Nichilismo, tautologia, poietica e travaglio dell’aletheia: una riflessione sull’impostura filosofica, per tornare al punto

La notte in cui tutte le vacche sono nere - Andrea Silva 2012
La notte in cui tutte le vacche sono nere – Andrea Silva 2012

 Di SONIA CAPOROSSI

Andiamo subito al dunque, che è poi il senso stesso di questi miei brevi appunti, gettati giù, alla rinfusa, in seguito ad infinite discussioni sul web e di persona, con amici, colleghi e conoscenti, circa lo statuto della filosofia del Novecento ed oltre.

C’è oggi, da ogni parte, una sorta di astio riposto e malcelato nei confronti della volontà di andare al punto, che non si giustifica se questa volontà viene concepita giustamente come tentativo, ricerca, argomentazione con un fine che non deve essere precostituito in via ipotetica preliminare, giacché l’individuazione di un riscontro qualsiasi dell’ipotesi preliminare, in quel caso, sarebbe impostura, e non certo, come occorre che invece sia, critica, sonda, scandaglio, tentoni.

“Ma come si fa in filosofia ad andare al punto, oggi: non esiste neanche un fine”, si risponde da più parti: certo, un fine non esiste almeno quanto non esiste più la medievale, confortante verità, e su questo, anche se bisogna accordarsi su che cosa significhi, non ci piove. Tuttavia, se pure l’essere non è pacificamente dato, il nulla non è il primum, giacché se lo fosse, insieme alla morte di Dio morirebbe anche l’uomo; e l’hanno dato per spacciato in molti, infatti, senza comprendere che per dar morto qualcuno occorre uno che dal di fuori gli scriva il necrologio, uno che sia vivo vegeto e pulsante: io sono morto. Dunque, se lo dico, sono morto o son vivo?

Qualora non esista fondamento se non struttura, quanto può risultare stridente la frase attraverso il cui enunciato un nichilista relativista affermerebbe di essere assolutamente convinto che tutto è relativo? L’inghippo è logico, è un pasticcio del linguaggio. Ed è questo proprio il bello del linguaggio, il fatto di render logici i paradossi logici, tant’è vero che si colgono, ma non per questo si possono sciogliere con migliore ventura. Ma allora, su quali basi si fonda una qualsivoglia argomentazione che pretenda di rendere ragione?

L’argomentazione come modus operandi è vivida in ogni indagine filosofica di tipo socratico, quella che affonda le radici nella millenaria domanda del Tì Estìn. Il punto è che da quando qualcuno ha detto che questa domanda non ha più senso, nessuno se la pone più. Certo che la domanda non ha senso se cerca la verità assoluta, perché, se io sono convinta che la verità assoluta non esista (e ne sono convinta assolutamente, in una contradictio in terminis subliminale), però dove sta scritto che una delle domande cardine della filosofia non ce la possiamo più fare? Se eliminiamo questa domanda dal novero dei domandabili, ammazziamo diversi organi della filosofia, e soprattutto, la colpiamo dritta al cuore.

E dunque, torniamo al punto, non chiamiamo filosofia quel modo di pensare che questa domanda non solo non se la pone, ma afferma anche che non possa essere posta: perché filosofia, quel modo di pensare, carissimi amici, non è. Così come non lo sono questi appunti, ad essa e ad un suo recupero, si spera, semplicemente preliminari. Ma andiamo per ordine e passiamo alla sordida ed annosa questione del relativo.

Il fatto che oggi i più siano assolutamente convinti del relativo, com’è ovvio, consiste in una tautologia bella e buona; questo lo si sa da Wittgenstein, in quanto la forma logico proposizionale soggetto-copula-predicato nominale “x è y” è la tautologia per eccellenza. Ma così, non mi stancherò mai di ripeterlo, proprio così funziona il linguaggio! Così funziona il nostro sistema di riferimento mentale! E allora, che dobbiamo fare, che strategia o forma di comportamento dobbiamo tenere, forse dovremmo aspirare a raggiungere l’eterna afasia?

Certo, la pretesa di originalità, nel pensiero filosofico, è un miraggio. Non c’è un solo filosofo del passato, a parte forse Talete, se non lo si consideri troppo influenzato dal mythos, che abbia pensato in modo autonomo.

Per Hegel la filosofia è la sua storia, Spinoza stesso può essere considerato un “anti-tropo” perché ad altri si è contrapposto; e ciò, mi si perdoni il gioco di parole, presuppone un presupposto, un precedente.  In questo momento, lettore, tu sei hegeliano, anche per te la filosofia è la sua storia:  ora, prova a invertire la rotta in una specie di rivoluzione copernicana ormai quasi incomprensibile ai più. Ci riesci?

