
1999, American Beauty: non narra solo cose brutte, è brutto di per sé. Vincitore di cinque premi Oscar. 2014, La Grande Bellezza: non narra solo cose brutte, è brutto di per sé. Vincitore di un Oscar.
Sembra quasi che gli esseri umani, messi di fronte alla visione coatta delle proprie sordide meschinità, non sappiano perdonarsele altrimenti che premiandosele, coccolandosele, tenendosele per buone.
La messa a nudo sociale, in questi film, sta solo nel fatto che ambedue citano nel titolo la “bellezza” dove non c’è: nella fattispecie, nella mente dei registi e della gente che andrà a vederli al cinema. Io la chiamo “la sindrome de La vita è bella“, citando il film più orrendo, offensivo e ignobile mai girato da un italiano. Guarda caso, anch’esso nomina nel titolo una bellezza che non c’è, anch’esso ha vinto un casino di Oscar, anch’esso è passato per un capolavoro. E’ il segno dei tempi, ragazzi.
Sonia Caporossi
Un film esteticamente affetto da coazione a ripetere (vedi movimenti di macchina ossessivamente dilatati, tesi a mostrare un peri-molto-patetico Jep Gambardella, in tenuta Disney, che osserva straniato e straniante le nefandezze/bassezze umane di una Roma fellinianamente vivisezionata e disumana), un’opera squallidamente ancorata ad una visione del vuoto cosmico, germinante nel sottobosco della pseudocultura, nitidamente superata dai tempi. Un film dunque che di grande bellezza ha soltanto il suo ossimorico, cristallizzato, opposto, essendo popolato da personaggi cristallizzati in un florilegio di citazioni da brivido, smaccatamente ridondanti, stucchevoli, per eccesso di significanza. Una magnifica, grande, perfetta assenza di bellezza domina infatti tutto il cursus del film, il cui mostrare, attraverso gli occhi dello stralunato e assai ripetitivo Servillo, la nullità pulsante e tangibile della classe dirigente diviene un gioco al massacro che lo spettatore abbandona subito al terzo cambio di occhiali e di giacca del protagonista- e alla terza passeggiata notturna alla Mamma Roma del simpatico, occhialuto, Jep Gargamella, non me ne vogliano i Puffi – dopo aver scambiato la Ferilli, incartata in un completino color carne, per un cotechino che occhieggia con accento ciociaro fra il baluginare di una terrazza. Consigliato a tutti i devoti della fotografia da Mulino Bianco edizione Banderas…
Antonella Pierangeli
Tornando al film di Sorrentino: il film sarebbe bello, in un’altra storia, in un altro tempo. In questa storia e in questo tempo, sul film si appuntano una serie di meccanismi di proiezione psicologica, per cui: in primo luogo, la classe “dirigente” o “intellettuale” che in esso si rispecchia, vi trova riflessi dei tic sociali e delle meschinità la cui sostanza umana degradata è talmente ovvia da risultare ridondante; il grande pubblico nazional-locale sente il tutto come estraneo, o si lascia abbagliare dallo scenario monumentale, o dalla natura (anche dalla natura femminile, convenientemente esposta e sempre consegnata per tempo alla morte senza realizzarsi, e dunque esorcizzata: vedi il personaggio della Ferilli, teso fra una giovinezza-memoria e un non futuro). Il film in sé racconta di un’umanità mediocre, che esorcizza la bellezza perché incapace di sopportarla: ne è portavoce ovvio lo stesso protagonista, una cristallizzazione del vecchio personaggio pirandelliano dello scrittore che sdegna di scrivere, incrociata con la versione anziana del seduttore alla Kierkegaard. Un film perfetto per l’estero -non a caso vince l’oscar. La ricezione che se ne ha qui, in questa periferia d’Occidente che è questo nostro centro scentrato, è l’ironico destino di un’opera la cui risonanza mediatica, fatta di apprezzamento che non comprende e di nausea proiettiva, si traduce in un ulteriore atto di esorcismo, fra rimbombo dei media -fin nella pubblicità FIAT (industria non a caso finita all’estero)- e saturazione intellettuale. In questo momento storico, in Italia, questo film ha la stessa forza pragmatica di un pugno sferrato nello stomaco di un’ameba.
