
Di LORENZO MARI
Anche in un tempo in cui si è compiutamente e coerentemente postulata la “scomparsa”, anziché la “morte”, del padre pare legittimo, comunque, sostenere un discorso culturale che si svolga in termini di padri e figli e, a quel punto, inevitabilmente, anche in termini di madri e figlie – di fratelli e di sorelle.
Sembra da rivalutare, quindi, in un certo senso, la cornice familiare entro la quale ha luogo – con vantaggi e svantaggi tattici tutti da articolare – un discorso culturale che è di tanto in tanto centrale, di tanto in tanto sommerso, nel dibattito italiano e, nello stesso tempo, sembra necessario affrontare il familismo amorale aggiornando la riflessione di Edward Banfield e ponendola a confronto con una delle eredità più bieche che il berlusconismo ha lasciato nell’immaginario.
Da questa prospettiva, parlare in termini di padri e figli, a fronte della scomparsa del padre – e anche di quella del figlio, precario (intellettuale e non) spesso senza nome e “prossimo subalterno” – non pare affatto sbagliato, né inutile, quanto piuttosto paradossale, residuale e disarmante.
È anche un’opzione tecnicamente “impura”, in quanto, attivandola, ci si può proporre, come fa del resto il manifesto di questo blog, di:
– “dimostrare che la vera cultura non abita nei sordidi territori resi sterili dalla logica del mercato e dalla prostituzione intellettuale”;
– “esercitare la libertà critica nei confronti del reale, impiegando le armi non violente dell’argomentazione”;
– “attraversare indenni l’inferno cremisi di una violenza pseudoculturale che si spande sempre più in superficie annichilendo il cuore e la ragione delle cose”;
e ancora, forse in modo preponderante, di “far emergere l’intellettuale sommerso ma non salvato, che vive nel sottosuolo, che rimugina di delitti e castighi”.
Come si tenterà di dimostrare, in questo e nei successivi interventi, un simile rimuginare è – appunto – paradossale, residuale e disarmante. Necessita, inoltre, di essere adornianamente attraversato perché altrimenti si fa bieco risentimento. Come si suol dire, una posizione senz’arte né parte. (E se la parte può restare ancora evidente, nonostante tutto, l’arte spesso viene meno, nel risentirsi).
Attraversare il paradosso, invece, può essere uno degli esercizi fondamentali che si può prefiggere oggi la critica militante, nell’epoca, questa sì tautologicamente acclarata, della complessità. Viceversa, difendere una posizione senza inserirla nella complessità della sua articolazione, per quanto lo si faccia fortinianamente, può indurre alla costruzione della stessa gelida prigione concettuale che è stata tratto distintivo di buona parte della produzione di Fortini.
È opportuno anche riconoscere la residualità di questo discorso: parlare di padri e figli, o di madri e figlie, non risolve completamente, e nemmeno in parte, l’interpretazione critica dei testi che questi producono, ma certamente mostra come si abbia a che fare con una tendenza discorsiva ancora operante. E se una volta ci si chiedeva quanti figli hanno ucciso il padre per poi diventare eguali, se non peggiori dei padri, ora ci si può chiedere quanti padri non scompaiano, portando con sé, nella scomparsa, i figli. Quanti figli non si adagino, poi, in questa scomparsa, pur lottando, paradossalmente, parossisticamente, per la visibilità. (Visibilità che, in quanto principalmente mediatica, non si oppone affatto, non presuppone una relazione dialettica con i moti di scomparsa.)
E poi disarmarsi. Perché il confronto tra padri e figli non è una guerra, o almeno non è la solita guerra, altrimenti si ricade nel meccanismo tipico dell’Edipo: si combattono i padri fino alla morte, si cerca di ucciderli, ma poi, arrivati alle medesime posizioni di potere, ci si allea e si inizia a considerare – com’è peraltro umanamente giusto, per alcuni versi – i padri e i figli in un’ottica di tradizione che è, però, una prospettiva normalizzata e normalizzante, canonizzata e canonizzante. Spesso però anche paralizzata e paralizzante (una chiusura del discorso totale, anche perché si può effettuare anche da una posizione diametralmente opposta a questa, che elogi la tradizione e il suo edipismo).
L’esposizione disarmata di sé e del mondo – che caratterizza uno dei sensi ultimi dell’intimamente contraddittorio, in termini epistemologici, filosofici e culturali, Io so di Pasolini – rimane oltranza necessaria rispetto al sistema chiuso della tradizione. L’opzione alternativa è il rifugio nella maturità e nella tradizione tout court, certo, oppure, nel peggiore dei casi, direttamente nell’epigonismo, una parola che continua a sembrarmi significativamente sottovalutata, oggi.