È questo il punto: “La filosofia lascia tutto com’è”; e la potenza eversiva di quest’assunto wittgensteiniano è ciò che fa impallidire le filosofie falsamente eversive e che suscita in esse reazioni scomposte. Pensiamo ad un Deleuze che enumera l’alfabeto della filosofia nella famosa (e fumosa) intervista video, e se la prende con Wittgenstein con astio e rancore mascherati da scherno: è il prototipo di un comportamento degno di Cafaia, il Gran Sacerdote che per calcolo politico di autoconservazione vuole denigrare e mettere a morte Gesù come empio; è una forma di reazionarismo conclamato contro la vera rivoluzione. Eppure, con quella frase, Wittgenstein non dice altro che “torniamo al punto, torniamo al dunque”; e questo punto, questo dunque, non son le parole in quanto tali, ma il loro senso e il modo in cui arriviamo a coglierne uno fra molti e poi lo condividiamo in un orizzonte di senso comune. Altrimenti, io piglio una parola presa dal campo semantico e d’uso della botanica, rizoma, ci invento sopra un senso ad hoc come fanno i romanzieri, e ho fatto la mia filosofia; senza peritarmi di palesare se un qualcosa di simile al senso che attribuisco neologisticamente alla parola rizoma si sia dato, nella storia della filosofia, come pure è, già in precedenza; e senza domandarmi, in tutta onestà, se questa operazione di arbitraria attribuzione di senso che invece opero rientri nel campo della poiesis, piuttosto che della filosofia.

E allora, ecco il suggerimento che bisogna cogliere: torniamo al  punto, torniamo al dunque. Torniamo prima a ciò di cui vogliamo parlare. Torniamo, in una parola, alla cosa.

Beninteso: io non ho niente contro la parole. Ci sono i romanzieri, ci sono i filosofi, e sempre più spesso dal Novecento in poi, ci sono i romanzieri – filosofi; il punto è che quando spingi avanti la parole, fai letteratura, quando spingi avanti la chose, non come oggetto, ma come concetto, fai filosofia. E questa constatazione, di fatto, offre il destro al possibile ritorno alla concezione di un fondamento di senso comune. Ovvero, in un certo qual modo, alla fuoriuscita dall’impostura intellettuale del Novecento, da un modo di “filosofare” che troppo spesso si è peritato di operare forzature nel senso comune, come fanno invece legittimamente i poeti, scardinando i sensi e camminando sul discrimine funambolico del non senso.

La maggior parte delle scritture filosofiche del Novecento partono da basamenti anapodittici, ed in quanto tali hanno l’incipit di narrazioni (come le chiamava, finalmente in modo esplicito, Lyotard, e come le chiama oggi, d’accatto, lo studentello di filosofia Nichi Vendola). Anzi, di più: sono narrazioni. Ma così facendo, hanno rischiato di perdere il proprio statuto filosofico, la propria condizione di filosofie. Citatemi un pensiero, un solo pensiero che non parta da basi assiomatiche nel Novecento. Il residuo dogmatico è proprio lì. L’inghippo è nel fumo venduto dal linguaggio. E questo vuol dire anche che la filosofia del Novecento è più antica di quanto si pensi.

Il problema è nella forma logica normale “x è y”; “x è y”, la forma della definizione: tutto l’inghippo sta lì. Ogni volta che definiamo qualcosa partendo da basi assiomatiche, stiamo dogmatizzando, perché ipostatizziamo un dogma presupposto, un dato per certo anapodittico, un quid indimostrato. Occorre ripartire, quindi, da una presa di posizione forte contro il nichilismo imperante ed il pensiero debole, che è debole non perché non possa essere forte, ma perché non fa palestra, cercando di analizzare al fondo i modi e gli usi del nostro linguaggio.

Qualcuno potrà obiettarmi che non si possa semplificare così tanto, nel senso che la complessità concettuale di un concetto non è ridotta a funzione. Ma io sto parlando dei presupposti, nel senso che praticamente tutta la filosofia del Novecento è antirazionalistica ed anticritica e tuttavia, guarda caso, assume il procedimento kantiano come fondamento. Persino l’ontologista contemporaneo prende il concetto di essere e per costruirci sopra la propria filosofia, parte da presupposti indimostrati ovvero definisce l’essere in qualche modo: il suo. Il procedimento, come si vede, è assiomatico, ed in esso, precisamente, trova sede quel residuo di dogmaticità che permane nel kantismo.