Daniele Ventre
Non ho guardato La Grande Bellezza su Canale 5, sebbene Sorrentino sia senza dubbio il mio regista contemporaneo preferito. Non l’ho guardato per il paradosso intrinseco di un canale di proprietà di un Gambardella in carne, ossa e cerone che lucra (non solo economicamente, ma, ciò che è peggio, ideologicamente) mandando in onda un film che di tal Gambardella stigmatizza le miserie e le meschinità. Non avvertire lo stridore dell’operazione, o peggio, avvertirlo ma soprassedervi, è una sconfitta cocente del pensiero critico: il messaggio profondamente politico del film è svilito, pervertito, ricacciato in una retorica estetica, per meglio dire cosmetica, del tutto innocua e inefficace. E così vedi i bersagli critici del film lodarlo nei salotti televisivi, non sai se con tristezza consapevole, con cieca idiozia, programmatica negazione della realtà, o un misto sconcertante di tutte e tre.
Andy Violet
Sì ok, ma basta mettere “la grande bellezza” come didascalia a tutto. Ci sono anche dei sinonimi, che ne so, l’ampia gradevolezza, la vasta eleganza, l’estesa avvenenza, ecc.
Claudia Boscolo
A giudicare dai post qui sono l’unico in Italia a cui è piaciuto La Grande Bellezza. Mi devo preoccupare.
Alessandro Raveggi
La grande bellezza: un video clip barocco, ma con le luci fiamminghe, in una roma monumentale (e barocca) dove il tempo della ripetizione ha mangiato il tempo della novità e l’inettitudine novecentesca ritrova il suo nido. Grande allegoria dell’Italia parassitaria contemporanea, senza speranza. Molto bello.
Stefano Guglielmin
Per me la “Grande Bellezza” è ascoltare l’assolo di Starway to Heaven di Jimmy Page.
Marco Saya
L’ho trovato sconvolgente, inverosimile e reale. non mi è piaciuto, ma solo nel senso che sarebbe grave farsi piacere la visione di una triste caduta dell’Impero Romano con le sue mummie gozzoviglianti. quello che non piace è la verità del film, il contrasto tra le rovine di una ormai perduta tradizione di bellezza e la degenerazione intellettuale e sociale di una nazione che crolla, appunto, insieme alle rovine della sua vetusta memoria.
Natalia Castaldi
Paolo Sorrentino dice di essersi ispirato a Maradona. Poi Equitalia gli pignora l’Oscar.
Spinoza.it
Direi che tra adulatori e detrattori de La Grande Bellezza, il rigonfiamento testicolare è indicibile. Bei tempi quando a vincere l’Oscar era quell’ignobile e insulso polpettone de La vita è bella e tutti s’era d’accordo.
Heman Zed
Se Vecchioni avesse vinto il Nobel per la letteratura, ci sarebbe stata la terza guerra mondiale, che dire? Avete tutti la pancia piena.
Marco Saya
Un paese di allenatori con la vocazione di critici cinematografici in cui mi riconosco benissimo.
Fabio Milazzo
Improvvisamente gli Italiani sono tutti esperti di cinema, fotografia, sceneggiatura e regia. Che popolo meraviglioso!
Raimondo Santiprosperi
True detective, la grande bellezza ma che roba di lusso, dio cristo, pure senza Roma dentro.
Alessandro Zannoni
Ciao ho scritto una brutta poesia e volevo condividerla con voi. Ho guardato La grande bellezza per vedere quanto sto indietro a livello di arte. Ciò che posso dire è che mi ha ispirato questa brutta poesia, anzi, forse me l’ha ispirata la prima mezz’ora di Must be the place, a non ne sono sicuro (poi ho spento, troppa TV e troppo Sorrentino tutto insieme no).
Certe notti di sole anticipato
ti rincorre un mostro di pensiero
mentre la grande scala svanisce.
Invece contiene come uno specchio
l’indietro della tua ombra altre uscite
che non hai saputo vedere, ma che ora
tutte insieme riesci ad attraversare.
Come fai, ti sei chiesto, ma la risposta
è sempre un gesto ormai tradito,
la riposta è il corpo lasciato nell’infanzia,
trasmesso dall’inerzia di un troppo tardi
al futuro che non sposta come il tempo.
Tu rimani solo la tua entrata, con te stesso
dentro un ciclo inopportuno. Mentre il mondo
– quello spesso alternativo – entra in fondo
certe notti, quasi fosse un credo ben più vivo.
Antonio Bux
Mi dispiace ma siete tutti parenti di Jep Gambardella. Criticate, criticate, fate dell’ironia.. ma siete imprigionati dentro il film, ahahah.
Renzo Paris
Renzo lo sa per esperienza, che una critica è sempre un invischiamento.
