Il minore (e più comodo) dei mali possibili. Una riflessione di Andrea Ponso sullo stato della poesia italiana contemporanea

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Di ANDREA PONSO

In fondo, l’idea è molto semplice e del tutto innocua. Dunque, perché sarebbe così deleteria? Aprire e favorire le strade della pubblicazione ai giovani e giovanissimi, magari a suon di “manine” e “incontrini”, giocare alla maestrina segnando loro gli errori nella rivista più glam della penisola, fare in modo che ci si incontri, che ci si scambino opinioni, indirizzi, dedichine sul diario di scuola – dov’è il male? Ma che male ci sarà in tutto questo?

Ma nessuno, proprio nessuno. Niente male, si direbbe. Ed è proprio qui il problema. È proprio questa apertura del tutto indolore e anestetica (in tutti i sensi, quasi sempre, purtroppo …) che, a mio modestissimo parere, è devastante. Una sorta di “ama il prossimo tuo come te stesso” massificante, in cui si abdica a qualsiasi senso critico perché, si sa, si potrebbe fare del male alla poesia, a chi la scrive e ai pochi lettori – ma soprattutto a se stessi, che non si sa mai. Allora, invece della selezione e dell’autorità – due termini che abbiamo dimenticato totalmente, semplificandoli e banalizzandoli – si promuove qualsiasi cosa, si aprono le porte a qualsiasi capitombolo che va a capo. Nessuno si prende la briga del discernimento, perché nessuno ha il coraggio e l’autorevolezza/autorità per farlo: questo, in profondità, lo sanno tutti – comprendono la generale mediocrità, compresa la loro. Tutto si apre, è un fiorire infetto e paludoso di possibilità, di festivals, di opportunità … questo dare opportunità di “visibilità” alla poesia e a chi la scrive, questa bontà scoreggiona e pavida che non può e non vuole fare i conti con la qualità, vale a dire con la singolarità di ogni scrittura, nel bene e nel male, ha qualcosa di orrendo. È come predicare l’amore universale che, come sappiamo, non esiste; è come fare opera da crocerossine, come portare gli aiuti umanitari perché si ha paura della guerra.

Ma cosa ci sarebbe di così orrendo in questo? C’è, a mio parere, un giocare e gestire la propria pochezza, magari mostrandola come umiltà e disponibilità nei confronti dell’altro e dell’altrui opera: agnelli come lupi, perché, il più delle volte, questa apertura pressoché indistinta è precisamente la rinuncia al giudizio estetico ed etico, il non volere dire come la si pensa veramente (non credo di essere l’unico a pensare che un buon ottanta per cento di quello che, in queste modalità, viene pubblicato e pubblicizzato, sia mero sfogo adolescenziale, non solo per ragioni biografiche), perché questo potrebbe inficiare relazioni, possibilità di visibilità e di onori per noi che, invece, siamo bravi perché altruisti, perché promuoviamo con tutti i mezzi che abbiamo gli altri e il feticcio spirituale della Poesia con la maiuscola, ormai fino al primo verso dentro la culla. Questa vigliaccheria travestita da amore per il prossimo è orrenda.

Ormai non si sa più dove andare a scovare nuove leve, è un’attività che si propaga come il tumore, come le cellule tumorali. Questo attivismo nasconde, mi pare, un vuoto orribile che non si vuole guardare, che non si ha il coraggio di assumere fino in fondo, personalmente: quello della propria pochezza. Meglio guardare gli altri, farsi in quattro per organizzare momenti di incontro, di festivals, di letture e promozioni, giornate mondiali della poesia, ecc., per aiutarli, poverini, per promuoverli e, magari, farli nostri sudditi, nostri dipendenti ma per il loro bene, s’intende: così ci si può vantare ed esercitare quel potere paternalistico nei confronti degli altri, godendo a dissimularlo, ma pur sempre tenendoselo strettissimo e bene in vista; sai che bello invitare uno sconosciuto promettendo letture e pubblicazioni? “No, guarda, non preoccuparti, mandami i tuoi testi, che ci penso io, conosco io chi ti può aiutare e pubblicare, ho conoscenze e contatti, stai tranquillo”: ecco cosa sono, molto spesso, i contatti “umani” che sgorgano da queste cose; potere pavido, privo di qualsiasi autorevolezza e quindi incapace di autorità; gestione del proprio piccolo raggio d’ombra marcescente da imporre agli altri con le “peggiori intenzioni” umanitarie e amicali. Si punta all’indistinto, ci si puntella a questo, pur di non esserci davvero, pur di non incontrare e non esercitare davvero l’altro, il dissenso, la critica e l’autorità. Perché sarebbe pericoloso – non per la poesia, ma per noi, perché se dico davvero cosa penso poi rischio di perdere il contatto con l’altro, poi non mi invitano più e magari mi perdo anche la possibilità di uscire con la foto in qualche rivista.

