Pier Paolo Pasolini

Leggere Pasolini nel silenzio e nell’assenza: questo non è un coccodrillo

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

Ci risiamo. Ogni anno il due novembre c’è l’usanza… No, non è  A’ livella, celeberrima cantata funebre del principe De Curtis, no. E’ una giaculatoria triste, monocorde nella sua polifonia, che si ripete ormai da trentasette anni a questa parte.

Il due novembre, infatti, è un anniversario straziante: Pier Paolo Pasolini muore atrocemente su una spiaggia di Ostia, mentre una luce livida sbava brina e sangue sulle ultime ore della notte, nel giorno dedicato ai morti. Eccellente scelta per un poeta come Pier Paolo, tremenda responsabilità per gli erme-nauti della galassia intellettuale di Pasolini.

Ma qualcosa, a trentasette anni dalla sua morte, continua a sorprendere con la sua agghiacciante “regolarità di marea”, come direbbe lui stesso.

E’ la tenacia, l’ostinazione, la monolitica abnegazione con cui gli avventori del banchetto funebre di Pier Paolo continuano a cibarsi del corpo morto del poeta che, conteso-vilipeso-osannato-santificato-tracannato-imbalsamato-evocato-adulterato, diviene un inerte relitto di carne e parole, incrostato soltanto di egotici ed evocativi lamenti di prefiche. Orfani, vedove, imbonitori da Barnum mediatico, giornalisti di primo pelo con pedigree al seguito, psicotici con medium nella pochette, militanti ebeti e afasici della destrasinistracentropiùsiamomegliostiamo, borgatari cinquantenni con rivelazioni sensazionali fresche di appena un trentennio. Potremmo continuare per pagine e pagine, il florilegio-sacrilegio è appena all’incipit… Ma a chi giova tutto ciò? A Pasolini, alla memoria del suo straordinario talento, della sua vivida intelligenza, della sua unica e irripetibile parabola umana e poetica?

No. Noi di Critica Impura siamo stanchi, sfibrati, sfiniti. Non ne possiamo più di Petites Madeleines  al gusto di Pasolini, non ne possiamo più di coccodrilli di pezza spacciati per esegetiche illuminazioni.

Quest’anno in occasione dell’anniversario della sua morte, noi preferiamo tacere, consegnandoci al silenzio dell’assenza: intendiamo dire assenza di articoli saggistici e di ampio respiro su Critica Impura e assenza di contributi di qualsiasi natura esegetica in modo tale da lasciare la parola soltanto a lui, a Pier Paolo, con la volontà però da parte nostra di unirci alla sua voce, per rivolgere a tutti un accorato invito alla lettura appassionata e feroce di Pasolini, alla comprensione folgorante delle sue parole e del suo sguardo sul mondo. Leggiamolo Pier Paolo, scontriamoci con Pier Paolo, incontriamoci con Pier Paolo.

Socraticamente ne sarebbe stato lieto, lui che possedeva la grazia della mitezza e del rispetto per l’altro, chiunque fosse.

Antonella Pierangeli

Il canto popolare – 1953

(da Le Ceneri Di Gramsci, Milano,1957)

Improvviso il mille novecento

cinquanta due passa sull’Italia:

solo il popolo ne ha un sentimento

vero: mai tolto al tempo, non l’abbaglia

la modernità, benché sempre il più

moderno sia esso, il popolo, spanto

in borghi, in rioni, con gioventù

sempre nuove – nuove al vecchio canto –

a ripetere ingenuo quello che fu.

Scotta il primo sole dolce dell’anno

sopra i portici delle cittadine

di provincia, sui paesi che sanno

ancora di nevi, sulle appenniniche

greggi: nelle vetrine dei capoluoghi

i nuovi colori delle tele, i nuovi

vestiti come in limpidi roghi

dicono quanto oggi si rinnovi

il mondo, che diverse gioie sfoghi…

Ah, noi che viviamo in una sola

generazione ogni generazione

vissuta qui, in queste terre ora

umiliate, non abbiamo nozione

vera di chi è partecipe alla storia

solo per orale, magica esperienza;

e vive puro, non oltre la memoria

della generazione in cui presenza

della vita è la sua vita perentoria.