Facciamo un esempio. Euclide, definizione del punto, prima proposizione degli Elementi: “punto è ciò che non ha parti”. E’ un dato per certo, un presupposto, un postulato. Ancora oggi, il punto è ciò che non ha parti. Ma siamo proprio sicuri che sia così, non certo in senso oggettuale, quanto concettuale, o siamo semplicemente partiti da un presupposto, da un incipit di narrazione?

Questo è il metodo assiomatico – scolastico, noto a tutte le matricole delle facoltà di filosofia e di matematica, che serve per le dimostrazioni perché per svolgerle bisogna partire pur da qualche cosa. La circolarità ermeneutica, però, ne è esclusa, perché si tratta di un processo lineare ed antico come Euclide; apparirà chiaro, dunque, come la forma logica normale “x è y” si trova ancora alla base di gran parte della filosofia di ogni tempo e, siccome proprio così funziona il linguaggio, anche della filosofia del Novecento, nonostante le dichiarate morti e parricidi (della metafisica, del razionalismo, di Hegel, di Dio, dell’uomo e via discorrendo) che lungo il suo corso si sono avvicendati; proprio perché parte da presupposti, da incipit di narrazioni, anzi di più: da prologhi taciuti, già detti in precedenza da altri; ed in questo esser taciuti, risiede l’impostura; ché se fossero detti, non lo sarebbe più.

Appare così palese che quest’impostura filosofica del Novecento dice le stesse cose di prima in modo diverso, è rivoluzionaria per finta, e dunque, non scopre nulla, ma “lascia tutto com’è” (Wittgenstein). Proprio per questo si differenzia dalla scienza, e ciò non sarebbe un male, se non l’avesse in larga parte fagocitata, ingabbiando la scienza nelle vetuste sbarre dell’indecidibilità, facendo in modo, insomma, che si passasse da “la filosofia lascia tutto com’è” a “la scienza lascia tutto com’è”: senza la minima possibilità di scoperta, con la sola funzione replicante della differenza e della ripetizione.

Ecco perché occorre urgentemente una rivoluzione che riapra il campo (scientifico) ad una logica della scoperta e, di conseguenza, ad una circolarità ermeneutica vera, non dissimulata dietro a rivoluzioni di pensiero con i piedi di argilla. Si potrebbe quindi tentare di attuare una proposta: si può cominciare cambiando impostazione e metodo, ovvero passando dal metodo assiomatico di derivazione aristotelica al metodo euristico di ascendenza platonica, come nell’ambito degli studi di logica matematica dello Studium Urbis già si tenta di fare da una decina d’anni [1]. Da un metodo antico ad uno addirittura precedente, ma caduto nel dimenticatoio, il quale però sembra un buon punto di partenza per attuare scoperte scientifiche che non siano semplicemente forme di impostura velate di neologismi.

Infatti, occorre ribadirlo, i filosofi di oggi non scrivono romanzi, ma narrazioni, cioè aleatorietà indimostrate, il ché, per un filosofo, è la morte, a meno che non abbia già ucciso la scienza, la conoscenza, ed allora non sia più un filosofo, come infatti a me da un bel pezzo pare e come ho cercato di dimostrare in precedenza applicando quest’analisi, ad esempio, alle nuove metodologie storiografiche del Novecento (si veda qui, qui e qui[2].

Se il trilemma di Munchahusen, nella sua doppia formulazione, afferma che non c’è modo logico per affermare verità assoluta, trovandomi d’accordo, il problema è quanto il costruttivismo abbia utilizzato quest’affermazione, nella terza modalità, quella assiomatica anapodittica, per dare il via al creazionismo neologistico e alla notte in cui tutte le vacche sono nere. Ovvero: va bene, conversando con Apel, con Popper, con Heisenberg, con Goedel eccetera che la verità assoluta non si dia in quanto tale. Ma non va bene quando, sulla base di questa certezza (“Assoluta?”) si dà il via libera alla sparatoria nel mucchio, autorizzandosi alla libera inventio concettuale, che è quanto io penso abbia fatto, ad esempio, il povero Deleuze, spesso oggetto esemplare delle mie critiche, in quanto le sue neoformazioni concettuali sono troppo marcate in questo senso, derivando da opere di inventio e poietica adattate surrettiziamente a dimostrare tesi di partenza date per buone. Laddove, beninteso, è la dimostrazione che si piega all’ipotesi, non il contrario. Catherine Clément, in un colloquio del 1980 con Gilles Deleuze intitolato Dall’Edipo a Millepiani, riporta, e ciò si prenda come un dato estremamente significativo quale è: “Oggi, ogni violenza, verbale o scritta, si è come sopita da sé per eccesso d’uso: tutto è già stato attaccato. Del resto, già nel 1972, quando obiettavo appunto a Gilles Deleuze, che tutte le critiche mosse contro Freud non erano delle “novità”, mi ricordo di averlo sentito rispondere: “ – mi diceva – ma noi, noi siamo degli stilisti[3]. Deleuze e Guattari sapevano perfettamente di scrivere narrazioni; Foucault, molto onestamente, non si peritava di definirsi filosofo; ed il loro bello stile è indubitabile. Allora perché li consideriamo tali noi?