Direte che, certo, forse è anche così, ma in fondo c’è poco di male: è il minore dei mali, questo. E allora, per le anime belle, consiglio di leggere Eyal Weizmann, che scrive un saggio molto interessante su queste dinamiche intitolandolo proprio “Il minore dei mali possibili”. D’accordo, lui parla delle guerre e della politica, ma credo che i principali meccanismi sia possibile, fatte le dovute scale, applicarli anche alla situazione di deserto melassa della poesia italiana. Chiudo quindi con le sue parole, invitandovi a leggere l’intero lavoro: “Il male minore è spesso la giustificazione dell’ufficiale militare che cerca di amministrare la vita (e la morte) in modo “illuminato”; ma è anche il breviario dell’imprenditore privato nel campo della sicurezza che introduce armi nuove e più efficienti, nuovi mezzi spaziali-tecnologici di dominio, pubblicizzandoli come “tecnologie umanitarie”. In questi casi, la logica del male minore crea un importante campo politico di partecipazione, riunendo sfere di azione altrimenti contrapposte, al punto che le fondamentali differenze morali tra i diversi gruppi coinvolti potrebbero risultare oscurate. Tuttavia, anche secondo i termini di un’economia dei costi-benefici, il concetto di male minore rischia di divenire controproducente: le misure meno brutali sono anche quelle più facilmente naturalizzabili, accettabili e tollerabili – e possono quindi essere usate con maggiore frequenza. Ne consegue che si può produrre un male maggiore attraverso un processo di accumulazione di mali minori.

Bene, direte, ora mi faccio il mio esamino di coscienza e se le mie intenzioni sono state buone, allora io in questo non c’entro: ho lavorato gratuitamente, solo per amore della poesia, ecc. ecc. la mia animuccia è pura, slavata e bianchissima. E anche se uno fa degli errori in buona fede, insomma, che male c’è? Sarà sempre il male minore, ecco. Scriveva Hannah Arendt che, “se guardiamo alle tecniche di governo totalitario, risulta chiaro che l’argomento del “male minore” […] è uno dei meccanismi terroristici e criminali. L’accettazione del male minore viene consapevolmente utilizzata per abituare i funzionari e la popolazione ad accettare in generale il male in sé […] Sul piano politico, la debolezza dell’argomento è stata sempre evidente: coloro che scelgono il male minore dimenticano troppo in fretta che stanno comunque scegliendo il male.

11 pensieri riguardo “Il minore (e più comodo) dei mali possibili. Una riflessione di Andrea Ponso sullo stato della poesia italiana contemporanea

    1. Chi governa oggi ha fatto in fretta a dimenticare la scuola di Partito che insegnava a riconoscere il “blocco storico” (Marx, Gramsci) tanto che sono entrati a farne parte. In realta’ non devono aver frequentato la scuola di Partito se provengono dalla Democrazia cristiana.