Nella vita che è vita perché assunta

nella nostra ragione e costruita

per il nostro passaggio – e ora giunta

a essere altra, oltre il nostro accanito

difenderla – aspetta – cantando supino,

accampato nei nostri quartieri

a lui sconosciuti, e pronto fino

dalle più fresche e inanimate ère –

il popolo: muta in lui l’uomo il destino.

E se ci rivolgiamo a quel passato

ch’è nostro privilegio, altre fiumane

di popolo ecco cantare: recuperato

è il nostro moto fin dalle cristiane

origini, ma resta indietro, immobile,

quel canto. Si ripete uguale.

Nelle sere non più torce ma globi

di luce, e la periferia non pare

altra, non altri i ragazzi nuovi…

Tra gli orti cupi, al pigro solicello

Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini

d’Ivrea gridano, e pei valloncelli

di Toscana, con strilli di rondinini:

Hor atorno fratt Helya! La santa

violenza sui rozzi cuori il clero

calca, rozzo, e li asserva a un’infanzia

feroce nel feudo provinciale l’Impero

da Iddio imposto: e il popolo canta.

Un grande concerto di scalpelli

sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,

sui Comuni sbiancati dalle Alpi,

suona, giganteggiando il travertino

nel nuovo spazio in cui s’affranca

l’Uomo: e il manovale Dov’andastà

jersera… ripete con l’anima spanta

nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù

resta nel popolo. E il popolo canta.

Apprende il borghese nascente lo Ça ira,

e trepidi nel vento napoleonico,

all’Inno dell’Albero della Libertà,

tremano i nuovi colori delle nazioni.

Ma, cane affamato, difende il bracciante

i suoi padroni, ne canta la ferocia,

Guagliune ‘e mala vita! in branchi

feroci. La libertà non ha voce

per il popolo cane. E il popolo canta.

Ragazzo del popolo che canti,

qui a Rebibbia sulla misera riva

dell’Aniene la nuova canzonetta, vanti

è vero, cantando, l’antica, la festiva

leggerezza dei semplici. Ma quale

dura certezza tu sollevi insieme

d’imminente riscossa, in mezzo a ignari

tuguri e grattacieli, allegro seme

in cuore al triste mondo popolare.

Nella tua incoscienza è la coscienza

che in te la storia vuole, questa storia

il cui Uomo non ha più che la violenza

delle memorie, non la libera memoria…

E ormai, forse, altra scelta non ha

che dare alla sua ansia di giustizia

la forza della tua felicità,

e alla luce di un tempo che inizia

la luce di chi è ciò che non sa.

Pier Paolo Pasolini

(da Le Ceneri di Gramsci, Milano,1957)

Pier Paolo Pasolini legge Il Canto popolare

7 pensieri su “Leggere Pasolini nel silenzio e nell’assenza: questo non è un coccodrillo

  1. Come non concordare … vale per lui e per altri ancora, che risorgono per le sole date.
    Fortunatamente Pasolini resiste nella memoria di tanti, ogni giorno. Niente di lui ci ha abbandonato.

  2. Un necessario invito al rifiuto della retorica e della banalità. Di sicuro lo avrebbe apprezzato anche Pasolini. Soprattutto per l’esortazione, implicita ma quanto mai chiara ed ineludibile, a ricercare, con forza, con tenacia, ciò che di autentico e di bello, magari terribilmente bello, esiste ancora, nella vita e nella scrittura, lontano dai cliché e dai luoghi canonici.

  3. Parole necessarie e decisamente fuor di retorica, come si è già fatto notare… Vale tanto per il circo Barnum quanto per molti pseudo-intellettuali che ancora banchettano sul corpo morto di Pasolini, un cadavere insepolto che si fa cronicamente fantasma, ogni due novembre, senza mai ‘infestare’ veramente. Nè, quindi, poter essere rielaborato adeguatamente.

  4. Per svecchiare queste celebrazioni, magari per il prossimo anno, la magistratura e i judokas delle commemorazioni indolori potrebbero rivelare un po’ di verità sull’assassinio. Così, tanto per cambiare registro, per provare un brivido di nuove esperienze emozionali.

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