Per fare un esempio, non è un caso che lo stesso Gianni Vattimo riconosca in Thomas S. Kuhn una certa “estetizzazione della storia della scienza” come “sintomo e manifestazione conclusiva” di ciò che “si può chiamare la centralità dell’estetico […] nella modernità”, “non tanto o solo dell’estetica come disciplina filosofica, ma dell’estetico come sfera dell’esperienza, come dimensione d’esistenza che assume così un valore emblematico, di modello, appunto, per pensare la storicità in generale” [4]. Ma in questo assunto, Vattimo non si accorge di fare proprio al caso nostro e poco al caso suo, perché, per il suo tramite, si potrebbe definire ed avvalorare ciò che sto affermando sia successo, ovvero la malaugurata perdita di scientificità in senso storico da parte delle varie scienze gnoseologiche ed epistemologiche, e si potrebbe tentare una definizione precipua del processo di sviluppo di quella inventio costruttivistica, in filosofia, che sto cercando di delineare come accaduta in senso storico.

È certo, infatti, che sia avvenuta un’estetizzazione dei fenomeni storici, fra cui la scienza, proprio in virtù della quale Vattimo dà per buono il pensiero debole (col ragionamento implicito che se ciò è accaduto in senso storico, il pensiero debole doveva in qualche modo manifestarsi come unica via per forza di cose: ma questo è un peccaminoso ragionamento deterministico: debole sì, ma in un altro senso!).  È accaduto, più semplicemente, che ad un certo momento della nostra storia abbiamo evinto la tautologia essere la base, il fondamento del linguaggio stesso. Infatti, senza processo tautologico, neanche penseremmo: ecco la grande presa di coscienza del presunto pensiero debole, in realtà, hegelizzando, “la festa e la forza” del pensiero. Rimandiamo la mente al Tractatus wittgensteiniano come al punto di svolta in questo senso, alla pietra miliare dopo la quale non si può più tornare indietro. Si vede bene che l’aletheia è ormai irrimediabilmente problematizzata; che non vuol dire dileguata, ma discussa in modo tale che qualsiasi punto di osservazione, heisenberghianamente, modifica e deforma l’intero sistema veritativo; compreso, si badi bene, quello dubitativo. Allora, che senso ha parlare di pensiero debole contrapposto ad un pensiero forte, se il linguaggio è tautologico perché così è, se l’aletheia manifestantesi in absentia è ed è stata sempre la sua stessa natura? E questa posizione non necessariamente è nichilistica: nichilismo è affermare assolutamente che la verità non esista, non certo riconoscerne il travaglio, in un parto cesareo in cui il forcipe ferisce il reale nel tentativo di afferrarlo per successive approssimazioni. Nichilismo è dare per morta la scienza, la scoperta, la logica dei sistemi aperti, affermando invece falsamente di starci dentro e di esserne i portavoce proprio in virtù di quella presunta morte, quando invece si rimane immersi nelle pastoie immobilizzanti dell’assiomatica, dell’aristotelismo e dei sistemi chiusi.


[1] Si tratta di un metodo logico – matematico molto antico ma caduto in disuso e dimenticato, che è tornato in auge in seguito alle recenti ricerche di studiosi romani nel campo della logica matematica (Carlo Cellucci nel suo Le ragioni della logica Bari – Roma 2005 e in studi successivi, e il suo giovane allievo Emiliano Ippoliti).

[2] Nel mio saggio sulla scuola delle Annales, pubblicato in due puntate su Critica Impura a marzo del 2011 e successivamente, in forma unitaria riveduta e corretta, su Storia & Storici esattamente un anno dopo, decostruisco l’istanza pseudoscientifica di quella scuola storiografica con queste stesse armi analitiche, individuandone le magagne al fondo.

[3] In Gilles Deleuze, Immanenza, Milano – Udine 2010, p. 33.

[4] G. Vattimo in La fine della modernità, Milano, p. 103, riferendosi a T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino 1967.

