Marthia Carrozzo “Pentesilea”, da “Piccolissimo compianto all’incompiuto” (Besa Editrice 2016)

Marthia Carrozzo
Marthia Carrozzo

Di MARTHIA CARROZZO

Pentesilea

Regina delle amazzoni, vestirà armi ed elmo da guerriero, con una mammella costretta dalla nascita all’atrofia e compressa sotto il peso di una fascia d’oro ad agevolare il trasporto della faretra e dare più forza al braccio di tendere l’arco. Schieratasi al fianco dei troiani, incontrerà un Achille ignaro della sua identità. Tra i due, però, riscrivendo la versione che del mito riprende von Kleist, sarà lei, ad uscire vittoriosa dallo scontro, nel duello più  temuto e irrinunciabile.

attraverso Pentesilea  (o della resa che umana e che svela)

Non è più nessuna geografia.

Non è e non sa.

Non sa di terra, se lo lecco nel palmo,

non sa la terra, la geometria sghemba delle mie

linee che nessuna zingara riuscì mai a computare.

Nemmeno quella volta

che le mie cagne le fiutarono la gonna,

ringhiandole in cerchio a tenermela lontana.

Nemmeno quella in cui mi disse che l’avrei incontrato.

Non lui, certo. Non allora.

Eppure, già da allora, sin da allora, certo.

E ora.

Non è più nessuna geografia.

Non è e non sa.

Non sa la mappa che apre la rotta

tra le mie pleure e il cuore,

come fossero stati per ore in apnea e affiorassero ora

a ingorgarmi la gola.

Non è più la geometria sbavata delle mie labbra

così ebbre di lui solo un attimo prima.

Non è più la breccia, il varco, il trampolino,

il cavo teso su cui osavo i passi.

Non è e non sa. Eppure.

Eppure sono io più certa. Più che pura.

E sporca del suo sangue e già per questo.

Come un frutto guasto, liberato della buccia,

la polpa molliccia, spremuta, espressa

nelle espressioni urlate del mio viso

fatte distorte da un piacere così forte

da non poterlo più celare.

Che mi torcevo le mani minute, puntute,

conficcando le falangi all’approdo dei suoi fianchi,

senza temere la mia nudità,

se mi teneva e mi tenevo a lui,

nell’assedio assetato delle nostre pelvi inesperte,

ansiose di fiorire.

E ci colammo addosso, addossati alla parete,

lui, Ierofante, di fronte,

a sgranare l’agguato,

a sferrare in più salmi ansimanti il battesimo fiero

ai miei seni votati, vuotati,

alle derive della mia monca maternità,

dove pesava la faretra di traverso.

Strapparmi il verso. Ultimo. Essenziale.

Quasi un vagito, a fare tremule le anche.

E ci cademmo addosso, entrambi retti alla parete,

tessendo trame inaudite di gemiti e zucchero cotto

che candisce al tatto.

Ci spingemmo l’un l’altra sul limite esatto

di un salto slargato che presto lumeggia,

diaframma slentato

da un’eco frammista di fremiti e fama e visioni.

Quell’ultimo verso che albeggia.

Che eravamo divisi, in un tempo, e distanti,

tanto quanto è feroce, nell’ora, la fame

e ferina di assalti e tranelli, ai suoi fianchi,

al costato, cui ora mi accosto in un tango

di lingua e di denti sonanti a segnarlo,

assegnare il mio nome al suo sterno

e saperlo, sapere il sapore nemico

che stride e stordisce,

che mi volta, mai vile, mi tende riversa,

che si versa, alle coste di reni spiazzate

e spezzate a ridurmi polena al mio stesso salpare.

Lui nemico, né amico più caro del cardio che porta,

che più stretto, implorava le dita di batterlo ancora

e percuoterlo al ritmo ossessivo del fiato da sotto,

che chiedeva a gran voce la luce. Tornarci.

E un latrato, fu il solo accadere che orecchio ricordi,

l’indecenza lavata tra lacrime e umori imperlati,

che saliva di freddo alla fronte, trovandomi inetta

a quel taglio di netto e di giorno, che netta le ombre

e le pose concesse, gli incastri perfetti,

come in guerra e in amore soltanto.

