Di ENZO CAMPI
Estensioni, espansioni e figure dell’intensità.
L’Achilleide di Marthia Carrozzo
Uno «sguardo» su Piccolissimo compianto all’incompiuto di Marthia Carrozzo, Besa Editrice, 2016
Quando si parla di mitologia greca bisogna sempre fare i conti con diverse fonti e versioni, con i racconti delle tradizioni popolari, con i resoconti e le invenzioni dei drammaturghi, e via dicendo. Qui siamo in presenza di un diktat poetico e di una logica del discorso pieni di densità e spessore. Le parole sono sciabolate che provengono, elettivamente, da Stazio, Carmelo Bene, Heinrich Von Kleist o, se preferite, sono ad essi riferite tramite una serie di figure che vanno a delineare e caratterizzare da un lato l’eroe (o anti-eroe, ma è la stessa cosa) e dall’altro lato l’«idea eroica» che funge da testo e pretesto per la creazione dell’opera. Ma l’eroismo di Achille è conflittuale. Le sue azioni, talvolta indotte da quella che potremmo definire «logica guerrafondaia», dall’amore materno, dagli oracoli, dai capricci divini, si nutrono di impulsi e passioni. Sembra quasi che non ci siano progettualità e ragionamenti. Tutto accade e si consuma quasi casualmente o per risposta istintuale al caso. Si potrebbe dire che il caso-Achille sia proprio quello di agire, con impeto e furore, senza curarsi delle conseguenze e dei cadaveri che costellano il suo cammino.
Allo stesso modo il testo carrozziano accade e cade, si consuma creando un caso-Achille, ma non lo fa abbandonandosi alla semplice e facile declinazione di passioni e furori, bensì affrontando l’eroe nelle sue componenti «intime», nei rapporti con quelle figure che gli permettono di diventare un caso, rapporti sempre conflittuali e vissuti al limite, in un «faccia a faccia» o in un «corpo a corpo» con l’interlocutore di turno. Non sarebbe quindi difficile delineare più profili sui quali imbastire la trama di una saga. Anche dal punto di vista psicologico i nostri sguardi potrebbero indirizzarsi verso più direzioni, anche decisamente divergenti tra loro. La chiara impostazione passionale potrebbe far pensare ad una sorta di guerra. Difatti l’opera si delinea e si snoda attraverso diverse guerre che non esitiamo a definire «private» e quindi, in un certo senso, «desideranti» (l’ossessione che caratterizza Teti nel tentativo di rendere il figlio immortale, il divenire animale che investe Achille e Pentesilea nelle diverse versioni del mito, i travestimenti di Patroclo e Achille, ecc.). C’è un modo di trattare il mito e un modo di trattarsi, come elemento creatore, all’interno del mito. L’operazione compiuta dall’autrice, è quella di innestare nel mito un’energia pulsante. Ed è per questo che Achille viene figurato e trasfigurato non nello spettro ampio e articolato di un’epopea o di un paese in guerra, ma nei rapporti interpersonali che lo legano, a doppio filo, ai suoi antagonisti: Patroclo, Deidamia, Teti, Pentesilea, Paride, Briseide, Agamennone. In ognuno dei sette lati di questo ettagono c’è una parola-chiave: “attraverso”. Questa parola introduce di volta in volta i sette antagonisti o meglio le sette figure da amare/odiare e usare/distruggere e attraverso le quali esaltarsi per il compimento della saga. Ognuna di queste figure si è trovata a condividere un «regime d’intensità» con Achille.
Oltre ad essere corpo e motore della narrazione, Achille è – usando una parola cara all’autrice – per «metà» soggetto, portavoce e tramite del desiderio, per «metà» deus ex machina che dirige e sorveglia dall’alto i rituali delle varie «consumazioni». Nella postfazione redatta dall’autrice risulta evidente come questa fatidica e sintomatica “metà” sia una caratteristica peculiare dell’opera. Una caratteristica polivalente in cui inscrivere la volontà, conscia o inconscia, attraverso la quale Achille assorbe e incarna in sé gli esseri con i quali condivide, nel bene e nel male, la sua carica vitale ma nondimeno distruttiva.