24 pensieri riguardo “Nichilismo, tautologia, poietica e travaglio dell’aletheia: una riflessione sull’impostura filosofica, per tornare al punto

  1. “Eppure, con quella frase, Wittgenstein non dice altro che “torniamo al punto, torniamo al dunque”; e questo punto, questo dunque, non son le parole in quanto tali, ma il loro senso e il modo in cui arriviamo a coglierne uno fra molti e poi lo condividiamo in un orizzonte di senso comune.”

    “va bene, conversando con Apel, con Popper, con Heisenberg, con Goedel eccetera che la verità assoluta non si dia in quanto tale. Ma non va bene quando, sulla base di questa certezza (“Assoluta?”) si dà il via libera alla sparatoria nel mucchio, autorizzandosi alla libera inventio concettuale, che è quanto io penso abbia fatto, ad esempio, il povero Deleuze,>>

    <<Si vede bene che l’aletheia è ormai irrimediabilmente problematizzata; che non vuol dire dileguata, ma discussa in modo tale che qualsiasi punto di osservazione, heisenberghianamente, modifica e deforma l’intero sistema veritativo; compreso, si badi bene, quello dubitativo."

    "Allora, che senso ha parlare di pensiero debole contrapposto ad un pensiero forte, se il linguaggio è tautologico perché così è, se l’aletheia manifestantesi in absentia è ed è stata sempre la sua stessa natura? E questa posizione non necessariamente è nichilistica: nichilismo è affermare assolutamente che la verità non esista, non certo riconoscerne il travaglio"

    Ottime considerazioni, le condivido in pieno.

  2. L’argomento così vasto e generale, così dettagliato, così variamente argomentato è un invito a nozze per la discussione. Un commento serio dovrebbe prendere come oggetto, uno alla volta tutti gli spunti cui l’autrice accenna e trasformarli in dibattito. Questa è anche la mia intenzione ma ringrazio per l’impostazione generale che da sfogo a un disagio che molti cultori della filosofia sentono. Mi unisco all’invettiva ed enumero alcuni spunti di discussione:
    il problema del nulla
    il problema della verticalità del linguaggio,
    il problema della tautologia come struttura profonda del linguaggio,
    il problema del senso filosofico di quello che viene indicato come il secondo Wittgenstein,
    il problema della narratività di tanta filosofia,
    il problema dell’impotenza della filosofia
    il problema del metodo assiomatico come paradigma,
    Il secondo e l’ultimo mi paiono collegati e così il quinto e il sesto.

    Cominciò dal problema del Nulla su cui concordo. Ho recentemente letto una ampia recensione su un saggio di Givone che pone appunto il Nulla come il Grande Assente nella storia della disputa filosofica. Non mi pare proprio, visto quanto s’è parlato del Nulla nel secolo scorso.
    Passo al problema della verticalità del linguaggio.
    La signora Caporossi mette a ragione in evidenza una caratteristica autodistruttiva del linguaggio. Una caratteristica che però, a mio avviso non è peculiare del linguaggio ma del paradigma su cui il linguaggio è addivenuto. Quando teorizziamo sul mondo produciamo teorie sul mondo secondo un meccanismo mostruoso. Il meccanismo è questo: si costruisce una teoria sul mondo e ci si chiede se è vera; per rispondere a questa domanda bisogna, però, sapere cosa si intende per “verità” e quindi avere una teoria a questo riguardo. In tal modo avremo non più una sola teoria, ma due ed entrambe dovranno, essere giustificate da altre teorie e queste, a loro volta da altre. In fondo la teoria di Tarski produce questo meccanismo; costruisce una semantica per il concetto di “verità” e ottiene come risultato una gerarchia ascendente senza fine di linguaggi, ciascuno con il suo concetto di verità. Ognuna di questa verità verrà definita, sempre, nel linguaggio di ordine superiore rispetto al linguaggio cui si riferisce. Il risultato sarà, non una definizione, ma un sistema di definizioni che, in definitiva, non definisce.
    E’ lo stesso meccanismo che infesta il motore immobile e le cause incausate. produzioni di catene gerarchiche che autoproliferano indefinitamente versi l’alto e obbligano, per por fine a questa proliferazione, a inventare il motore che muove se stesso o la causa che causa se stessa. Vere conclusioni ma anche gravi contraddizioni con germi antinominici.
    Nel linguaggio, preteoria entro cui trovano casa tutte le teorie e le filosofie, il meccanismo genera quelle antinomie che tanto preoccuparono Frege, Russell e Wittgenstein. Il primo ritenne l’antinomia logica di Russell irrimediabile, dichiarò morto il suo programma di fondare la matematica sulla logica e cessò di filosofare, il secondo si arrabattò a risolvere l’enigma proponendo la sua teoria dei tipi e degli ordini, il terzo, prima inventò la teoria raffigurativa del linguaggio come antidoto alla bestiale teoria dei tipi, e successivamente si adoperò per sdrammatizzare il problema come in effetti fecero tanti matematici secondo i quali si poteva tranquillamente continuare a produrre calcoli e teoremi con l’avvertenza di non coinvolgere l’antinomia. In fondo Wittgenstein suggerisce di mettere cartelli “Attenzione antinomia” e di lasciare lavorare in pace i matematici. Per lui le antinomie sono fastidiose testimonianze della nostra malattia filosofica..
    Non dico altro e mi limito a osservare che il paradigma verticale-gerarchico, vincente nella lotta evolutiva tanto da indurci a pensarlo come “Il” ossia l’unico di cui disponiamo per spiegare il mondo. se ha aiutato l’uomo a sopravvivere nella caccia e nella raccolta, non basta per comprendere le nuove complessità. Cancri o buchi neri che non danneggiavano i nostri progenitori, spingono oggi verso altre concettualità come quella circolare e quella destinale in cui tutto cambia; anche il concetto di ‘verità’

