“Il rinnovo”. Un racconto inedito di Vladimir Di Prima

Di VLADIMIR DI PRIMA

Mia sorella dormiva nell’altra stanza.

Era stato il giorno del mio onomastico e la mattina prima mi aveva affettuosamente svegliato porgendomi un regalo sul cuscino. Era un libro il suo regalo, un libro che bisognava leggere tutto d’un fiato altrimenti non lo si sarebbe letto più. Così s’era fatta notte ed io mi accingevo a finirlo, tutto d’un fiato perché era un buon libro, il regalo di mia sorella. Leggevo e nel frattempo pensavo a quanto mio padre avesse fatto per noi figli; una bella casa, due stanze separate, tanta serenità e il suo sorriso che a pranzo e a cena ci riempiva sempre d’affetto.

A poche pagine dalla fine, quando tutto stava per essere svelato così come prometteva di svelare un’intrigante bandella, cominciai a sentire un prurito alla schiena; spostai il cuscino e feci per grattarmi con le dita della mano che non arrivavano a centrare perfettamente l’origine di quel fastidio. Fra l’altro non era un prurito vero e proprio, ma qualcosa di più simile a un pizzicotto oppure al morso di qualche piccolo insetto nascosto. Non so come, poi, avevo già intuito il finale del romanzo e dal momento che l’effetto spiazzante non c’era stato, l’avevo riposto sul comodino orgoglioso d’essere arrivato all’ultima pagina e d’aver capito. Quando feci per spegnere l’abat-jour, distrattamente ma neppure tanto, mi accorsi che in basso, fra il battiscopa e lo spigolo dell’armadio, c’era un vecchio ragno raggomitolato dentro un batuffolo di polvere e ragnatela. “Ecco chi era che comandava il mio prurito!” pensai.

Molte altre volte mi era capitato di risparmiare la vita a quei poveri insetti escogitando bizzarri stratagemmi per portarli fuori, ma quella notte, forse stanco o preso di pigrizia, decisamente convinto che se non l’avessi schiacciato contro il muro sarebbe scappato nell’intercapedine fra il muro e l’armadio, gli diedi un colpo secco con un fazzolettino di carta. Non avrei mai potuto chiudere occhio sapendo di quella presenza attorno a me. Spensi la luce e mi addormentai. Non molto dopo, quando ancora era piena notte, avvertii nuovamente l’insorgere di quell’insolita prurigine. Sebbene fosse già ottobre conservavo l’abitudine di dormire a torso nudo, senza canottiera o pigiama. Saranno le zanzare stavolta? Accesi di scatto la luce e cominciai a grattarmi come un forsennato; avevo un ponfo in corrispondenza della milza e un altro di fianco all’ombelico, meno marcato e quasi allungato su una piega di carne. Abbassai la testa per guardare sotto il letto – lo facevo sempre quando mi sentivo assediato – e vidi una ciambella di polvere fitta e lanuginosa. “Domani grandi pulizie” mi imposi e mi quietai, sennonché, nel punto del mio frettoloso delitto, vidi due piccoli ragni che si muovevano disorientati.

Erano proprio piccoli, con le chele appena delineate e il tronco quasi trasparente come se ci passasse dentro un riflesso di luce e ne rivelasse minuziosamente l’interno. Cercavano il padre, sentivano l’odore schiacciato del suo corpo strisciato, sentivano la voce querula dell’insetto. Da qualche parte c’era una croce, ma non la vedevano, no che non la vedevano. E inquieti, così giravano. Dov’era il padre? Forse era rimasto a parlare con l’ufficiale sanitario per il rinnovo della patente. A settant’anni, lo ricordo ancora, mio padre rinnovò la patente.

–          Quanti figli ha lei? – 

–          Due … –

–          Anch’io! –

–          E cosa fanno? –

–          Hanno ciascuno una laurea … –

–          Sono grandi, bene, anche i miei; e dove lavorano? –

–          Non lavorano … purtroppo sono disoccupati. –

L’ufficiale sanitario aveva spiato nello sconforto di mio padre una speranza svanita e nel suo sconforto era rimasto, come quei due poveri ragnetti derelitti in cerca del cadavere paterno, in silenzio e triste.

 

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