Sonia Caporossi
Simpatica…anche se preferivo un altro mio commento dove annotavo che oltre alla frase sui trenini che non portano da nessuna parte avevo apprezzato molto anche i titoli di coda, lunghissimi e finalmente senza dialoghi ma solo con immagini romanesche. Comunque era questo più un post sulla bruttezza di una poesia ispirata da un brutto momento esistenziale 🙂 però fa lo stesso 🙂
L’ha ribloggato su poesiaoggi.
La Grande Bellezza del Reale
15 luglio 2013 alle ore 17.48
Il processo è chiuso – la sentenza è più che aperta, la situazione che una realtà tentata dal suo duplicarsi, può innescare. Tra un reale ansiogeno e traumatico, arrossato, e la sua conseguente affezione livida e monocroma, scorre il divenire di una cogitazione che s’incarichi, anzi, si carichi dell’ispezionare e distribuire e rassicurare doti e compiti.
Solo un reale ansiogeno innesca ammorbamento e livido spesseggiare – dal rosso dell’addoloramento, a una monocromia pasciuta e inescusata. E forse anche irredimibile.
Tra il reale e il cinema – corre il film che giunga, sempre di nuovo, a compiersi – impacchettarsi. Ecco, “La grande bellezza” di Sorrentino è quel film che, da un reale traumatico, non sa cavare altro, che monocromie. E’ il film, qui, a far esigere un trauma di reale, e la sua normalizzazione entropica. Eppure a Sorrentino non riesce di tenere il film nel posto dell’interveniente – il film né scorre né si sospende – nella sua terzietà. Perché? Sorrentino pretende di assegnare al cinema quel che è del teatro – cerca di aprire il mondo, ossia lasciare che il trauma si riversi affatto, per la sua arrossata grana, se non evidenza, nei dintorni del reale: nel film. E questa, di Sorrentino, è un’operazione che assimila il suo film alla televisione, piuttosto che al cinema. Mentre questo chiede a se stesso la capacità di fare da complemento del reale, insediando nella terzietà filmica quello scorrimento e quel pensamento (pendere e cogitare, ossia epocalità ) in cui il mondo si chiude nei suoi linguaggi – la televisione, in vece del cinema, introietta il trauma, non si scarica in alcuna monocromia.
Tra cinema e teatro – la televisione è la situazione né di un’apertura né di una chiusura – tra il mondo e i suoi linguaggi – tra il reale e i suoi moti (spaziali-come-temporali – immaginali) .
Sorrentino lo pro-duce un film, e cioè una compiutezza al limite tra il reale ed il (suo) cinema. Sorrentino, cioè, post- e para- teatralmente, ch’è dire: televisivamente, apre sì, ma non altro che una confusione tanto non caotica, tra l’essere e il pensiero, che terzietà d’interveniente e coimplicazione si donano non più di quanto si escludano.
La realtà, ossia una focalizzazione, progressiva e in- e s-finita, di reale. Ossia: s’innescano rimandi a supporti, occasioni, spiegazioni, dispiegamento e dispiegamenti di reale.
Twitter offre, oggi, la più essenziale e bruta e conveniente base di reale.
Questa scarna dotazione di reale, e più e meno scarna, può giocarsi nel suo essere più e meno allentata, e non già perché è montato, altrimenti, uno spesseggiare libero di sostituire lo scarno o di restarsene altro da tale trascorrere in gradi di scarno, ossia dello spesso. Piuttosto perché lo scarno e l’allentato di reale si traducono in una messa a fondo del reale: tanto più è reale, quanto più è degno di essere riconosciuto tale, ossia di essere come reale, messo a valore di reale.
Di Sorrentino “La grande bellezza” – resta irrilevante persino, se lo si debba ridurre alla pretesa anche, di alienata riconoscibilità – o se si possa tenere monadicamente. Che ciò sia anche improbabile, di certo non sintomatico di reale, se non di un reale tarato per la disponibilità – ciò attesta non che reali non continuano a esserlo le coordinate di casualità, ma piuttosto che pubblicitariamente si impianti appunto un’imposizione di tolta indifferenza tra una disposizione economicistica di causalità e una che si sprechi.