Resterebbe da precisare che le accezioni delle «metà» su cui insiste l’autrice potrebbero essere identificate anche nella confusione dei generi. Allora il senso sarebbe da ricercare anche nella ricerca di un genere, per così dire, complessivo, che coaguli al suo interno non solo il maschile e il femminile (Achille che si traveste da donna; Pentesilea che si comprime i seni per divenire un guerriero al maschile) ma anche e soprattutto da un lato la vittima e il carnefice e dall’altro lato l’odio e l’amore, la violenza e la dolcezza. Ma non si tratta solo di questo. C’è l’incombenza dell’incompiuto. Il genere unico è inarrivabile. Nessuna «metà» può completarne un’altra quando ciò che prevale è la volontà di consumazione. E allora si tratterebbe, come giustamente fa notare Manfredini nella prefazione, di cantare le «perdite», e quindi tutto ciò che Achille lascia dietro di sé in ognuna delle tappe del suo percorso «a delinquere».
Come già accennato, da un lato c’è il poema incompiuto di Stazio, dall’altro lato l’impostazione corporea e sanguinolenta (quasi rivoluzionaria se si tiene conto dell’epoca in cui è stata scritta) di Kleist. A questa coppia si giustappone la presenza fantasmatica di Carmelo Bene (non a caso citato in epigrafe e in postfazione). Queste sono le tracce che Carrozzo, da «strega» sapiente ed edotta nella commistione degli elementi, mette a cuocere nel calderone del mito o, se preferite, della riscrittura del mito. Il fuoco che riscalda il calderone è una fiamma viva e pulsante che aborrisce i tempi lenti ed esalta le passioni.
Non ho pronunciato a caso la parola consumazione, perché il mito va consumato o comunque bisogna consumarsi in esso attraverso azioni più o meno sacrificali. Valgono come esempi Patroclo che “cambia pelle” e si immola al posto di Achille in battaglia e la parte conclusiva del «corpo a corpo» con Pentesilea: “[…] Rinuncio a lui. Con lei. Non vi trafiggo. / Rinuncio a lei. Con me. Che non si scorda. / Resta. / Mi prostro sul suo sangue e già per questo. / Mi lavo col suo sangue e già per questo. / Mi ama dal suo sangue, sì e per questo. // Vive.”.
Carrozzo conosce bene questa norma e la applica implacabilmente al corpus testuale. Ed è anche per una ragione idealizzata (non solo finalizzata alla creazione di un flusso letterario) che Achille non si accompagna ai suoi antagonisti. Per usare, come già accennato, quella che è la parola-madre dell’opera dobbiamo affermare che Achille passa “attraverso” i suoi antagonisti. L’uso che ne fa rischia i limiti dell’abuso, sia fisico che psicologico. Tra una evidente e dichiarata nozione di forza e la proiezione di una decisiva intensità si snoda quindi un filo che guida il flusso letterario lungo una strada di conflitti irrisolvibili, e dunque “incompiuti”. La nozione di forza è insita nel mito (in tutte le sue versioni, da quelle antiche a quelle più moderne) ma la proiezione dell’intensità si deve esclusivamente all’autore che usa il mito. Lo fa Carmelo Bene: “Questa che d ora in poi non ha più nome / Ringhio Barrito Ossessa squassa l arco / contro amore nemico si fa danza” (Carmelo Bene, Pentesilea, in id. Opere, Bompiani, 1995-2002, p.1347). Lo fa Heinrich von Kleist: “Quante, attaccate al collo dell’amante, ripetono di continuo queste parole: che l’amano, oh, l’amano così tanto, che per amore potrebbero anche mangiarlo; e dopo, ripensando alla parola, le pazze! Scoprono di essere sazie fino alla nausea. Vedi, mio amato, per me non fu così. Guarda: quando io mi avvinghiai al tuo collo, lo feci davvero, nel senso autentico della parola; non ero così pazza come sembravo” (Heinrich von Kleist, Pentesilea, Einaudi, 1989, pp.89-90). E Carrozzo non è da meno: “Non è più la geometria sbavata delle mie labbra / così ebbre di lui solo un attimo prima. / Non è più la breccia, il varco, il trampolino, / il cavo teso su cui osavo i passi. / Non è e non sa. Eppure. / Eppure sono io più certa. Più che pura. / E sporca del suo sangue e già per questo” (p.39). Solo a titolo esemplificativo, si noti come il carrozziano “il cavo teso su cui osavo i passi” possa essere considerata, dal punto di vista significante, un’equivalenza semantica con quell’ “amore nemico” che “si fa danza” di Carmelo Bene, allo stesso modo in cui il “più che pura” carrozziano corrisponde al “non ero così pazza”di Kleist.