  1. Julian Zhara su facebook ha obiettato a Ponso che avrebbe dovuto parlare anche del marchettismo dei piani alti e non solo sparare a zero sui piani bassi.
    Per Critica Impura il discorso è comunque valido in generale. Cioè, è vero che in generale c’è molto spesso arrivismo, volemosebenismo, arraffazzonismo e pressappochismo poetico, con relativa latitanza del giudizio critico. Questo non lo si può negare. E’ colpa in larga parte della critica, diciamocela tutta. Un po’ meno dei poeti, alla fine. A meno che quel fare “gruppo di Cantor” di cui parlavo qualche mese fa non abbia proprio, come pare sempre più evidente, la funzione precipua di sostituire i critici, darsi al bricolage poetico (“facciamo da noi”) con le ovvie deleterie conseguenze per la poesia in quanto tale.
    Sonia Caporossi

  2. Non era egoista né cinico né indifferente. Eppure era un grande poeta
    di Giovanni Raboni

    Avete tutte le qualità del letterato, disse un giorno André Gide a un giovane scrittore; siete ambizioso, egoista, cinico, indifferente…
    Ho citato a memoria, e non escludo che gli aggettivi usati da Gide fossero più numerosi e ancora più sferzanti. Ma il senso della battuta era certamente questo; e sempre più, invecchiando, mi sembra che essa si adatti perfettamente a quasi tutti gli scrittori, giovani e no, che mi è capitato di conoscere. C’è addirittura, penso, qualcosa di fatalmente fisiologico (non dico di perdonabile) nella tendenza di uno scrittore – dello scrittore-tipo – a risparmiare le proprie forze emotive o, meglio, a «investirle» soltanto nel proprio lavoro; insomma, per dirla un po’ brutalmente, a prendere dagli altri, in termini umani, molto più di quanto sia disposto o capace di dare.
    C’è, per fortuna, il piccolo spazio di quel «quasi»: uno spazio popolato da pochissime, preziose eccezioni. I lettori di «7» che conoscono la passione (la totale mancanza di indifferenza, se mi si consente questa definizione al negativo) con cui Antonio Porta affrontava qui argomenti di moralità e di vita civile, non faticheranno certo a credermi se dico che proprio lui era, nel più completo e limpido dei modi, una di queste eccezioni. In tanti anni di consuetudine personale e (lo dico con orgoglio) di amicizia, non l’ho visto una sola volta tirarsi indietro di fronte all’opportunità di un coinvolgimento personale, di un contributo di responsabilità e di lavoro (si trattasse di un’iniziativa culturale o di una presa di posizione politica, di aiutare dei giovani o di onorare dei maestri), senza minimamente curarsi di quanto tutto ciò potesse «costargli», voglio dire di quanto potesse sottrarre – in tempo e in energia, in tranquillità e concentrazione – al suo lavoro creativo.
    Era come se la fatica, per la sua persona immutabilmente e quasi tragicamente giovane, non potesse esistere; e, più ancora, come se non ci fosse per lui nessuna gerarchia, nessun ordine di precedenze tra il fare per sé e il fare per gli altri. Si comportava (e non c’era per me spettacolo più lieto, né c’è ora ricordo più struggente) come se il tempo a sua disposizione fosse illimitato e gli fosse possibile spenderlo a piene mani ritrovandone sempre intatto il tesoro. Era capace di attraversare la città in bicicletta, dai suoi Navigli alla mia Porta Venezia, soltanto per controllare un’ultima volta assieme a me un elenco di poeti da mettere in un’antologia o da invitare a una manifestazione. Non si trattava di perfezionismo, ma di un impulso profondo e naturale a non anteporre mai il rispetto per il suo lavoro (che pure aveva, e giustamente, acutissimo) all’attenzione per il lavoro altrui; lo stesso impulso che più d’una volta, parlando dei testi di altri poeti (l’ho sentito con le mie orecchie, e giuro di non aver mai sentito niente di simile da nessun altro), gli faceva dire: «Ecco, qui ha fatto meglio di me».
    Tutto questo ha un nome così banale e al tempo stesso così sublime che ho quasi ritegno a scriverlo: generosità; generosità della specie più rara, quella dell’intelligenza oltre che del cuore. E sembra quasi impossibile capire come un uomo tanto generoso, pronto in ogni istante a dilapidare per gli altri la propria forza, abbia – alla lettera – «trovato il tempo» di essere non solo nell’anima e nei gesti, ma anche sulla pagina, un grande poeta, di accumulare libro dopo libro un’opera che rimarrà fra le più belle e più vere del nostro tempo. Non ci resta che accettarlo, questo apparente mistero, come una delle tante cose che la sua scomparsa atrocemente prematura e repentina ci lascia da meditare e, se mai ne saremo capaci, da utilizzare.
    in Antonio Porta, Abbiamo da tirare fuori la vita, Cenobio Edizioni, Lugano (su ibs)