    Sulla forma “X è Y” identificata come tautologia ritenuta dalla signora Caporossi la base del funzionamento del nostro linguaggio e del nostro funzionamento mentale, ho già discusso e finirei per ripetermi. Sono in disaccordo ma non in misura così ampia come qualche settimana fa. Provo parlarne brevemente.
    Ogni informazione registra una differenza discreta. Se non ci fossero differenze discrete di colore non esisterebbero parole come “ ROSSO”, “VERDE o “GIALLO “ e neppure esisterebbe la parola “ COLORE”, rispetto alla quale quei termini sono sub-ordinati; in un ipotetico mondo tutto rosso la parola “ROSSO” non avrebbe senso come non ne avrebbe la proposizione “QUESTO È ROSSO” Che informazione potrebbe dare, in un mondo tutto di colore rosso, una proposizione che ci dice che una di quelle cose è rossa? Come già detto nel linguaggio degli abitanti di quel mondo non avrebbero ragione d’esistere né la parola “ROSSO” né la parola” COLORE”.
    In generale si può quindi accettare che parole, proposizioni, informazioni esistono solo se: 1) esistono differenze discrete e 2) esistono classificazioni che codificano queste differenze. L’esistenza della parola “rosso” ci dice che esistono altri colori differenti dal rosso e che questi colori sono inseriti in una classificazione anche minima quale quella espressa dalla alternativa “rosso o non rosso”.
    Alla base dell’informatività di un enunciato sta, dunque, l’esistenza di un sistema di differenze organizzate in una qualche maniera ( ad esempio in una classificazione). Ma questo non è sufficiente; quando si afferma, ad esempio, “QUESTO È ROSSO”, si presuppone non solo di essere compresi e di trasmettere un’informazione, ma anche che questa affermazione sia vera o falsa. In altre parole noi comprendiamo quell’informazione se sappiamo, non solo che una cosa può avere questo o quel colore, ma che uno di questi deve averlo. L’affermazione “PIOVE “ è sensata e ci dà un’informazione solo perché è una parte della tautologia “ PIOVE O NON PIOVE”; analogamente la proposizione “A è ROSSO “ ci dà informazione solo perché è parte di una tautologia che comprende una pur minima classificazione dei colori quale “ROSSO O NON ROSSO”.
    Se immaginiamo di operare in un mondo finito in cui non esistano asserzioni di generalità, possiamo affermare che in quel mondo i concetti di differenza, d’informazione, di classificazione e di tautologia, si presuppongono l’uno con l’altro e che non può esistere enunciato informativo senza che sia parte di una tautologia. Da tutto ciò non è, però, lecito pensare che, dato un enunciato, sia univocamente determinata la tautologia che ne sostiene la decidibilità. Non è necessario per la comprensione che parlante e ricevente presuppongano la stessa tautologia. L’affermazione “QUESTO È ROSSO” viene compresa, anche se presuppone nel parlante una tautologia basata su una classificazione di sei colori e nell’ascoltatore solo il concetto che una cosa o è rossa o non è rossa, anche se in un simile contesto il senso e l’informazione non saranno gli stessi. In ogni caso almeno una tautologia deve supportare un enunciato come presupposto della sua informatività, del suo senso e della sua decidibilità. Il fatto che siano possibili diverse tautologie a supporto di un enunciato, influisce non sul suo essere o non essere informativo, ma sulla sua quantità d’informazione.
