
di VLADIMIR D’AMORA
Mia madre
Certo che entrare nella pelle di ogni altro è impraticato,
ma penetrare nella madre, ch’è una femmina, è inassumibile.
Lì tutto si sta, muto che indietro volto spazializza.
Lì le facce non hanno più da chiedere,
una sola, ed era la sua, manco ringraziava.
Di che, poi, una madre dovrebbe ringraziarmi?
Quale parto,
allucinante e semplice, aveva da spartire?
Sì, era con me. E allora erano volte
che la sventravo con le verità mie,
verità da specchio quando ne presceglievo una,
tosto e ipotetico. Le aprivo la bocca,
dalla forza divaricata,
dettavo per amore, per sputarle in gola
lo schifo di una qualsiasi ventura.
Toccata alla sua giovinezza, e gettata a me,
che ripetevo un noi montato a storia
come sciupio di giorni.
Mia madre non lo capiva il cazzo, ma sapeva respirare.
Sapeva tenersi nelle lacrime
che inghiottiamo dolci quando non c’è ragione
di fiatare ancora. Perché io mi sforzavo
di fare il raziocinio, quanto a lei imponevo giorni da lei
alle maschere dovute tutti donati.
Mia madre, quella che non voleva nulla da scordare.
Mia madre che ripassava le stelle alle sue piante.
Radici si mordevano le une e le altre.
Affogate dalla sua cura smarrita,
le ridevano in faccia stagioni e cangianti,
come metafore d’ebrei monadici. In quelle notti,
mia madre,battute da luce infame, che non saprò io concepire.
Mia madre a rassettare gli scivoli che si perdevano
nelle mansioni eterne,
e da sempre a oggi da oggi inevitate.
Ma moleste.
Io mi facevo le sue storie,
uno e uno i membri nella carne sua
acida odorosa poggiavo il mento nella mia stessa mano
insalivata che mi saziasse col pane e la chimera.
Volere la morte nell’attesa, sì da spezzarsi i denti,
come nel sogno. Quello.
Nella volta di una mente, per quanto calpestio
possa sbocciare nelle figure prime,
nell’appendici potenti di cangiarsi,
restano tonfi putridi.
Mia madre era l’asintoto,
chiavata e a sé contemporanea, inimmagazzinabile.
Rendeva la mia legge giustizia di vita,
il mio pudore a uno schifo preveggente.
Mia madre doveva esser stata figlia, e separata,
liquidabile. Quanti dei miei vizi,
e dei miei tormenti nei miei muscoli piegati
dal seme tratto a gioco,
quanto doveva risuonarle vitreo e
attentato dall’interiore, mio sfiorire. Solo la morte,
l’avrebbe fatta doppia, madre mia sorella,
nel sangue che saggiò sorda.
uau….
le donne incarnano molteplici figure mitologiche femminili, da Demetra a Medea, da Afrodite ad Atena, da Estia a Persefone. Qui ci sof-fermiamo su quella dea che in qualche modo ha il proprio significato nella relazione col materno terreno.
non vedo dee…vedo un ondivago presentare linguaggio… irradiante umore da…parto…glorioso…a prescindere dal…colto………bellissima …
ah, ma allora è anche bravo poeta
eccezionale
Bella, si. ma motivo l’aggettivo. Ha un ritmo assiepante: la figura della madre sgocciola fra la carne, la si deve (ri)conoscere epurando quell’io che la ricorda. La “figura prima” e il figlio ad inseguirla per ricondurla in luoghi dove nemmeno Edipo avrebbe varcato la soglia. E la soglia dev’essere già nell’oltre, visto la chiusa. A futura memoria, allora, e dopo aver squagliato il grasso che ossida i ricordi, a perpetuo amore.
NON POESIA, MA PIOGGIA FITTA FITTA DI RINVII, ESTREMA QUALITÁ DELL’ESPRIMERSI SENZA DIRE NIENTE, NEL DIRE QUASI TUTTO…INTERPRETAZIONE LIBERA DELLA CARNE, MATERIA RISIBILE, UN BUCO NEL CUORE…ANGOSCIA SENZA SCAMPO…QUESTO É CIÓ CHE SENTO E CHE DICO.
ma perchè? ma perchè ci sono delle persone che devono usare per forza dei termini complicati solo per dimostrare di aver letto il dizionario dei sinonimi e dei contrari? Ma perchè questi poetastri creano la difficoltà, che tra l’altro suono male per chi legge, solo per alimentare l’ego? Ma perchè, seppur in un mondo libero dove ognuno scrive come gli pare, non si è ancor capito che la semplicità-come nella vita- è l’unica cosa davvero universale ed eterna?