Vorrei attardarmi solo un attimo su quelle che si potrebbero definire «parole campionate». Le «campionature» valgono come configurazioni verbali ma sono allo stesso tempo figure fono-linguistiche specifiche perché aprono la strada alla (rap)presentazione. Difatti tutto ciò che andrà a definire il flusso si costituisce proprio a partire dalle campionature. Per amor di brevità ne evidenzio solo alcune: alterigia (p.19, p.52), fiato (p.41, p.49, p.57), slentato (p.33, p.40), slargato (p.40, p.50/51, p.55/59), peso (p.19, p.51, p.56), la coppia trama/colpa che ritroviamo alle pagine 20 e 29 e che investe quindi gli incontri-scontri con Teti e Briseide, la coppia dazio/giogo che ritroviamo scandita alle pagine 19, 29/30, 33 e che crea una linea isotopica comune tra Teti, Briseide e Paride. Ed è proprio qui, in questo procedimento di rinvenimenti e riposizionamenti «a distanza» che prende vita, forma e tensione la (rap)presentazione. Qui non c’è un corto circuito anzi, se mi concedete l’acrobazia, siamo in presenza di un «lungo circuito», di una catena patemico-appercettiva che fibrilla in tutto il corpus testuale allo scopo di creare un effetto di propagazione inerente all’ordine del discorso.
Ed è per questo, per consolidare e insieme caratterizzare, per creare un sistema e un ritmo di tensioni al lavoro, che l’opera viene gestita e scandita attraverso successioni di affezioni. Affezioni quasi morbose che investono letteralmente tutti e sette gli antagonisti di questa saga. A solo titolo d’occorrenza: “[…] Solo il mio ventre gli fu caro più del cibo […]” (p.30) – “[…] al costato, cui ora mi accosto in un tango / di lingua e di denti sonanti a segnarlo […]” (p.41) – “[…] Lui è la terra, se lo lecco nel palmo […]” (p.42) – “[…] Poi, è la lingua / a volerne saggiare la convessità […]” (p.55). Il linguaggio delle affezioni è, a tutti gli effetti, un attraversamento. Quell’«attraverso» è una fenditura, una crepa, è la frattura in cui entrare per mettere a morte qualcosa o qualcuno e per poterlo reinventare attraverso l’esplorazione e l’abuso della sua intimità. Così facendo però Achille mette a morte anche se stesso, si conduce cioè verso il coronamento (il sacrificio ultimo) della sua vita terrena. Non è azzardato affermare che l’incompiutezza ultima di Achille sia proprio quella della sua mancata immortalità.
Il ritmo dell’enunciazione è veloce e serrato. Achille sembra aver fretta di consumare i suoi pasti e di passare oltre. Difatti nell’Achilleide carrozziana non c’è una componente esclusivamente evocativa. Siamo, più che altro, in presenza di un registro di forze immanenti che lavorano per creare delle serie interagenti in cui coagulare, in una sorta di univocità, la dicotomia vittima-carnefice
[…]
Disseminai i suoi occhi ocra in un tranello,
dissimulando, in seta blanda, ogni pudore;
imberbe e laido, per bluffare e stare a sorte,
nitido e assolto al vezzo delle alcove.
Come a esentare il dazio dal mio grembo,
vanto impaziente che sgravò l’offesa;
femmina d’incoscienza troppo umana,
nel mio bagnarti il volto di saliva.
[…]
L’immanenza è nel testo che dice se stesso amplificando e consolidando il rapporto diretto tra il protagonista e i suoi antagonisti, nel testo che ribatte ossessivamente il suo ritmo, che inonda il luogo della veicolazione e «risuona» in esso. Senza tenere conto delle esperienze teatrali dell’autrice (che comunque potrebbero essere determinanti in tal senso), chi l’ha vista in opera sa che è praticamente impossibile prescindere dalla componente sonora del suo diktat scenico. Le nostre tre parole-simbolo, estensione, espansione e intensità, sono caratteristiche specifiche della modalità in cui Carrozzo fa scena-di-sé (nell’accezione positiva del termine). Il dettato risuona nel sé che lo veicola, così come risuona, tramite un effetto «naturale» di trasmissione empatica nell’ascoltatore. E questo avviene «al limite». Talvolta può difatti accadere che l’ascoltatore non si curi delle parole e che entri in un sistema di «tensione» col ritmo che contraddistingue questo intromettersi nello spazio per poterlo espandere e creare un registro di intensità al lavoro.
