
Di ALESSANDRO SICILIANO
1.
La Cosa è il vuoto di essere da cui origina il desiderio. Spazio mitico perché impensabile, più ci si approssima a questa zona, più i concetti, le impalcature teoriche sul bene e sul male, il giusto e lo sbagliato, il bello e il brutto si condensano e confondono. Il senso dell’io si perde, si disordina. Dice Elvio Fachinelli, nelle belle pagine de La mente estatica: «Nel centro del vuoto, quando l’io si perde, pienezza. Il vuoto si capovolge in pieno; l’assenza in presenza. Totale cambiamento tra il prima e il dopo. Vuoto non è simmetrico di pieno».[1] Ma cosa significa ‘avvicinarsi a questa zona’? Non è un caso che Lacan (ma prima di lui Freud e prima ancora Nietzsche) prenda l’arte e la religione come i due paradigmi di riferimento per inquadrare il rapporto dell’umano col proprio vuoto. Ci troviamo precisamente al livello dei fenomeni estetici e religiosi, in cui si cerca di dire qualcosa del o far dire qualcosa all’ineffabile dell’esistenza.
E’ d’altro canto chiaro come sia necessario, per l’istituzione della vita umana, studiare distanze, rapporti e compromessi con questa alterità radicale, al fine di attingere alla sua forza – energia psichica che vivifica e muove un corpo soggettivato, in definitiva desiderio – imprimendo allo stesso tempo una forma ad essa, prima fra tutte la forma del legame sociale e del desiderio dell’Altro. Dall’arte e la religione, saltiamo così all’economia – certamente economia libidico-pulsionale così come Freud ce la insegna.
Nel seminario che prendiamo come riferimento, Lacan si dedica allo studio di due barriere poste tra il vuoto di Das Ding e l’individuo, di cui la prima, la più distante dal vuoto, ha a che fare proprio con il campo dell’economia e del potere. Si tratta della funzione del bene, che tiene l’uomo a una certa distanza dal suo desiderio, trasfigurandolo in bisogno e tamponandolo qua e là con i beni di consumo. La funzione del bene, dice Lacan, è l’ambito del potere, cioè la possibilità per altri di darmi o sottrarmi i miei beni; è l’ambito dell’amministrazione del godimento, in cui il godimento è contabilizzato e distribuito, potremmo dire, in modo economico-politico.[2]
La seconda barriera, che prenderemo qui in esame, ci avvicina maggiormente al cuore pulsante di Das Ding. Il bello, velatura trasparente sul reale.
La vera barriera che ferma il soggetto davanti al campo innominabile del desiderio radicale in quanto è il campo della distruzione assoluta, della distruzione al di là della putrefazione, è precisamente il fenomeno estetico in quanto è identificabile con l’esperienza del bello – il bello nel suo fulgore, quel bello di cui si è detto che è lo splendore del vero. E’ evidentemente per il fatto che il vero non è tanto grazioso da vedere che il bello ne è, se non lo splendore, perlomeno la copertura.[3]
Lacan prova a descrivere una soglia, al di là della quale ci sarebbe “il campo della distruzione assoluta, al di là della putrefazione”, coincidente con il “desiderio radicale”. E’ in definitiva il desiderio di morte?
Si delinea già qui ciò che sarà maggiormente approfondito negli anni successivi al 1959-1960, nel prosieguo dell’insegnamento dello psicanalista parigino. Esiste un rapporto tra desiderio e godimento, per così dire, di diritto e rovescio; tale è la linea che Lacan segue in questi anni. In un testo coevo, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, dice: «La castrazione vuol dire che bisogna che il godimento sia rifiutato perché possa essere raggiunto sulla scala rovesciata della Legge del desiderio».[4] Il desiderio ha dunque una sua propria legge, ampiamente descritta nel seminario sull’etica e che trova una rappresentazione eccellente nella figura di Antigone, che sposa il suo desiderio radicalmente e si vota alla morte. Il desiderio sarebbe qui un godimento al rovescio, rifiutato come Cosa e “raggiunto” in modo, potremmo dire, sublimato. In un altro scritto del 1964, dice Lacan: «[…] il desiderio viene dall’Altro, e il godimento è dal lato della Cosa».[5] Se utilizziamo queste due formule, possiamo concederci una schematizzazione molto elementare, in cui avremo da una parte il desiderio nella sua classica accezione di desiderio dell’Altro – orientato e in dialettica con l’Altro, il desiderio di amore, di riconoscimento da parte dell’Altro – e dall’altra ciò che Lacan definisce nel Seminario vii “desiderio radicale”, il campo incandescente della Cosa in cui il soggetto rischia la “distruzione assoluta”. Questa seconda accezione del desiderio prenderà il nome proprio di “godimento”, che come dice Lacan è sempre dal lato della Cosa. Dunque “desiderio” è il significante che utilizziamo quando ci rappresentiamo il rapporto soggetto-Altro, “godimento” per il rapporto soggetto-Cosa. Va da sé come desiderio e godimento siano contigui; il rapporto tra questi due sacri motori interesserà Lacan fino alla fine del suo insegnamento.