Fatto il netto tra i muscoli laceri, sfatti

e i suoi tendini spinti a cercarmi più vera,

a lasciare le orme pregresse al tallone

che tollera ancora l’invidia di chi non ha scelta,

che la preme nel salto e ne schiaccia la testa.

Che la sua è qui con me, tra le braccia

e scolora al passare dell’aria,

con le iridi cielo puntate ai miei occhi

che ora svelano tutto il suo regno,

mi rivelano santa e assassina

mentre veglio il suo corpo e ne vaglio ogni anfratto,

senza fretta, a cercare il passaggio,

il tratteggio che è stato il mio guado.

Feritoia strettissima e cuneo tagliente a far leva,

far levare sui giusti il nitore.

Non è più nessuna geografia.

Non occorre che lui sia.

Non occorre.

Non accorro più, spavalda,

alla conquista del suo campo.

Solo la sua solitudine mi spaventava.

Solo da quella mi difendevo, dal confrontarla

con la mia, ma ora.

Non è più nessuna geografia.

Lui è e lui sa.

Lui è la terra, se lo lecco nel palmo,

che sa di terra, per la geometria sghemba delle mie

linee che nessuna zingara riuscì mai a computare.

Nemmeno quella volta

che le mie cagne le fiutarono la gonna,

ringhiandole in cerchio a tenermela lontana.

Nemmeno quella in cui mi disse che l’avrei incontrato.

Non lui, certo. Non allora.

Eppure già da allora, sin da allora, certo.

E ora.

Che ora sono io.

Che sono io più certa. Più che pura.

Tornata infante a non poterlo raccontare

– Ode alle rose, a non poterne dire il puzzo,

il patio ingombro degli avanzi della festa –

Si torna

per serbare la felicità mancandola di poco.

Rinuncio a lui. Con lei. Non vi trafiggo.

Rinuncio a lei. Con me. Che non si scorda.

Resta.

Mi prostro sul suo sangue e già per questo.

Mi lavo col suo sangue e già per questo.

Mi ama dal suo sangue, sì e per questo.

Vive.

(da: Piccolissimo compianto all’incompiuto, Besa Editrice, maggio 2016)

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Marthia Carrozzo

Piccolissimo compianto all’incompiuto

Su Achille

(se non avesse dovuto portarne il nome)

<< È spesso più facile condursi da eroi attraverso il proprio breve tempo, portare con sacrificio e rettitudine il proprio dovere sociale, che essere amati. Essere amati vuol dire essere stati tanto nudi e coraggiosi e veri da aver accolto il proprio bisogno di essere amati, di riposare nelle braccia di un altro – ai piedi di un altro (“quella mattina venne, / e si tenne accanto ai miei piedi, come sempre scalzi”), è assumersi il rischio della propria integrale vulnerabilità.

È assumersi il rischio di non respingere, di non essere soli, di non essere autarchici e autosufficienti come è Achille, così compreso da Pentesilea, la naturalmente bellissima regina delle Amazzoni, quando, pur guerreggiando, si specchia in lui: “Solo la sua solitudine mi spaventava. / Solo da quella mi difendevo, dal confrontarla / con la mia, ma ora.” >>, scrive Maria Grazia Calandrone, introducendo in “Poesia”, n. 306, luglio-agosto 2015, alcuni estratti che anticipavano questo “Piccolissimo compianto all’incompiuto”.

Ultimo ritratto in versi di Marthia Carrozzo, questo nuovo poemetto è un requiem speso a suggerire un’alternativa possibile e che stavolta ci invita a provare a delineare l’incompiuto per antonomasia: Achille.

Ma un Achille altro, appunto, assente, come assente è la memoria che spesso abbiamo degli incontri destinali, di tutte quelle volte che sarebbe potuto essere e che invece non è stato, per esigenza sociale, per ruolo, per il nostro doverci condurre da eroi, appunto.

Ma nei versi di Marthia Carrozzo, Achille non è più e per destino, l’eroe la cui ira funesta avrebbe addotto numerosi lutti agli Achei, bensì l’uomo, restituito a una fragilità imprescindibile attraverso i sette monologhi in poesia, vivificati nelle riscritture del mito, che ripropongono gli incontri cardine della sua vita: la madre Teti, il comandante Agamennone, la schiava Briseide e l’amata Deidamia. Patroclo, amico fidato e poi Paride che gli avrebbe inflitto la ferita mortale e, in fine, Pentesilea, a ricordarne l’umano, la vulnerabilità malcelata e benedetta che avrebbe potuto farne un uomo altro, se solo avesse potuto, se solo si fosse potuto sottrarre a quel nome.