    Penso che fino a questo punto ci sia accordo e che il disaccordo arrivi dopo. Non è poco se si pensa che, se frasi come “questo è rosso” erano per i nepopositivisti protocolli su cui edificare tutta la scienza, secondo Wittgenstein non erano mattoni su cui edificare perchè esigevano già una buona conoscenza del linguaggio.
    Il disaccordo viene dopo e parte dall’interpretazione del primo e del secondo Wittgenstein che secondo la signora sono un buon punto di partenza mentre a mio avviso non lo sono. Ho preparato un articolo sull’argomento che potrebbe rappresentare una base per una discussione ma non riesco a comprimerlo in poche pagine.
    Restano i punti 8 e 9 sulla narratività di tanta filosofia e della sua impotenza in generale su cui sono d’accordo con la signora Caporossi.
    In generale con le filosofia narrative e con quelle rinunciatarie si può convivere ma dove diventano egemoni qualche protesta devono pur farla coloro che vedono il pensiero filosofico come ricerca di paradigmi di ragionamento per comprendere meglio il mondo in cui ci dibattiamo. Dubito che la nostra decadenza filosofica sia da addebitare a questi movimenti.
    Tempo fa mi imbattei in un sito filosofico che cercava collaborazioni ma esigeva la laurea in filosofia. Per scrivere di filosofia bisogna avere la laurea in filosofia? Benchè io sia in possesso di questa benedetta laurea la cosa continua a scandalizzarmi.
    Ritengo l’argomento “orticello”, “confini” “barriere”, uno degli argomenti più importanti se non il più importante nell’Italia filosofica. Per l’Italia filosofica e non per la Filosofia. L’Italia filosofica non esprime più da tempo immemorabile un filosofo, una scuola, un pensiero di respiro internazionale. Ciò che dicono i nostri filosofi non interessa i loro colleghi francesi, tedeschi, americani, inglesi. La filosofia che esprimono è priva di ossigeno, di originalità, di pensiero. I nostri cattedratici forse fanno storia della filosofia, forse criticano il pensiero altrui ma certamente, a parte poche eccezioni, non partono dai problemi per cercare nuovi paradigmi di comprensione.
    I nostri filosofi non pensano. Non pensano oggi e non pensano da generazioni. Nell’Ottanta e nel Novanta, mi accadde di constatare tanto al Pompidou di Parigi che al Barbican di Londra, come nei testi, presenti in biblioteca che raccontavano la filosofia del novecento, accanto ai numerosi nomi francesi, tedeschi, inglesi, americani, comparissero a stento i nomi italiani di Croce, di Gramsci e di Peano. Ma è inutile fare elenchi di nomi e movimenti di pensiero che qualsiasi cultore di filosofia conosce.
    Perché un simile deserto? Fra i possibili motivi non si può non considerare un mondo accademico padronale, asfittico e senza ossigeno, che appare come un mondo di filosauri più attenti a scavare trincee, porre paletti e allevare schiavetti e adulatori.
    Basta così non voglio lanciarmi in una verbosa filippica.