Dicevamo del desiderio radicale, sul quale siamo messi all’erta. Da Freud a Lacan, sappiamo che il desiderio è qualcosa da cui l’uomo, pur anelando continuamente alla sua realizzazione e concisione, prende le distanze. Il soggetto ha da tenersi a una certa distanza dal campo “innominabile del desiderio radicale in quanto è il campo della distruzione assoluta, della distruzione al di là della putrefazione”. In effetti, la putrefazione è il luogo di coltura di una vita che prolifera ancora, ancora vita, ancora movimento. Coincidere invece con la causa, abitare il punto di scaturigine del proprio desiderio, la radice del proprio desiderio, significa in termini psichici essere morti, ovvero essere troppo vivi, dove con “vita” dobbiamo intendere qui la vita del corpo pulsionale, la vita del godimento slegato dall’Altro, la vita che si vive fuori legame, non assoggettata. «Morte che sconfina nel dominio della vita, vita che sconfina nella morte».[6] Se il godimento è dal lato della Cosa e non dell’Altro, allora il godimento in quanto tale è uno slegame dall’Altro, un movimento di separazione.
Per poter parlare propriamente di desiderio, e per poterne essere mossi, bisogna che il soggetto tenga una certa distanza dalla Cosa. Il desiderio è un campo vivibile solo a una buona distanza dalla Cosa. Clinicamente parlando, quando il soggetto coincide con la Cosa siamo nella catatonia.
2.
Dalla Cosa come vuoto, siamo ora a intendere la Cosa come pieno, come eccesso di vita. Lo spirito della contemporaneità, e con essa una certa linea dell’arte contemporanea, rivolgono maggiormente l’attenzione a questa versione. Lo si vede bene nel classico esempio della Body art, in cui viene inscenata l’esposizione orrorifica della Cosa. (Anti)estetica dell’informe, come la definisce Massimo Recalcati.[7]
Il soggetto può “fermarsi” proprio davanti a questa zona liminare, luogo del fenomeno estetico. La funzione del bello, barriera più prossima alla Cosa, è di provare a dire qualcosa del reale crudo della vita, ma anche e soprattutto di renderlo sopportabile, appunto bello; un’operazione paradossale per cui il valore del bello scaturirebbe proprio da quella atrocità da esso velata. “E’ evidentemente per il fatto che il vero non è tanto grazioso da vedere che il bello ne è, se non lo splendore, perlomeno la copertura”, dice Lacan nel passo che abbiamo citato. L’opera d’arte, in questo senso, può essere definita tale solo se è in contatto con la dimensione reale dell’esistenza.
E’ chiaro come un tale posizionamento sia quanto meno problematico, se pensiamo che l’incontro con il reale è sempre mancato. Ciò che l’artista, alle prese con la bellezza, si prefigge di realizzare è uno spazio, una rappresentazione – che abbiamo detto essere dal lato del simbolico-immaginario, dal lato del significante – che si lasci attraversare, lacerare da qualcosa del reale. Il rapporto dialettico tra la forma e la forza è qualcosa di «mai risolto una volta per tutte», dice Recalcati:
Il problema maggiore non è quello dell’immagine della bellezza che deve scongiurare l’incontro con l’orrore e con il Terrificante, bensì come un’immagine possa incaricarsi di manifestare il reale in una sublimazione che non sia semplicemente distruttiva, ma capace di integrare continuamente – in un movimento mai risolto una volta per tutte – la forza dell’informe nella forma. […] Non si tratta di negare il brutto del reale, il suo carattere informe o amorfo, ma di trasportare questo reale verso una forma possibile.[8]
Il bello costeggia il vuoto di Das Ding, ne organizza il bordo e ne lascia trasparire il vero. L’opera d’arte resta dunque in rapporto con l’Altro, col sistema del significante, accettando di assumere una forma fruibile, osservabile, bella, ma allo stesso tempo porta con sé qualcosa dell’universalità del reale. Da un lato essa prende parte al mondo umano – è dipinta su una tela, proiettata su uno schermo, scritta su carta –, si declina nei codici dell’Altro, dall’altro taglia i ponti con questo Altro, con la tradizione, comunica col vuoto. La creazione in questo senso è sempre ex nihilo. Tale è la prospettiva creazionista lacaniana: uno dei nomi del reale è il nulla, il nulla cosmico, da cui solo può emergere l’atto creativo.[9] E’ il carattere di novità dell’opera d’arte, ciò di cui non si era mai visto nulla di simile prima e che dunque rievoca il tempo mitico dell’origine – tanto del soggetto quanto del significante, tempo coincidente.