  3. Come non essere d’accordo ? Io aggiungerei che a monte (come poi altre volte si è detto) di questa “frenesia” poeticoaltruistica, che cela, invece, una sorta di piccola brama di potere e nulla più (in effetti un nulla, visto che frega a 1000 che a loro volta, per il 98%, scrivono poesia o pseudotale), sia la mancanza di opera e, per entrare nello psicologico, di amici e di stima in se stessi, in chi organizza questi minimi cenacoli da tè e pasticcini, cioè, la mancanza di tensione poetica, la mancanza di POESIA (e quindi di VITA), per essere ancora più diretti ed espliciti. Sono deboli nella scrittura o incerti su di essa (nonché SOLI, senza avere la forza di reggere tale solitudine) e così si supplisce col gestire, quel minimo, sempre i soliti minuetti. Infine è l’OPERA che manca (e il VISSUTO), e quella se non c’è non c’è, del resto i “canoni” (i “modi”, come le “pose”) nascono anche a seguito di ciò. Inoltre il leggersi addosso e l’ascoltare altri leggersi addosso (in mezzo un qualcuno che tiene) ha perso, via via negli anni, il valore che aveva un tempo (e così il come si gestiscono gli incontri riguardanti le tante altre discipline creativo-artistiche che abbiamo… lo stesso succede nelle arti visive, come in musica etc.) e questo perché ? Perché oltre a non esserci l’opera, come ho scritto sopra, non esiste progetto (propulsivo o anche suicida), sia nel singolo che nell’insieme. Infine il concedersi a queste liturgie è una forma di consolazione nei confronti del nulla interno ed esterno che vive buona parte della nostra gioventù, che scriva o no poesia o imbratti tele o installi bamboline e merletti. Il fenomeno, visto anche in quest’ottica, assume una valenza socio-antropologico-politica non da poco. Non esiste REAZIONE, nel senso alto del termine, sia quale “porsi contro” a un qualcosa sia come “conservazione” di un qualcosa… per me il sacro, e mi ricito-ripeto, considerato che pongo il SACRO (e la relativa posizione ETICA, di solito forte) quale base di tutto. Mancano i “fondamentali” a molti di questi ragazzi, e il tutto si risolve in scivolate per lo più estetiche, fini a se stesse, quindi di superficie. E’ la MANCANZA che si celebra in queste adunate, sia di umanità sia di risorse. Sono anche questi teatrini lo specchio epocale di un tempo in agonia, ma senza avere la forza di celebrare un vero e proprio DE PROFUNDIS (magari rigeneratore, catartico, quindi palingenetico)… perché la morte la si teme, anche se agonizzanti, e la si teme mai come ora (“in stagioni di assenza d’idea”), e non siamo più romantici al punto di dire : “Chi muore giovane è caro agli dèi”… visto che gli dèi ci hanno voltato le spalle già da anni e anni, perché presi ad ascoltare o visionare ben altro. Un saluto a tutti. Comunque non è ancora finita. In tempi in cui il fiume s’interra, anche i maestri si nascondono o, meglio, sono da cercare (e qui entra in ballo il male più grosso, se non sostenuto dal genio : la supponenza, la mancanza di umiltà, la superbia – ancor peggiore e perfida se truccata da umiltà e disponibilità -… con cui si tenta di supplire le mancanze che sopra ho elencato). Cos’è più grottesco di un cadavere che si dice ancora vivo e che non ascolta chi gli potrebbe dare pace eterna ?