Quando si parla di risonanza, e quindi di ascolto, diventa per me invitabile rifarmi a Nancy. “[…] il visivo sarebbe tendenzialmente mimetico, mentre il sonoro tendenzialmente metessico (cioè collocato nell’ordine della partecipazione, della spartizione e del contagio).” (Jean-Luc Nancy, All’ascolto, Raffaello Cortina, 2002, p.18). Ed è proprio su quest’ultima parola, sul “contagio”, che bisognerebbe insistere. Carrozzo rende “partecipi” gli ascoltatori delle modalità in cui “spartisce” lo spazio provocando, nei più sensibili, una sorta di “contagio” auditivo. Questo perché è anche se stessa a porsi «al limite», un limite così tanto ostentato da permetterle di “svanire” lasciando lo spazio a fare i conti con la risonanza che lei stessa ha creato. “Dire non è sempre, né soltanto, parlare; o meglio, parlare non è soltanto significare, ma è anche, sempre, dettare, dictare, cioè conferire al dire il proprio tono, ossia il proprio stile (la sua tonalità, il suo colore, la sua andatura) e, al contempo, per questo o in questo, in questa operazione o in questa divisa del dire, recitarlo, recitarselo o lasciare che si reciti – si faccia sonoro, si de-clami o si es-clami, e citi se stesso (si metta in moto, si richiami, secondo il primitivo valore della parola, s’inciti), rinvii alla propria eco e, così facendo, si faccia.” (Jean-Luc Nancy, cit. p.57).
L’epigrafe al libro recita: “E Achille incontro la sua ira regina muove inerme / S avvera E inorridito / Resta e vuole svanire”. È Carmelo Bene che scrive, e quindi che parla, anticipando o posticipando, in una sorta di fuori sincrono, la sua sparizione, e quindi rinviando all’eco della propria risonanza. Questo perché Carmelo Bene conosceva la differenza tra il “recitarlo” e il “lasciare che si reciti”. La prima opzione implica una presenza (mettere in scena) e la seconda invece fa scendere in campo l’estromissione (levare dalla scena). Se si lascia che il testo “si reciti”, si agisce sullo e nello spazio attraverso una risonanza, che dovrebbe essere la caratteristica principale di ogni produzione e ricezione del suono. Nancy continua così. “Anche la scrittura è, del tutto letteralmente e perfino nel suo valore ultimo di «archi-scrittura», una voce che risuona”. Ed è proprio quello che accade quando Carrozzo leva dalla scena il suo testo per trasformarlo in puro suono, o meglio in una “voce che risuona”. Il testo ri-suona anche perché, in un certo senso si ri-scrive, si ri-propone, ri-batte costantemente il ritmo che le è proprio. Da qui il plusvalore che si può attribuire al gioco delle allitterazioni (“TRaballa/T’atTRaversa/Tremula”), alle permutazioni assonantiche (“pleure/cuore”; “cagne/sangue”), alla ripresa di determinati gruppi timbrici (“impiGLIAta/ciGLIA/svoGLIAta”; “deflaGRA/sGRAnate/sGRAvare/GRAzie”), alla dilatazione e alla contrazione di quelle parole che generano altre parole (“Ierofante/infante”; “ombre/orme”), alle relazioni sinonimiche (“calco/calce”; “cassapanche/baule”), e via dicendo. Archi-sonorità e archi-scrittura. In una sola parola: una struttura.
In buona sostanza, tenendo conto anche della componente sonora, non si avrà nessuna difficoltà ad affermare che dal punto di vista linguistico il testo non è solo esposto ma espanso, crea cioè delle linee ideali il cui compito principale è quello di unire tutti i punti della struttura.
Come avviene ciò?
Individuando gli elementi chiave dell’enunciazione e mettendoli al lavoro in una griglia di variazioni «matematicamente» posizionate e scandite. Si potrebbe dire che siamo in presenza di una concatenazione d’enunciazioni volta a creare un flusso costante, quasi implacabile. C’è come una sorta di movimento sismico che scuote il testo al suo interno, che permette alle faglie di muoversi, di spostarsi da un punto all’altro e di creare mobilità. Oltre che sul “contagio”, bisognerebbe insistere anche su quest’idea di mobilità nella scrittura carrozziana. Usando un gergo cinematografico si potrebbe parlare di una “panoramica a schiaffo” per il modo in cui il testo sopraggiunge (e si fissa) al centro della scena o, se preferite, dell’azione.
