Blowin’ in the wind impossibile da riconoscere se non per il testo. La denominazione di menestrello non è un caso, del resto. Bob Dylan non ama ripetersi, anzi nella performance dei suoi brani metteo spesso a dura prova il rapporto che si instaura tra pubblico e autore. Ciò che resta fisso nella sua musica sono proprio i testi. Proviamo a immaginare Dylan senza registrazione: priviamoci del mezzo di diffusione che ha contribuito alla diffusione della sua arte. Forse potremmo capire meglio il rapporto tra musica e parole e capire, riprendendo le tue stesse premesse (veramente ben fatte) che, per l’appunto, musica e poesia non sono tanto distanti.
Anche per quanto riguarda De Andrè, il discorso qui fatto è valido fino all’avvento di Creuza De Ma, definito dallo stesso David Byrne uno dei migliori dischi world music prodotti fino ad all’ora. In Creuza de Ma e nei successivi dischi di De Andrè, fino ad Anime Salve, il tessuto musicale acquisisce uno spessore maggiore (sebbene tutto si possa dire tranne che dischi come La buona novella o Non al denaro, non all’amore né al cielo siano privi di spessore musicale). Il testo non perde mai valore, ma c’è una ricerca musicale diversa che vira verso la riscoperta e la riattualizzazione di forme tradizionali. De Andrè, che aveva cominciato con l’amore per la Chanson francese, del resto non ha mai abbandonato né la tradizione e nemmeno gli ultimi, quei “personaggi del sottosuolo” sempre presenti nei suoi testi. Ne ha parlato sempre in modo diverso, rimodulando con grande abilità il discorso musicale passando anche per il rock e i songwriters d’oltre oceano tra cui, proprio Dylan e Leonard Cohen dei quali tradusse le canzoni certamente perché avevano anche un significato poetico molto alto.
Intervengo solo per quanto riguarda il discorso su De Andrè. Attenzione che in “Creuza de Ma” la musica è di Mauro Pagani. “Anime Salve”è un lavoro a quattro mani con Ivano Fossati e con gli arrangiamenti di Piero Milesi, e comunque anche in questo sembra vi mise lo zampino Mauro Pagani. De André stesso come musicista credo si ritenesse un poco preparato, per questo, a parte un primo periodo, ha sempre collaborato nella realizzazione della parte musicale dei suoi con musicisti più preparati: Gian Piero Reverberi , Piovani, De Gregori, Bubbola e appunto Mauro Pagani (fondamentale per la sua svolta musicale) e Ivano Fossati.