  4. non sono assolutamente d’accordo! e voi direte chisenefrega! ma credo che bisogna sapere dove cercare, dove leggere; altro che sfoghi adolescenziali, io di gente che crede nella poesia e la scrive pure discretamente ne conosco, ma non sono i montale o chi per esso…mettere in gioco la propria anima non è mai facile, e chi lo fa non dev’essere bastonato, al max bisogna fargli capire che il lavoro è duro e se si vuole far bene bisogna mettersi sotto a leggere e a scrivere. certo non sono tutti poeti, ma credo che la maggior parte delle persone che scrive pensierini sui social network questo la sa, e non ha la sfacciataggine di definirsi tale. chi lo fa, dev’essere ascoltato e magari letto prima di qualsiasi cosa. poi dopo forse se ne può parlare di male minore, e cmq mi sembra esagerato paragonare la guerra alla poesia, o forse no, e ognuno combatte la sua battaglia! è un discorso un pò generalista questo che leggo, di chi parliamo?, quali poeti? tutti que lli che scrivono sono dei coglioni con i foruncoli sul culo e la faccia. quindi come diceva Schopenhauer ” assolutamente nulla merita la nostra lotta “, non lo so! io penso invece che oggi la lotta è d’obbligo e la poesia ci permette di lottare, e chi lotta ha tutta la mia stima! chiaramente questo non significa che qualsiasi cosa leggo mi piaccia, ma ripeto sono sicuro che fuori ci sono tante belle cose da leggere, importanti e interessanti, perfino leggermente sperimentali ( che non è una bestemmia! )…

  5. Apprezzo il pezzo di Andrea Ponso, anche se mi tiro fuori da ogni mistica e da ogni morale, e posso solo guardare con cinismo agli scherzi che anche autori “ggiovani” possono giocare a questo sistema, mettendolo, magari brevemente, ma con sagacia, in crisi. Apprezzo ancora di più Critica Impura, perchè alle polemiche tra autori “invitati” e autori “non invitati” coniuga la passione critica e l’attenzione per il textus, che è uno dei pochi modi, inseguendo il terzo incomodo, per svicolare dalla dialettica, che in realtà è sterile polemica, tra in- e outsider. Il resto, soprattutto il discorso dei mali minori e dei totalitarismi del Novecento, mi sembra un po’ fuffa, sinceramente. Basterebbe capire, intanto, quale autorevolezza hanno le autorità che si ergono a “potenti”, a “padri/padrini” e “madri/madrini”, a “operatori editoriali/culturali”, e questo non è difficile, suvvia…

  6. Interessante il passaggio: “È come predicare l’amore universale che, come sappiamo, non esiste”. Verità eretica di un ateo appassionato e, al tempo stesso, annichilito dal peso di tanto orrore. Altrettanto interessante il sospetto di Mari sulle autorità, che ricollego all’agonia critica imperante, e il riferimento di Gian Ruggero ai lupi travestiti da agnelli.

  7. Buongiorno.
    Sto ancora facendo le “dovute scale” per far rientrare i passi riportati da Ponso in corsivo nel suo pezzo e il nocciolo della questione, ma mi sto perdendo. Limite mio – sicuro – ma forse anche limite del nocciolo del discorso. Che probabilmente manca, come in un’oliva denocciolata. C’è sicuramente del vero e del condivisibile in molti aspetti sollevati da Ponso, ma mi sembra che tutto lasci il tempo che trova. Anche Montale si lamentava, anche qui con le “dovute scale”, della massa di poeti che scrivevano e di tanti aspetti collegati a questo micromondo poetico abbastanza sfigatello. Ma i suoi ragionamenti, come questi, lasciano forse il tempo che trovano. Perché occuparci di simili “problemi” in fondo? Un inglese direbbe forse: who cares? Se è vero quel che dice G.R. Manzoni (e lo condivido), spostiamoci altrove, non curiamoci di questi aspetti deteriori ma “guardiamo e passiamo”. Piuttosto parliamo della poesia-vita di cui scrive Manzoni. Un saluto ai lettori. AC

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