[…]
Che mi torcevo le mani minute, puntute,
conficcando le falangi all’approdo dei suoi fianchi,
senza temere la mia nudità,
se mi teneva e mi tenevo a lui,
nell’assedio assetato delle nostre pelvi inesperte,
ansiose di fiorire.
[…]
Perché qui c’è azione. Perché qui c’è scena. La scrittura non ricalca il mito. È essa stessa mito, ovvero: da un lato la fisicità e dall’altro lato quella che si potrebbe definire «predisposizione sacrificale». Forma e sostanza, anche quando il testo sembra apparentemente ripetitivo, concorrono alla edificazione di una sovrastruttura in continua mutazione. Un solo breve esempio: “[…] Non occorre che lui sia. / Non occorre. / Non accorro più, spavalda, / alla conquista del suo campo […]”.
In questo passaggio sembra fin troppo semplice costruire un dispositivo linguistico, anche se in realtà siamo in presenza di un esempio di pura maestria. Basta sostituire due sole vocali (OccorrE/AccorrO) per creare un registro di intensità e di tensioni senza però inficiare la componente assonantica e il ritmo dell’enunciazione. Quindi le figure dell’intensità devono essere considerate, anche e soprattutto, come delle vere e proprie linee di forza. L’Achille carrozziano è una figura dell’intensità che mette al lavoro un sistema di forze, un’intensità sorprendentemente fluida, che sembra quasi votata al proprio superamento.
Sovviene spontanea una domanda: è possibile che il ritmo sia sempre in crescendo?
[…]
E ci colammo addosso, addossati alla parete,
lui Ierofante, di fronte,
a sgranare l’agguato,
a sferrare in più salmi ansimanti il battesimo fiero
ai miei seni votati, vuotati,
alle derive della mia monca maternità,
dove pesava la faretra di traverso.
Strapparmi il verso. Ultimo. Essenziale.
Quasi un vagito, a fare tremule le anche.
E ci cademmo addosso, entrambi retti alla parete,
tessendo trame inaudite di gemiti e zucchero cotto
che candisce al tatto.
Ci spingemmo l’un l’latra sul limite esatto
di un salto slargato che presto lumeggia,
diaframma slentato
da un’eco frammista di fremiti e fama e visioni.
Quell’ultimo verso che albeggia.
[…]
Non ci sono pause, non c’è un respiro in cui si possa riprendere fiato. Achille rischia l’asfissia. Ma è un’asfissia «arieggiata» che – quasi paradossalmente – apre delle radure, si apre ad un’idea di sconfinamento, che non è riconducibile solo all’erranza e alla deterritorializzazione, ma a quello status psicofisico d’esaltazione di cui Achille si fa tramite e simbolo, nel bene e nel male, nel piacere e nel dolore. Perché in Achille non c’è «distanza» tra bene e male e tra piacere e dolore. Tutto viaggia, si brucia e si dissangua sulla stessa linea sacrificale, quella linea o, se preferite, quel filo rosso che Carrozzo, nella complessa articolazione delle sue catene significanti, ri-definisce di volta in volta in ogni attraversamento e in ogni sconfinamento. A solo titolo d’occorrenza: “la via maestra, / strettoia, in verità”; “L’ombra spalma i passi e m’incammina, / verso una colpa, senza colpa, da scontare”; “Una spina, una sola, conficcata per gioco, / disegnava, sul palmo, altre rotte”; “la geometria sghemba delle mie / linee che nessuna zingara riuscì mai a computare” (Ndr. i corsivi sono miei). Carrozzo imprime e fissa dei segni. I segni sono ben visibili. I segni sono «il» visibile che diviene dicibile proprio perché fissato indelebilmente sulla terra, su quella terra gravida di corpi di vari natura, corpi bestiali e passionali, corpi che amano e combattono, corpi esposti all’abuso ed espansi nello spazio in cui esercitarsi al sacrificio.