Papa Francesco, Angelus di una fredda primavera: usa condivisone accanto a, e in vece di, moltiplicazione – dei pani e dei pesci; invita a un silenzio la cui posizione di vita lo rende a una zona di sacrificio, ossia di concessa credulità… Televisione. Che non solo monta un’informazione suscettibile di essere, a sua volta, come da ontologico protocollo, informata ad altra informazione; così che la televisione s’incarica di denunciare quella sua stessa esteriorità che ne attenta la riconoscibilità, persino l’obsolescenza (almeno contenutistica).
I social network sono quella situazione dell’aporia che la televisione si assume, e gestisce anche.
Una bellezza tradizionalmente tenuta entro la sostituibilità, si trova a calarsi in un regime di regionale efficienza.
Questi tre scenari, che non possono decidersi dalla storia e dallo spettacolo, così rompendo la storia e tenendosi alla incompiutezza dello spettacolo, svolgono cause di reale e si sorprendono disponibili.
Resta il comune. Cioè, pubblicitariamente, (il) nulla.
La Grande Bellezza di Canale 5
5 marzo 2014 alle ore 0.26
Si è cancellato tutto, il sogno dall’alto, i bambini, come si sogna a una sinistra e nell’estetica, nel breve tempo. E si è cancellato tutto. E noi stavamo riprendendo l’urlo dall’inizio, come la fase di lamento. Si è cancellato tutto, il democristiano farsi prossimo, fase per fase. E i rifiuti, le denegazioni, le performance senza tratti, come la fine, la domenica, la serata. Ogni fermata è una pausa di ribaltamento analogico. O uno spostamento di lingua. I compagni sarebbero-sono gli Edoardo (non si evidenzia più in Facebook…). La lingua si sta facendo quale l’artistica situazione di presupposizione e di accidentato e di pretestuoso tatto: le nane vogliono un trucco statico, antiquario, un freno, il lirico e poetico silenzio come il pigro: tu vuoi andare? Sì. Noi lo vogliamo.
Noi vogliamo le prime scene come scordate. Si parla come se si facesse finta di parlare. Il rosso è sulla faccia pazza, sempre gl’intermittenti corridoi, i piani americani, asiatici. E gli accenti egoici. Siamo innamorati – come si può chiosare, accampare con le parole e le fatte realtà, le piene situazioni di centro e di periferia, come è ovvio… E’ il voler spiccare l’occhio all’interno di una camera. Ci sono abiti di colore: io stimo Teresa e la Ciabatti ma sta grandinando; e il colore mobile di una scheggia, le voci di bravura. E sempre frasi come aforismi come riempiti di aggettivi: è interessante la nudità. Noi ci stiamo capendo. Alcuni muoiono, alcuni sono zittiti solo dai monumenti che tirano in ballo ovvietà di pubblicità e di famiglia statale: le scoperte. Che si sono disfatte. E indolenti. Una finestra sola è nera, su sfondo di carne e pelle rosea. E’ il tardo mondo. Noi vogliamo parlare in un potente idioma. Ma lasciamo stare…
E’ semplice mondo. Si corre come colla copertura comune. Capiamoci: uno arriva, partecipa, poi finisce. Forse muore. Ma solo se lo può dire, di esser morto. E la mano è lo spessore della differenziale consistenza e sta in mezzo. La rivelazione, quella di un figlio assente.
Così il colloquio fra amici. E non è mai abbastanza. Capiamoci di nuovo: ora è negazione maiuscola: avversione anche: e non mi piace. La manifestazione è un intervento disastroso quindi, è facciale, senza enigma. Però la si richiede. E si sia accoglienti. Sono i poeti di paese, i Franco Arminio, e sono facce non notturne: si impiegano altrimenti – solo altrimenti. Come gli scrittori capaci di affabulare e senza stancare, Giuseppe Genna è un indice: sono pezzi che so’ smaglianti e intellettuali stanchi e scomodi e quale artroscopia di terza generazione, ecco che ci si trilla con molta faciloneria, ci si messaggia. Italia. Tommaso Pincio.
Intanto ci si presta librandosi in alto, all’interno ed è tutto confezionato: ci so’ stronzi capaci nei raccordi anulari: quasi le facce riposanti nell’imbarazzo proprio: quando giunge una faccia pagata e che ha da significare potentemente, ecco che il gioco ridiviene sfatto e prevedibile in prima battuta. In somma: non è alcun ambito o tratto di ripresa immaginale, che non sia attesa e programmata – e proprio nel suo effetto di forma.