«Perché vi sia il miracolo della forma» dice ancora Recalcati «è necessaria l’esperienza dell’incubo e dell’incombenza della morte».[10] Incubo, morte, distruzione al di là della putrefazione, sono in fondo tutte espressioni (al di là della loro valenza angosciosa) del reale dell’esistenza. Ora, la caratteristica peculiare del bello sarebbe di portare il soggetto ad affacciarsi su un abisso, l’abisso del desiderio radicale, desiderio cioè di ricongiungimento col nulla a cui si è stati strappati e da cui ci siamo differenziati, col vuoto dal quale si proviene e che ci abita. Nella sua forma più radicale, più immediata, il desiderio è infatti desiderio di morte, dove con ciò non si deve intendere un desiderio che spinge l’uomo contro sé stesso, verso la morte biologica (che pure è ravvisabile in moltissime condotte umane in cui si sonda la zona di confine tra vita e morte), ma che lo attrae verso ciò che Lacan nel Seminario vii definisce «la seconda morte»,[11] il silenzio al di là della vita e la morte, l’ex nihilo, l’insensatezza ultima del reale.
Quella che Recalcati definisce «ideologia dell’informe»[12] sarebbe in questo senso una tendenza anti-estetica, un arrendersi al reale insensato e un abbandono di ogni tentativo di comunicazione così come di bordatura della Cosa. Le tendenze antiestetiche dell’arte contemporanea sarebbero un tentativo di far collassare i luoghi del sublime e del bello in favore di un accesso diretto, senza mediazione alcuna, alla Cosa – movimento impossibile, dal momento che la Cosa è in realtà un luogo mitico. L’Origine è, in Lacan, concepibile solo come assenza, sempre cancellata, sempre già toccata dal significante.[13]
Come giustamente rileva sempre Recalcati, la teoria estetica proposta nel Seminario vii è attraversata da una venatura profondamente nicciana. Il bello è sempre esperienza del limite, ultimo velo sul reale. In Nietzsche una tale concezione dell’esistenza attiene all’esperienza dionisiaca della vita, per cui «solo come fenomeno estetico l’esistenza del mondo è giustificata».[14] Ma già in Nietzsche, come in Lacan, non esiste una contrapposizione netta tra mondo dionisiaco e mondo apollineo, essendo il primo sempre formalizzato (per la Grecia antica, nella forma della tragedia) dal secondo e il secondo sempre al lavoro sul primo. L’opera non ha carattere di evento se non è in contatto con la Cosa; allo stesso tempo, se l’opera non si rivolge all’Altro, risulta autistica, inesistente in quanto non vista. La tensione è sempre quella: l’arte è la zona d’ombra del soggetto che frequenta le prossimità della Cosa, resiste al suo vortice e ne racconta qualcosa.
[CONTINUA]
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[1] E. Fachinelli, op. cit., p. 30.
[2] J. Lacan, Il Seminario. Libro vii, cit., pp. 257-270.
[3] Ivi, p. 255.
[4] Id., Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano (1960), in Scritti, cit., vol. 2, p. 830.
[5] Id., Del Trieb di Freud e del desiderio dello psicoanalista (1964), in Scritti, cit., vol. 2, p. 857.
[6] Id., Il Seminario. Libro vii, cit., p. 291.
[7] M. Recalcati, op. cit., p. 68 sgg.
[8] Ivi, p. 44.
[9] J. Lacan, Il Seminario. Libro vii, cit., pp. 137-151.
[10] M. Recalcati, op. cit., p. 46.
[11] J. Lacan, Il seminario. Libro vii, cit., p. 341.
[12] M. Recalcati, op. cit., p. 68.
[13] Sarebbe importante, d’altro canto, indagare tutta una dimensione ideologico-politica che nelle analisi di Recalcati è poco considerata. Quando, come e perché nasce questo insozzamento del luogo del sublime? Che parte ha la critica politico-sociale al sistema dell’arte, alla sua industrializzazione, all’intromissione e influenza del mercato? Che storia ha il fenomeno del brutto? Che rapporto c’è tra giudizio estetico e politica?
[14] F. Nietzsche, op. cit., p. 9.
Un pensiero su ““La funzione del bello. Il soggetto a un passo dall’eclissi”, cap. II da “Il vuoto al centro del reale” di Alessandro Siciliano 1/2”