Se non è dunque la tradizione, nella sua funzione ossificante, a poter sussumere tutti i discorsi, riducendoli al suo essere, comunemente parlando, tradizione bianca, maschile e borghese, non si potrà parlare, allora, soltanto dei padri e dei figli, ma si dovrà capire anche cosa ne è, ora, delle madri e delle figlie. A proposito di Nuovi poeti italiani 6 – …di nuovo! – si è richiamata una genealogia, altrimenti bruscamente interrotta, come quella che fa capo ad Amelia Rosselli. Da altre voci è stato notare che questo riferimento alla Rosselli può risolversi in un gergo critico trito e ritrito. Senza entrare direttamente nel merito, la questione della critica – pur nei termini di per sé inevitabilmente poveri di una querelle giornalistica – è già tutta presente, è già tutta posta. Chi può essere oggi la madre non-madre della Rosselli? Quale genealogia si rifà a lei? È una genealogia viva o soltanto di carta?
In questa prospettiva, infinitamente complessa, come altrove ho cercato di abbozzare non siamo già al solito discorso. Come si diceva, non siamo neanche più alla solita guerra.
Quanto alle vittime, continuano a esserci: basta guardare al sistema universitario italiano per vedere quali padri combattono contro quali figli, quali generazioni sono completamente desaparecidas, nel passato e nel presente. E il discorso accademico, per quanto residuale, resta consustanziale al dibattito culturale italiano, che già si svolge in altri ambiti, però mantenendo reverenza (e sottomissione) rispetto a uno dei suoi discorsi più potenti. Basti pensare alle “ottomila ore di volo” raccomandate recentemente dal poeta-cum-cattedratico Magrelli ai giovani e inesperti – forse perché non strutturati entro l’accademia? (e come potrebbero esserlo?) – redattori di lit-blog e simili.
Ottomila ore di lavoro, certo, ma non è lavoro pagato (né ri-pagato, né ri-conosciuto) ed è un lavoro che, nel bene e nel male, si trova a doversi muovere in questa contraddizione.
Lo stesso discorso si può accennare nei confronti delle politiche culturali quotidiane che attraversano il paese e che troppo spesso – da una sponda all’altra dell’agone politico propriamente detto – passano attraverso il confronto azzerante tra “padri” e “figli”, nella formula del padrino che presenta al pubblico il suo protetto. La presentazione è un’esposizione già disarmata ma non più disarmante: un mandare carne al macello, per aumentare la fama di questo e di quello, invece che fomentare il dibattito critico, al quale spesso – anche se non sempre – tale meccanismo “pubblico” si sostituisce.
Si potrà dire che gli esempi riportati – dalla polemica su Nuovi poeti italiani 6 in un’intervista, una sola, di Magrelli – siano nicchia, margine, irrilevanza ma ancora dalla nicchia, dal margine e dall’irrilevanza, dove tanti sono sospinti oggi, si può e in un certo senso si deve parlare – puntando dritti al centro delle questioni.
completamente d’accordo con quanto dice lorenzo. lo trovo un discorso sensatissimo anche se un po’ astrattizzato quando si rischia di finire in generalizzazioni fin troppo evidenti. per il resto ciò che mi fa ancora incazzare è questo abnorme e tentacolare apparato baronale universitario che tarpa le ali alla meritocrazia e al contemporaneo che si occupa dei viventi e non ancora imbastisce illazioni su paternità presunte di manoscritti per il dante o il petrarca di turno. i viventi vengono considerati e cercati nei medesimi contesti esteri mentre qui ancora contiamo le concordanze di cecco d’ascoli e cavalcanti quando si potrebbe lasciare spazio ai giovani che spesso si occupano e molto meglio dei celebrati maestri di molti meritevoli autori viventi e non piuttosto che della preistoria minima
Se ben ricordo, Galaverini aveva moderatamente stroncato il sesto volume dei Nuovi poeti italiani, adducendo la motivazione (virile?) che la parola poetica non va ridotta a un esercizio di genere perché “è molto più problematica”. Ora che questo “esercizio di genere” lo abbia attorcigliato nelle pagine di questo lavoro, fa venire – ad astrarsi – il fiatone. Perché del genere e nel genere, si scatenano i guerrafondai della critica purista. Ottima invece la tua riflessione sulla continuità di un patrimonio – all’interno della secolarizzazione “impura” –
“Chi può essere oggi la madre non-madre della Rosselli? Quale genealogia si rifà a lei? È una genealogia viva o soltanto di carta?”
…)); a volte si è orfane…
Però, Viola, l’essere orfani può essere fantasia (che riconferma questo quadro, agghiacciante, ma alquanto solido, secondo me!) oppure qualcosa che viene dall’oltranza, o da come lo si voglia chiamare, e ha la capacità di scardinare il sistema tutto. Ecco, spesso chi si proclama orfano lo fa per una sua fantasia, mentre c’è chi lo scopre per altre vie (e spesso non lo dice). Secondo me una di queste vie passa dal non considerare in modo assoluto, con un sì o un no perentori, la questione dei padri e delle madri
Grazie per i commenti! Noto che entrambi mi imputate una deriva astratta e generalizzante, e se due indizi fanno una prova… Ne terrò conto, anche per far emergere, nel lavoro che cercherò di continuare a fare in futuro, la forza di un ragionamento che è residuale: tenace, ma non per questo pervasivo. Mentre sulle riflessioni accademiche sulla poesia contemporanea non trovo nulla da eccepire al giudizio di Diego (e penso anzi che questo sia un fenomeno correlato al sistema di cui ho tentato di parlare), riguardo alla questione del genere, intuisco come vi sia la possibilità di uno sviluppo completamente impuro, che io magari non ho delineato del tutto bene, ma che considero importante. Potrebbe essere un ottimo punto di ripartenza.