Ci so’ figli. I figli a esibirsi fati. Sono col condominio tutto trafelato e consegnato zitto all’accento di mamma, in somma: sull’isola e d’estate nella capitale di pietre notturne, in somma: la delusione dello sguardo e dello sfiorarsi come se in una cassa di immobili ripetizioni fossero tanti, docili pudori: siamo discese a mare. Noi. E siamo accenni, siamo fustigati fiori del forsennato ritmo di un bacio, mentre la faccia della marionetta promette.
Potremmo parlarci ancora sotto a questa presa di somma abilità e che è capace di far paura. Ma la paura non è dosata, non si tratta di tonalità colla prova d’umano. Vogliono dire, questi giornalisti, che il gancio deve essere leggero: i lotti e i benedetti creaturali pezzi senza cognome. Sono gradevoli fenomeni e tutti distratti: lavoranti e distratti – noi siamo i felici: siamo gli animali curati. E in mezzo all’immagini e alle parole e ai ritratti nei piani meccanicisticissimi e ai movimenti di rubriche fiorentine, non riusciamo a dire lo stato della lingua italiana.
L’italiana lingua.
Nostra.
Siamo catturati da sforzi reiterati, dalla capacità di vomitare in un ascolto muto e in uno sguardo capacissimo di tolleranza indulgente, figli. E’ una tecnica tutta programmata come se fosse lo sfogo e lo sbandamento avesse sempre indici di riconoscibile presa per il culo.
E’ la lingua.
La lingua sarebbe questo ripiegare sulla nota introversione nella nota condivisione? Può essere anche così.
Poi uno volge lo sguardo. E si ritrova che l’audio non gli ha restituito quanto si è riusciti a dare all’occhio assiso. Ossia. La perdita nel buio di Caravaggio. Di Bronzino. Il gatto. La così detta nobiltà, quella dopo le Guerre di Macedonia, dopo 1 e 8 e 6 avanti il Cristo: non più al patriziato, al prius sarebbe destinato il quadro tutto tagliato al seno, è bene: sono le dimissioni dell’Italia.
L’incontro è stato fissato. Coi dovuti pezzi di retorica pubblicitaria e dalla scatola cartonata e dall’ocra stanca, si levano pezzi di poter-immaginare: dalle vene profonde, è questo che succederà. Il successo?
E’ evento. E anche, volendo riflettere, la formula stessa.
Ma perché è televisione e non teatro, che pure lo vuole, e per questo cinema, in sede di strutturazione riconoscibile?E’ la cosa della musica. E’ l’audio. E le voci. Le canzoni. I ritmi. I toni. Ossia l’immagine e la concentrazione di pezzi di vinili ormai solo suggeriti e delusi, e raggirati. Capziosamente cantilenati. E non è ciò che non è bello. E’ ciò che si è scordato. E’ ciò che finisce per essere ripreso nell’immagine senza che uno se ne accorga, stante un mostro: è tutto ciò che si può riconoscere come accaduto, come avvenuto e successo e ripetibile. Il mare, al fondo, è pure per Silvia Tripodi e contro Giovenale e con la Cecilia Bello Minciacchi, il mare. E si ritorna ai traduttori cui poter concedere un’intelligenza e una presenza assai scioglibili e al di fuori. Lidia vorrebbe esserci…
E le mani scesero. Lui si allontanò. Lei fu un’amica di famiglia. Ma le pareti non erano più basse, palazzi si estesero in altezza, tutto che crebbe, tutto si fece bello. L’unico. Le stagioni sono fasulle. Le facce, sfalsate. Le parole di questa lingua d’Italia. Così – è così nel testo.In somma: il bello e il grande è lo spezzato e lo staccato e il messo in disparte e il messo a nota – la fotografia rende assai e anche la meglio battuta e l’irrisolto pezzo tirato pei capelli e per il naso: la storia e non è la storia e si deve ritirare e si deve ripigliare per i fili e per brandelli di carne e d’identità: sebbene ci siano anche cari sogni e tutti siano consegnati, i democristiani, ai figli e ai nuovi accenti e accidenti messi al fresco come le foglie d’acanto.
Ma perché torna questo niente che batte al cervello che si è anche bevuto?
Perché?
Una idea nasce da una idea che è nata. E nascono dialoghi. Nacquero delle intermittenze. Cesure. Interiezioni e presupposti, un intero battaglione di un’epocale sostituibilità. La riconoscibilità di un certo Renzo Arbore. Come se ci fossero tecniche diverse e differenti d’impomatarsi la chioma non restante.
A dare il sostrato del tempo e il tempo rabberciato nella verticalità della significanza. Come se ci fossero timbri in gradazione umana… Mentre è tutto.
