Affermare che la musica non ha generi, che la musica è bella o brutta, è di sicuro una maniera un po’ sbrigativa di commentare l’attuale confusione fra i generi musicali, l’attuale sincretismo musicale. Il latore di un simile giudizio si espone al rischio di vedersi rimproverato un manchevole o modestooutillage critico. Se dunque a parlare così, o quasi, è uno dei maggiori critici musicali italiani, c’è da restarne stupiti. Bortolotto, intervistato qualche tempo fa per Repubblica da Franco Marcoaldi (il 18 agosto 2014), è piuttosto netto: la distinzione tra musica colta e musica leggera non è chiara; bisognerebbe scriverci sopra «un grande capitolo di estetica a riguardo, ma nessuno si è mai sognato di farlo»; infine: «basterebbe tornare alla vecchia idea della musica bella. E nella musica bella non vogliamo metterci Cole Porter, Gershwin, Édith Piaf?».
Ora, che cosa intende Bortolotto per ‘musica bella’? La domanda appare tanto più interessante solo che si ponga mente al fatto che, nella musica, ha trovato spazio il brutto o, per dirla con Nietzsche, la «bruttezza interessante». È una cosa che Bortolotto sa bene e sa bene che questa ‘scoperta’ Nietzsche la attribuisce proprio ai musicisti. Aforisma 239 di Aurora: «I nostri musicisti hanno fatto una grande scoperta: la bruttezza interessante è possibile anche nella loro arte. E così si buttano in questo aperto oceano del brutto, come ebbri, e mai fino a oggi era stato tanto facile far della musica». La scoperta del brutto non è che la scoperta del contrasto e del suo effetto: la bella frase musicale risalta meglio dopo il fracasso della tempesta: «Oggi soltanto si osa portare l’ascoltatore nella bufera e nel tumulto, e mozzargli il fiato, per dargli, dopo, un senso di beatitudine, immergendolo per un attimo nella pace, sentimento questo che favorisce in genere l’apprezzamento della musica» (Nietzsche,Aurora, Milano, Adelphi, 1964 e 1978, p. 166). Effetto «a buon mercato» lo definisce Nietzsche e si azzarda a pronosticare un futuro brevissimo per un arte che ricorre a questi mezzi. Ma Nietzsche dimentica i patti di Dioniso con Apollo e che la musica veicola, sin dall’inizio, il brutto, lo addomestica.
Il bello musicale è dunque anche il brutto musicale. Bortolotto sarebbe d’accordo. Si sa che Ravel dissuase Gershwin dal proposito di farsi impartire lezioni da lui: «Perché diventare un Ravel di second’ordine quando siete un Gershwin di prim’ordine?» avrebbe detto. L’ansia di perfezionamento tecnico e una lezione in più di contrappunto avrebbero privato il musicista americano della sua interessante fisionomia, di quel suo ‘brutto’ di sicuro effetto. D’altra parte nemmeno Ravel, il deformante Ravel, è un esempio di bello musicale… Se il bello è il brutto (come ammetteva Ernest Hello strappandosi i capelli), se Cole Porter o la Piaf sono più significativi di tanti musicisti ‘colti’ o ‘accademici’, allora è abbastanza chiaro che la musica davvero brutta, quella che fa dire a Bortolotto che basterebbe tornare alla musica bella, non è che la musica senza effetti, la musica improduttiva e autoreferenziale, la musica che non sperimenta (pur definendosi, delle volte, sperimentale). Una musica che si condanna a un malinconico cupio dissolvi per paura di compromettersi troppo col mondo, di accogliere il ‘moderno’ – nel senso di Baudelaire, ovviamente.
Credo che sia questo, all’incirca, il pensiero di Bortolotto. Non è un caso, credo, che se la prenda con il teatro d’opera: «L’opera – dice – è in una crisi totale, con prospettive davvero poco lusinghiere. Per contro, i giovani compositori sono eternamente tentati di continuare l’opera dei padri e avere tutti i vantaggi del caso, nient’affatto piccoli: a fronte di costi incredibili, non meno incredibili introiti. La forza di attrazione, quindi, è a dir poco magnetica. Che poi non si riesca mai, o quasi mai, a produrre qualcosa di significativo, è un altro paio di maniche». Forse bisognerebbe prendere atto dell’esaurimento di talune forme espressive e dell’opera in musica in particolare. A nessuno oggi, rileva Bortolotto, verrebbe in mente di scrivere un poema eroico o cavalleresco. La carriera di un libertino, un’opera del 1951 di Stravinskij, per esempio, già manifesta una tangibile fragilità: «Stravinskij ci offre cose che l’opera tradizionale non potrebbe più darci, ma in compenso paga prezzi altissimi. La manipolazione introduce elementi involontariamente comici in un contesto che vorrebbe essere tragico, o quantomeno drammatico». Una vecchia polemica settecentesca irrideva il teatro musicale facendo notare l’inverosimiglianza del morire cantando. Francesco Algarotti (1712 – 1764) osservava che morire recitando versi è, perlomeno, altrettanto inverosimile. Non è la verosimiglianza a costituire qui il problema; il disequilibrio è tutto interno al ‘congegno’ se il libertino in questione finisce per parlare o agire come un ragazzo qualunque.