Semplificando e riducendo, se l’intensità è il luogo interiore del rapporto interpersonale in cui si incontrano/scontrano i soggetti, l’espansione – fortemente condizionata e regolata dalla pressoché continua deterritorializzazione di Achille e dalla tangibilità della morte che accompagna e consolida la sua erranza – è la «messa in voce» del mito, che si concretizza proprio a partire dall’intensità attraverso la quale si snoda il testo: periodi brevi e incisivi, frasi spesso lapidarie, riprese della parola-chiave o della strofa-madre a sostegno della serie (ostentata e insieme misurata) delle variazioni, in uno stile che fa riemergere prepotentemente le articolate strutture rosselliane.
[…]
Non venne mai, se non nel brail di un brancolare,
fradicio e vinto dal suo vulnus troppo fiero,
vanificando le sue grazie smascherate,
nella vacanza che già segue ad ogni amplesso.
Non venne mai, se non nel brail di un rovinare,
di fretta sfatta, che si abbrevia nel dolore,
vanificando le sue astuzie confessate,
nella discolpa che svilisce, a fine amplesso.
Non venne mai, se non nel brail di un naufragare,
tastando vertebre scucite, come cieco,
vanificando le sue nausee calcolate
nella stanchezza, che santifica ogni amplesso.
Le occorrenze sono disseminate praticamente ovunque e sarebbe quasi superfluo citare passaggi esemplificativi, ma vale la pena evidenziare, nel «corpo a corpo» con Briseide, la parte conclusiva, sopracitata, dove – al di là del trittico associativo-equivalente “grazie smascherate/astuzie confessate/nausee calcolate” (matematicamente posizionato in una scansione che rasenta la perfezione stilistica), tra l’altro amplificato e consolidato da un altro trittico di coloriture semantico-descrittive che perfezionano l’oggetto-soggetto: “nella vacanza che già segue ad ogni amplesso / nella discolpa che svilisce, a fine amplesso / nella stanchezza, che santifica ogni amplesso” – ci tocca riconoscere la posizione preminente dell’incipit “non venne mai” che richiede il suo complemento al “brail (imbroglio)” e il suo completamento a un trittico di verbi all’infinito: “brancolare / rovinare / naufragare”. Ma il vero fulcro, l’elemento che conferisce ordine e senso al discorso poetico, solo apparentemente confinato in una posizione subordinata, risiede in una sola parola: “amplesso”, attraverso la quale le parole-chiave e le variazioni riescono a dotarsi di quell’intensità espansa che caratterizza il diktat carrozziano.
Risulta evidente come la scrittura si possa definire «affrescata». Le parole sono colpi di pennello che inondano e caratterizzano il quadro privato del corpo a corpo con Briseide. La stessa cosa vale, anche se con diverse modalità, per tutti gli «attraversamenti» dell’opera.
Difatti in quest’opera si dovrebbe parlare non solo di logica del discorso (che è comunque chiaramente delineata) ma anche e soprattutto di logica linguistica. Quella logica che si costruisce in un fitto reticolato di accentazioni ritmiche, equivalenze fonematiche, associazioni assonantiche, rime interne, e via dicendo. Gli elementi vengono distribuiti attraverso delle posizioni che potremmo definire basiche e che rappresentano, in un certo senso, i cardini o, se preferite, i punti d’appoggio della struttura. Nell’evoluzione dell’enunciazione vengono poi richiamati (talvolta anche ri-posizionati) per rendere visibile l’estensione e l’espansione. Così viene a formarsi un flusso che scorre. È forse questo il senso primario del poema: l’espansione di un flusso scandito dal ritmo delle variazioni.
Cosa sono le variazioni e quali sono le loro funzioni?
La variazione è il riposizionamento differenziato di un elemento all’interno della struttura e la sua funzione specifica è quella di creare delle relazioni all’interno dell’ordine del discorso poetico. Nel nostro caso specifico le relazioni si evolvono anche in una logica linguistica creando piani simultanei d’enunciazione che si sviluppano a partire da un solo elemento lessicale comune, così come accade ad esempio con la “spina” nel corpo a corpo con Paride o con il sintagma “Quella mattina venne” nel corpo a corpo con Deidamia. Dispositivo simile nella risoluzione ma diverso nel procedimento è quello della serie, quasi incredibile, di equivalenze morfologiche (si legga isotopico-derivative e/o di eguale valenza significante, cioè di quelle parole che potrebbero essere considerate, per così dire, dei sinonimi detti in altri modi) che donano senso e ritmo al corpo a corpo con Teti: l’eredità, l’errore, l’incarnato, il dazio, la saliva, la ferita, la profezia, la colpa, che collegati tra loro dal filo rosso del sangue (“viscere straziate”) ci portano a comprendere come il senso complessivo sia da identificare nel “peso” di “un’offesa”, ovvero di come Teti, nonostante vari tentativi, non riesca a donare l’immortalità a suo figlio.