Tutto fatto dalla carne, tutto da dietro tutto dalla testa, la cervice autentica, alla totalità di una missione e di una sensazione capace di riprendersi coi fiocchi e con le feste nelle dirette spicciole e nei capziosi eventi, ossia i pretesti. Riaccendiamo la testualità allargata e ormai assai poco discernibile se non per targhe distinte e arroganti. In somma: non è contrario l’avvenire all’altezza di questa ripercussione d’evento.
Dio è morto.
Questo è l’effetto dell’evento.
Dell’amore.
E dietro?
Una liturgia, ossia compiti sfatti di fronte a facce strafatte. E’ il rito. Che non rimanda, non rinvia, non differisce – esso attualizza il dialogo e il contatto sibillino tra pezzi morti e pezzi di coalescente rinnovamento indispettito e di spettabilissime reliquie. Perché l’illeso, comunque lo si voglia appartare, comunque è morto.
Ed è chiuso.
Nascosto.
Distolto anche.
Qui, quindi. Ogni spicchio di bene e ogni pezza di rimedio, qualsivoglia anomalia incessante e sparuta, si consuma nella sua più prossima fungibilità, ossia: se uno schiaffo è depositato sulla gota dello stolto, questa gota si arrossa e si ribella, ma se lo merita. E così un bacio. Così una colonna indirizzata al cielo.
In somma: Apollo e Dioniso.
Apollo contra Dioniso.
Che storicamente si distribuiscono le faci e le morti, ossia l’apollinea morte in differita e l’apollineo enigma. Poi lo si ammette: Dioniso è la bellezza di una violenza sfacciata. Apollo, invece, è una radice amara: non esiste Apollo preistoricamente; ciò che importa e che fonda una anfibolia: insieme parte di una opposizione, e termine di relazione. Un bacio dato. Una bacio promesso. Mare e Marmo. Mare e Cielo. Cieco e Grinza.
Le rizla.
I veli istoriati e lignei e statici, è tutto.
Un pezzo di materia spessa e conturbata, e sempre queste voci invisitabili, sempre queste ripassate di fari alleati, le marine piccole, i fantasmi coi cori di angeli stanti e sfiorati, in somma: prima c’era la vita della sedimentazione, la chiacchiera e la paura senza autenticità, la vita è quella tale stronzata che inesistente si poggia e si fonde a questa immane stronzata capitalistica, come se uno Žižek avesse da rammentare che un proletariato è mobile e dinamico e rivoluzionario perché impossibile e aporetico e in autodistruzione in perenne!
Un bel proletariato. In somma.
Questa pellicola è un problema. E’ un problema perchè nasce da tanti problemi.
1 – Il cinema italiano. Ghetto, circolo chiuso a cui hanno accesso poche persone, sempre le stesse. Gens di poca qualità, di grandi frustrazioni. L’arrivismo, il voler apparire, essere apparenza, nella propria nullità. Di gusti pacciani. Valori nessuno. L’insignificanza personale, che diviene insignificanza di una vita, per giungere all’insignificanza di un prodotto. Il film dice tutto questo, è questa insignificanza, ma trasformata in senso. Questa Roma esiste realmente, questo ambiente esiste realmente. Nella pellicola appaiono solo queste persone, questa gens. La commedia all’italiana. Il nostro cinema, escluso rare eccezioni, da cinquant’anni non è riuscito a produrre altro. Pensate ai generi (fantascienza, giallo-noir, cinema fantastico, cinema politico etc etc), niente. Niente, solo una lunga esibizione della propria insignificanza intellettuale e della propria assoluta mancanza di un qualsivoglia senso etico da assegnare alla realtà.
2 – La nostra Italia, la nostra Televisione, la nostra classe politica. La nostra “cultura” con il suo modo di mostrarsi (la religione, la Chiesa, il mondo dello spettacolo, la scuola, etc etc), con i suoi tic.
3 – E l’incapacità di tutti, non solo di una classe dirigente, di un ghetto, di dare un senso alla priopria vita, al proprio vivere giornaliero.
4 – E l’incapacità di vederla questa realtà, di leggerla.
5 – E l’impossibilità di metterci rimedio, di provare. Per una debolezza endemica o, peggio, per un menefreghismo cromosomico.