Perché il problema sta davvero tutto qui: la musica – come ogni forma d’arte – non può parlare il linguaggio della quotidianità né ripetere, pari pari, le formule elevate del suo passato; deve invece cogliere del mondo, e nel mondo, i segni, gli indici e le memorie, e rielaborarli, attraversarli musicalmente. Solo così produce degli effetti. Che sia questo il ‘bello’ della musica?
Vorrei chiudere con una sapida pagina di Giuseppe Pecchio (1785 – 1835) che traggo da una sua dissertazione (il testo è stato ripubblicato da Studio Tesi con il titolo Della produzione letteraria). La musica, scrive Pecchio, «prenderà sempre più o meno la tinta del cielo, del governo, degli uomini, del caso. Ma vi sarà della musica bella nel suo genere. Così in Inghilterra, dove si va in chiesa per concentrarsi e non per adocchiare e amoreggiare, vi sarà la più bella musica sacra, quella di Kandel [sic]. In Germania, dove si ha la pazienza di ascoltare per molte ore delle suonate dotte e profonde, vi sarà la più dotta musica istromentale, quella di Hayden [sic]. In Italia, dove vi sono belle voci, melodie naturali, e si ama sprecar la notte fra gorgheggi e le arie melodiose, vi sarà una musica vocale, degna del Paradiso, quella di Sacchini, di Cimarosa, di Rossini eccetera» (G. Pecchio, Della produzione letteraria, Pordenone, Studio Tesi, 1985, pp. 58-59).
Giusta riflessione.
Mi permetto di sottolineare che Bortolotto, in quella semplice frase iniziale citata da Leone, commette anche un altro imprudente errore, quello cioè di chiamare “musica leggera”, automaticamente, ciò che non è “musica classica”. Si tratta di un puro pretesto per avanzare poi la sua idea sulla musica bella e negare così quella divisione manichea, ma tale divisione, oggi, dopo trent’anni di studi sulla popular music, fa rabbrividire anche qualora sia solo un pretesto. Perché Cole Porter ed Édith Piaf vengano messi nello stesso calderone, insomma, lo sa solo lui.
L’ha ribloggato su pensiero puro e libero.
Un bel post come del resto tutti quelli di Lorenzo Leone che seguo con piacere. Sull’argomento ci sarebbero non qualche ma montagne di considerazioni da fare volgendo ,lo sguardo alla Caporetto della musica in generale e di quella italiana. in particolare i cui nuovi Dei sono i registar e directstar. I nuovi autori non vengono suonati nè messi in scena. Colpa loro o colpa della ideologia imperante ARTEARTEARTECULTURACULTURACULTURA?
Mi sembra improponibile un tale dualismo, quando invece si dovrebbe considerare la questione da tutt’altro punto di vista. Innanzitutto l’espressione musicale porta con sé un intero entroterra culturale pertinente alla collocazione sociale di chi si fa “portatore”. E qui segue ciò che Leone giustamente indica come segni, memorie e indici che producono un effetto. La rielaborazione poi si fa più vasta e ricca quanto tale è chi la attua – o anche (forse meglio) chi si lascia agire. Le influenze facili e accessibili del mondo virtuale rendono finalmente possibile questa ricerca completamente “free”. E così la contaminazione apre le porte a sempre più unici “mood”, per usare un termine di Ricoeur – le cui analisi ritengo siano imprescindibili per qualsiasi riflessione del genere, non solo sul versante musicale. La verità è che oggi si può fare davvero di tutto, e senza il bisogno di un’autorità mediatrice. L’unico problema è ri-cercarsi e ri-trovarsi in questa pletora d’infinite manifestazioni e combinazioni. Al commercio mediatico si affida invece il prodotto destinato al consumo di massa, che fa leva sulla semplicità grossolana del fruitore medio, sull’ignoranza che s’arrangia e s’accontenta di quanto gli viene “offerto”, anche se poi si tratta di una vera e propria imposizione che parte dalla culla, un precario modo di fare che si afferma persino come legittimo e vantaggioso – economico. So di non esser stato molto chiaro, e soprattutto completo. Mi preme però sottolineare che il gusto estetico non può non partire dalla persona e dall’ approccio che vi consegue, è frutto d’influssi culturali, sociali, ambientali e va di pari passo con la propria evoluzione, la propria ricerca, il proprio domandarsi. Per contro, il gusto estetico può essere un mezzo efficace per immergersi nelle diverse atmosfere che un brano – uno scritto, un dipinto, un film – evoca, per esercitare l’empatia o anche solo una vaga immaginazione emotiva. Ma per far questo bisogna eccitare l’estetico in toto, al di fuori dell’etico che costringe la persona all’incoerente unicità. Io personalmente percepisco quello estetico come il campo più autentico dell’ironia, laddove la persona si dissolve per lasciar spazio al suo carnevale d’estetiche disposizioni, che non precludono però l’accesso a un sentire autentico. Mi scuso per queste riflessioni a tratti inopportune e forse prevedibili quanto banali, ma ci tenevo a puntualizzare alcuni aspetti fondamentali di questa situazione – presentata efficacemente da Leone, in risposta a quanto detto da Bortolotto.