Queste sono solo poche occorrenze ma tutta l’opera è costruita su una continua, implacabile ridefinizione dei significanti che, tanto per tornare al suono e al ritmo, se scanditi tutto d’un fiato, conferiscono un plusvalore al senso o, se preferite, al significato, ovvero all’intersoggettività conflittuale tra il protagonista e i suoi antagonisti, tra Achille e gli altri esseri che gli permettono di espandere i fili di questa saga interpersonale che si nutre allo stesso tempo di vita e di morte, di dolcezza e bestialità, di amore e odio. Come avviene tutto ciò?
Molto semplicemente attraverso l’uso e l’abuso della corporeità.
Difatti, oltre alle parole campionate si potrebbe parlare anche di un «senso campionato», che è direttamente riferibile al calco fortemente corporeo che segna indelebilmente il corpus testuale. L’uso ricorrente di parole come clavicole, unghie, fianchi, palmi, sterno, tendini, retine, pelle, gambe, denti, anche, caviglie, falangi, lingua, reni, iride, dita, piedi, ecc., non lascia dubbi in proposito.
In quest’opera, dove anche le virgole, i punti, i punti e virgola sono matematicamente ed omogeneamente disposti, tutto appare così «equilibrato» da produrre quasi un effetto di spiazzamento o di spaesamento. Il flusso è costante ed è sempre sostenuto da un ritmo esemplare, non ci sono elementi di rottura o divergenze significative che possano modificare le posizioni dei punti-cardine del discorso e delle frasi cosiddette «campionate». Inoltre i sistemi di convergenze – sia concettuali che formali – rasentano una sorprendente coerenza enunciativa. In buona sostanza, volendo evidenziare solo tre caratteristiche, tra quelle più determinanti, che concorrono a delineare quell’odore di perfezione che pervade la strutturazione dell’opera, dovremmo concentrarci in prima istanza sulla mancanza di cadute di tono, in seconda istanza sul fatto che il simbolico (che in poesia è purtroppo sempre in agguato) lascia volentieri il passo a quello che si potrebbe definire «espressionismo corporeo», e in terza istanza sul fatto che le singole sequenze – sempre collegate tra loro a più livelli – lavorano costantemente all’edificazione di una struttura globale.
In definitiva l’Achilleide di Carrozzo è una macchina d’amore e di guerra (“[…] gli incastri perfetti, / come in guerra e in amore soltanto. […]”), una macchina conflittuale e irrisolta (incompiuta), apparentemente invulnerabile ma essenzialmente fragile perché costruita su un registro di perdite (compianti). Ed è forse per questo che può permettersi di rinvenire sulla carta e di ridefinire il mito, in una sfera sì privata ma non di meno universale.
Ricalcando la stessa Carrozzo che inaugura il poema citando in epigrafe “E Achille incontro la sua ira regina muove inerme / S avvera E inorridito / Resta e vuole svanire”, per chiudere vorrei citare un altro passaggio dalla Pentesilea di Carmelo Bene che mi sembra identificativo di quello che accade qui, in quest’opera: “[…] E stupisce del timbro / della sua voce questa Della forza”.
Forza e intensità. Estensioni ed espansioni. Una poesia che si concede il lusso di fare ed essere letteratura. Cosa abbastanza rara nell’attuale panorama poetico italiano.
[…]
Come un frutto guasto, liberato della buccia,
la polpa molliccia, spremuta, espressa
nelle espressioni urlate del mio viso
fatte distorte da un piacere così forte
da non poterlo più celare.
Che mi torcevo le mani minute, puntute,
conficcando le falangi all’approdo dei suoi fianchi,
senza temere la mia nudità,
se mi teneva e mi tenevo a lui,
nell’assedio assetato delle nostre pelvi inesperte,
ansiose di fiorire.
[…]
© Enzo Campi – Settembre 2016
L’ha ribloggato su Scritture e altre officine.