Uno delle maggiori piaghe che siamo costretti a portare sulla nostra pelle è girare per il mondo con gli abiti del nostro cinema. Come se tutti fossimo delle caricature, dei frustrati, delle caricature come i “personaggi” che da più di cinquant’anni il nostreo cinema porta per il mondo.
noi il film non l’abbiamo visto. riteniamo di aver compreso il talento estetizzante tutto superficie di sorrentino. togliete spessore a fellini ed avrete la grande bellezza. potreste rifare così tutto il cinema passato. basta solo affettarlo sottile e vendere la prima fetta. il sistema generalizzato della produzione culturale privilegia solo la confezione. tutto quello che ha un minimo di successo ha questa caratteristica. un bel pacco che contiene vuoto. erediduchamp [gli ultimi artisti della terra]
Il video è divertentissimo, però quando vidi il film al cinema, leggendo chi l’aveva prodotto, ho fatto una profezia: bello o brutto, premiato o no, sarà massacrato…a prescindere.
A me preoccupa un po’ leggere di tanti critici cinematografici improvvisati, specialmente tra gli scrittori, come ho visto in questi giorni su facebook e leggo in generale sui siti letterari. Ci fosse un riferimento uno ai testi di critica e teoria del cinema. Insomma, ognuno può criticare con gli strumenti che ha, ma il cinema è tante cose, e tra queste tante ce ne sono alcune imprescindibili: immagini, suono e parole; ovvero inquadratura, montaggio e sceneggiatura.
Io a scuola faccio corsi di storia e critica del cinema, ho esami universitari in proposito, quindi provo a buttare giù due parole che non siano sociologiche in direzione di quanto chiedi, per carità, senza pretendere di essere André Bazin.
Fotografia: è patinata, priva di originalità, tornatoriana e cagata per forza (ma Baarìa aveva una fotografia ancora più sgranata, al limite della ferita oculare).
Le inquadrature risentono della scuola, Sorrentino riesce a fare movimenti di macchina lenti con gru o senza e minicarrellate persino nei piccoli interni: insostenibile e noioso persino nell’uso bergmaniano della panoramica. Quanto ho rimpianto certe antiche fissità di macchina, quanto mi è mancato un sano mantenimento degli angoli di campo, qualcuno gli dica che la macchina da presa può stare anche ferma senza ondeggiare in giro per l’inquadratura ogni tanto!
Il montaggio è abbastanza ordinario, c’è qualcosa di straordinario in esso? Se c’è, segnalamelo.
Sceneggiatura: due palle come due maroni, fellinismo a go-go ma senza la caratura intellettuale, persino letteraria, e soprattutto, senza l’ottica del tempo. A te risulta che il mondo di uno scrittore sia come lo dipingono questi?
Irreale e costruito ad hoc per vincere un Oscar laddove noi italiani, pirandellianamente, siamo “coloro che ci si crede”.
In definitiva, una fantozziana “cagata pazzesca”.
Sonia Caporossi
@Sonia: io ho parlato in generale di parole che ho letto in rete (alcune delle quali riportate da te, ma chiunque ha parlato di questo film), non mi riferivo a te in particolare.
Per quanto mi riguarda, mi riservo di vederlo almeno un’altra volta e di rimandare le mie valutazioni a una visione più neutra 😉
Certo, lo so, ma ci ho provato perché era giusto ciò che suggerivi, ovvero l’utilizzo, per quanto frettoloso e incompleto da parte mia (dato che occorrerebbe un articolo a parte per parlarne bene) delle categorie cinematografiche di base a monte di una qualsivoglia critica.
Hai fatto benissimo! L’unica osservazione che mi sento di fare, è che vedo quest’opera in continuità con “Il divo”, di cui scrissi a suo tempo. Sorrentino, a parer mio (e lo trovo in questo interessante), prende l’eredità della commedia mostrandone i fantasmi (laddove Ciprì e Maresco ne mostravano gli scheletri, umani e ambientali).
Certo stiamo parlando di un film e quindi ci troviamo in uno spazio definito, con propri codici di riferimento. Anche se credo che non dovremmo mai dimenticare che, come in qualsiasi altro prodotto cosiddetto culturale, la famosa industria culturale, il cinema permane in uno spazio interattivo, relazionale, politico. E il suo impatto, come strumento di cultura di massa, strumento formativo, è molto forte. Il cinema vive proprio in questo (e di questo) immaginario che contamina in maniera a volte eccessiva, non controllata.