Come un Cristo trasposto, anticipato dall’archetipo più prossimo, la profezia puntuale e improrogabile di un vulnus che si svela solo in fine, Achille appare e ci mostra, dunque, nella parte più viva e mai assolta o redenta di noi, senza distinzioni di genere, là dove è il corpo per primo a cercare se stesso, se non nel dolore che ciascuno di essi arreca: nell’imporre, il maschile; nel non poter salvare, pure tentando, il femminile, in quella minima parte, alle spalle, in basso, sottratta per errore apparente a un eroismo preordinato eppure, per fato, lasciata ultima, sotto la pianta di un passo decisivo che si esponga, “a lasciare le orme pregresse al tallone  / che tollera ancora l’invidia di chi non ha scelta, / che la preme nel salto e ne schiaccia la testa.”, in quell’intercapedine tra umano e divino in cui solo sa attecchire, da sempre, il seme incontrollabile dell’amare.

cd audio: voce: Marthia Carrozzo

 musiche originali: Samantha Bertoldi

Marthia Carrozzo

Scrive e vive a Firenze, Marthia Carrozzo,  poetessa d’origine salentina, è attrice e autrice di testi per la musica e per il teatro. La sua formazione teatrale la induce, sin dagli esordi, in una ricerca poetica personale che si propone di restituire la parola al corpo tutto, farla risuonare in esso,in ogni verso, sino a fare dei suoi testi, quasi spartiti di fiato e voce. Si occupa di riscritture di miti, restituiti e riattualizzati in chiave contemporanea. Il suo ultimo lavoro di teatro poesia è “Calicanthùse”, da una sua riscrittura in versi  di Jean Genet su Sabra e Chatila, con le musiche di Rocco Nigro e la partecipazione di Nabil Salameh dei Radiodervish. Presente in diverse antologie, tra cui 7gates. XIV Biennal of young artists from Europe and the Mediterranean Catalogue” (Mondadori Electa 2009) “Rosso, tra erotismo e santità” (a cura di Vanni Schiavoni, LietoColle, 2010);

 Del 2007, la sua prima silloge, “Utero di Luna”, Besa, con prefazione di Alda Merini. Del 2009, “Pelle alla Pelle, dimore di mare e solo sensi”, LietoColle, con prefazione di Gabriella Rusticali; Del 2012, il suo ultimo ritratto in versi, il poemetto: “Di bellezza non si pecca eppure – Trilogia di Idrusa”, Kurumuny, con prefazione di Lello Voce, oggetto di studio e traduzione nel IV Seminario Internacional sobre Lengua y Literatura, presso la Facultad de Letras de la Universidad del País Vasco in «Modos del intimismo y del erotismo en la poesía contemporánea” del Professor José María Nadal. Nel 2012, è vincitrice della 19^ edizione del Premio Nazionale di Poesia Inedita “Ossi di Seppia”. Partecipa a Festival e Rassegne di poesia nazionali e Internazionali. Nel 2012, apre il Next, La Repubblica delle idee, al Teatro Petruzzelli di Bari. Dal 2014, tiene, periodicamente, con la Dottoressa Lizia Dagostino, “Versi e camminamenti – Coscienza e conoscenza di sé attraverso la poesia”. Ha rappresentato l’Italia al 2nd. Σαρδάμ / Sardam: alternative literary readings festival, 2004, a Cipro e a Barcellona nel 2015 per “aMare Leggere” Crociera Letteraria, Festival di Letteratura per ragazzi sul mare. Si è classificata seconda al 1° Poetry Slam trasmesso dalla Rai dal Tempio di Adriano, Roma, per Ritratti di Poesia 2015. Estratti, in anticipazione, di questo suo ultimo lavoro di riscrittura, “Piccolissimo compianto all’incompiuto”, sono in “Poesia”, mensile internazionale di cultura poetica (Crocetti Editore) n. 306, luglio/agosto 2015, con una nota di Maria Grazia Calandrone.

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