Magrelli raccomanda ottomila ore di volo ai «giovani e inesperti redattori di litblog». Possiamo parlare con competenza di un libro – valutare e pilotare con destrezza un intervento critico – solo dopo questo lungo tirocinio, oppure in seguito a una seria formazione accademica. Tuttavia la storia della critica ufficiale o accademica è colma di lapsus, cantonate, dimenticanze, sopravalutazioni e sottovalutazioni. La critica ufficiale, poiché insicura su cosa dire e su chi dire, si rifugia costantemente in autori non più problematici, o perché morti da decenni o perché dimenticati, come Taparelli D’Azeglio. Se tutta la critica ufficiale fosse sempre sicura e preparata, allora dovrebbe pronunciarsi spesso e con decisione sul presente. Invece no: i critici ufficiali attendono, attendono che il presente diventi passato perché del passato, in fondo, «chi se ne frega». La funzione della critica ufficiale è la normalizzazione. La funzione della critica militante dovrebbe essere la detonazione. I figli debbono cambiare l’ordine dei padri. La critica ufficiale è un luogo di produzione di contenuti, un luogo come molti altri, con le sue eccellenze e le sue deficienze, con intelligenti e deficienti: l’essere padri non rende autorevoli, al massimo rende autoritari, che è ben altra cosa. L’università è in primis un luogo di spartizione di posti di lavoro: purtroppo. La critica ufficiale non ha in mano la verità. Il padre sbaglia spesso. Approfondire per tre anni un argomento o un autore (come nei dottorati, i quali introducono alla critica ufficiale) non significa avere in mano le chiavi della critica. La critica ufficiale non sbaglia meno dei litblog: inserire note e bibliografia pompa la muscolatura, non la rende più forte o efficace. Un dottorando pluriraccomandato prende lo stipendio dall’università: questo lo rende più affidabile di un blogger non stipendiato? I figli non devono accodarsi, non devono cercare la famiglia: la famiglia porta alla camorra culturale, non alla produzione di contenuti originali e potenti. La rete sta liberando dalla dittatura dei padri e dei figli corrotti: ad esempio, non abbiamo più bisogno di loro per farci conoscere e per pubblicare i nostri lavori. Cercare la loro approvazione significa non essere maturi. Sapere aude. Un saluto alla redazione di Critica Impura, a Lorenzo Mari e agli altri compagni di viaggio. Buona giornata.
Idolo Hoxhvogli
Grazie della partecipazione così appassionata e condivisibile, Idolo Hoxhvogli. Spero di apportare presto altri contributi su questi punti preliminari, anche perchè mi rendo conto di poter essere criticato sul piano personale rispetto ad alcuni dei punti che ho enunciato. C’è ancora (e sempre?) bisogno di approfondire questo discorso, benché residuale…
[…] rimuginare […] adornianamente attraversato perché altrimenti si fa bieco risentimento. Come si suol dire, una posizione senz’arte né parte. (E se la parte può restare ancora evidente, nonostante tutto, l’arte spesso viene meno, nel risentirsi).
Scalda il cuore, diverte e illumina. Non scherzo.
Non frequentiamo le stesse letture, se non forse per Adorno (e neanche tutto), così seguirti fino alla fine non mi è stato facile, lo confesso, ma ti ringrazio per questi spunti, che un po’ mi risuonano dentro, per altri versi. Né di poesia, né d’arte i miei negozi, presa come sono dal mercato e dal mio essere nata troppo ‘normale’, qui a inventarmi ogni giorno la via del paradosso per non soccombere ai biechi compiangimenti, e sordidi compiacimenti di una prigionia come un’altra. Grata anche a Idolo Hoxhvogli per il fuoco che attraversa il suo commento. Non lo conosco, ma si fa portatore di istanze non da poco in questa sede. Solo una nota, anche se forse non lo prevede la politica editoriale: qualche link in più ai nomi e alle citazioni (senza trasformare la lettura in un percorso a ostacoli) non guasterebbe. Potrebbe destare interesse per le tue letture, stimolare il senso critico. E’ solo l’invito a tentare avvicinamenti linguistici a beneficio di “chi non ha letto Freud” eppure “può vivere cent’anni”, per parafrasare un menestrello moderno che non è più fra noi. No, non per scadere, ma per innalzare quelli che stanno più
sotto (Gramsci?), o, per meglio dire, oggi, ‘sopra’, in quella superficie pseudoculturale dove la visibilità non sta in rapporto dialettico con ‘i moti di scomparsa’. Il beneficio per te? Forse solo l’occasione per incontri più pericolosi (Popper?)
Con bonarietà e, soprattutto, speranza.
Grazie.