Questo prodotto che scimmiotta “la dolce vita” degli anni sessanta (il cinema, Roma), anche cinematograficamente è tutt’altro che un grande prodotto, non fa vedere niente di nuovo. Tutto viene dato attraverso un’operazione, patinata, che riprende e ripropone volti e clichè della “commedia italiana”. E’ evidente l’occhio a Fellini e al suo cinema. Ma oltre alla “mano” differente, che opera il tutto, questa che viene proposta nel film è una dolce vita del “the day after”, in un tempo-luogo dove tutto è trascorso, tutto è finito, la storia, l’uomo stesso, in un nulla di senso e di valori. Vissuto con la rassegnazione, l’accettazione, l’umorismo di certa cultura napoletana, troppo spesso sbandierata come “saper vivere”, saper accettare.
E’ stata molto fastidiosa la visione di questo film, a tratti stomachevole, ma questo senso, questo disgusto, non ha niente, di un “basso”, di una dimensione materica recuperata con il vomito, o con il carnaio, ma è un qualcosa che ti annichilisce, ti annulla qualsiasi organo vitale.
Il film più nebbioso e molliccio di Sorrentino a livello di sceneggiatura. Quello che più mi spiace non è stato tanto il suo volersi volgere verso un’ atmosfera stagnante e straniante( intento che di per sè apprezzo), quanto piuttosto l’aver constatato che il discusso regista pare davvero affetto da una sindrome di dispersione e arruffamento digressivo che non apprezzo molto da parte di chi dovrebbe reggere ,e sottolineo soprattutto anche tirare, i fili di un racconto. E non parlo di trama a tutti i costi, ma di un senso in più.Già dalla prima mezz’ora si capisce la morale del tutto, il resto è sofferenza e attesa di rivelazione e sorpresa che… non c’è stata. Molte sono state nel film le citazioni ad altri ben noti registi. Quanto ad American Beauty, bè, a me è piaciuto molto.
Interessante il dibattito che si è scatenato attorno a questo film, e all’Oscar allo stesso, per il quale secondo me può valere lo stesso discorso che feci poco tempo fa con alcuni amici riguardo al Festival di Sanremo: puoi amarlo o odiarlo, apprezzarlo, stroncarlo, promuoverlo o boicottarlo, al limite puoi anche dichiararti indifferente a riguardo, ma non puoi fare a meno di farci in qualche modo i conti.
Ma soprattutto, qui per il cinema e in altre occasioni per la musica (o la letteratura, o qualsiasi altra forma d’arte) nessuno può fare a meno di essere “critico”. E non si tratta di un male, anzi. Un’opera pubblicata, indipendentemente dal media, è pubblicata e quindi pubblica, per cui ognuno da quel punto in poi è libero di dire la propria a riguardo. Senza bisogno di essere un critico, o un regista. Il parere di chi è “del mestiere” sarà magari più autorevole, magari no, ma anche il parere del lattaio (e non me ne voglia questa splendida categoria a rischio di estinzione) conta tanto quello di chiunque altro abbia usufruito dell’opera, altrimenti tanto valeva evitare di pubblicare l’opera stessa.
Quindi, partendo da questo presupposto, dico la mia riguardo a “La grande bellezza”: si tratta di un’enorme, raffinata, macchinosa e costosa presa per i fondelli. Una geniale presa in giro, lo dico senza ironia. Tutta giocata sullo stereotipo del film d’arte, sull’assenza di una trama e di un senso facilmente identificabili, su una complessità a tratti grottesca. In questo senso si colloca anche il “Ma vaff***” di Servillo a RaiNews24 di qualche tempo fa. Una caricatura di film d’arte, una di quelle pellicole che il ragionier Fantozzi potrebbe essere stato costretto a vedere dal professor Guidobaldo Maria Riccardelli, appunto. Villaggio ha mostrato la reazione del “borghese piccolo piccolo” ad un certo tipo di film e di cultura cinematografica, Servillo è andato oltre: ha voluto girare quel film.
(Francesco Vico – Matisklo Edizioni)
Questo discorso ci sta tutto. Anche se una “presa per i fondelli” necessita di una certa lucidità, di una serenità direi, che questo “ambiente”, che le persone di questo “ambiente” non credo che abbiano. Lo vedo più come uno sbrodolarsi addosso, un insieme di supponenza, di vanità, da parte di persone a cui da sempre manca il reale, la Realtà. Mi dispiace per Servillo, che è un ottimo attore. Credo che avrà difficoltà a scrollarsi di dosso questo “personaggio” così fastidioso, “inutile”. Certo, per noi sarà difficile dimenticarlo, ogni volta che ci apparirà di fronte, al “cine” o alla TV.