    1. Ringrazio moltissimo della critica e del parziale avvallo al mio articolo, di natura così controversa. Rispondo solamente ad un tratto del commento, ritenendo il resto perfettamente condivisibile. Vorrei solo esplicitare un punto. Laddove Ezio Saia dice “L’affermazione “QUESTO È ROSSO” viene compresa, anche se presuppone nel parlante una tautologia basata su una classificazione di sei colori e nell’ascoltatore solo il concetto che una cosa o è rossa o non è rossa, anche se in un simile contesto il senso e l’informazione non saranno gli stessi”, io rispondo: certo, ma in base a che cosa vengono comprese? In base all’intuizione, al “cogliere di colpo” wittgensteiniano (del “secondo” Wittgenstein). In base ad una possibilità di comprensione di natura eminentemente estetica.
      Un caro saluto
      Sonia Caporossi

  3. Ottimo articolo Sonia (stavo per dire “dal punto di vista stilistico”). Condivido in pieno i dubbi che sollevi di fronte alla critica di Deleuze a Wittgenstein: nemmeno a me ha mai pienamente convinto, neppure quando definiva gli analitici semplicemente come “i figli di Wittgenstein”, dando per scontato una filiazione quantomeno complessa. Forse si tratta davvero, per dirla con Quine, di “ripulire i bassifondi ontologici” da tante costruzioni anapodittiche e indimostrate.
    Ho apprezzato molto anche il tuo riferimento alla distinzione sistemi aperti/sistemi chiusi. Alcuni dubbi: 1) se l’urgenza di “ritornare al punto” non sia velatamente un’espressione di quello stesso movimento. E se si andasse oltre l’espressione di Wittgenstein che “la filosofia (autentica) lascia (apparentemente) tutto com’è”, ma con piccoli, quasi inavvertibili spostamenti d’accento, che però ne modificano essenzialmente l’organizzazione e lo sviluppo potenziale (“non agire… ma che niente non sia fatto”). Non ho molta fiducia nelle rivoluzioni radicali insomma. 2) La critica al costruttivismo kantiano implica anche una critica al correlativismo da lui inaugurato? 3) Mi ha molto interessato il tuo accenno al metodo euristico di ascendenza platonica, nell’ambito degli studi di logica matematica dello studio Urbis. Oltre al libro di Carlo Cellucci, esistono dei link o articoli a riguardo? Grazie ciao.

  4. C’è un universo in questo post, e si potrebbe discuterne per ore, anche perché racchiude molti dei sassolini nella scarpa dell’Autrice. Sulla inconsistenza dei filosofi cosiddetti costruttivisti preferirei non pronunciarmi, onde scansare le maglie incandescenti della Santa Inquisizione Filosofica, i piccoli fan di Deleuze , Deririda, i nicciani , gli heideggeriani ecc. Mi interessa di più invece, il problema sollevato da Sonia sulla struttura tautologica del linguaggio: L’obiezione che potrei immediatamente sollevare è che i paradossi logici e le tautologie sono problemi intrinseci alle forme strettamente espositive del linguaggio e che nel mondo vissuto vengono implementati dalla mimica , il suono, i gesti, insomma da quello che si potrebbe benianamente definire un Atto. Un’altra soluzione potrebbe essere quella godeliana, anche se troppo circoscritta al campo di ricerca matematico: nella fattispecie , sintetizzando all’inverosimile il linguaggio è tautologico si nel suo fondamento ma solo se è il linguaggio stesso a parlare di sé. Ossia una sorta di versione logico linguistica del teorema di incompletezza , che è per noi ovviamente insormontabile dato che non abbiamo un linguaggio superiore per scioglierne i nodi, e tantomeno potremmo fare filosofia usando equazioni godeliane o linguaggi macchina. Ma sonia , come si sa, saprebbe come smontare queste due obiezioni facilmente .A me verrebbe da rispondere egelianamente che occorre distinguere il Vero dal Certo , e sì il Linguaggio ha una natura dia-bolica e non ha nulla a che vedere con l’interezza e l’assolutezza, e probabilmente noi siamo diventati nichilisti dal momento in cui abbiamo iniziato a scrivere e codificare i nostri atti di parola. e che magari dovremmo accontentarci di piccole certezze , che smontate le grandi verità .Perdonatemi il finale prosastico, buona giornata-

  5. io andrei molto piano prima di dire: a è filosofo, b pure, c no, d non so etc etc etc. penso che ci siano diverse filosofie, più o meno interessanti (per l’uno o per l’altro), più o meno coerenti (non che la coerenza sia necessariamente un valore), etc.

  6. Vorrei che qualcuno comprendesse la reale entità infettiva, virale, del costruttivismo concettuale. La maggior parte dei cosidetti memi proviene da esso; fatta salva l’evidenza del fatto che lo stesso concetto di meme è un meme, lo stesso concetto di meme è una neoformazione costruttivistica, com’è ovvio data la natura poietica del linguaggio tautologico dalla quale e dal quale non si sfugge, perché conforma la nostra semiosfera ed il nostro sistema di riferimento mentale.
    Allora, il senso dell’articolo è un richiamo a fare attenzione, a saper porre distinzioni, a riconoscere la missione originaria della filosofia, che è di ricerca della verità, indipendentemente se la verità sia raggiungibile o anche solo esista, lungi dal “dire: a è filosofo, b pure, c no, d non so etc etc etc. “; non stiamo certo riscrivendo “Poesia e non poesia” di Croce. Anch’io penso che ci siano diverse filosofie, più o meno interessanti, anzi, più o meno nocive. Tutto sta a distinguerle. Perché la filosofia, nel suo fenomenologizzarsi, oggi si conforma sempre più chiaramente come una storia delle idee, e delle parole con cui vengono espresse.
    Per esempio:

    Sonia Caporossi

    1. Condivido totalmente il contenuto e gli intenti di questo articolo di Sonia Caporossi e provo ad aggiungere la mia, molto semplicemente…
      Intorno alla parola “filosofo” gravita una nebbia che consente i più ampi fraintendimenti e per questo sarebbe necessario cercare di diradarla, anche per fare cessare diatribe sterili dal punto di vista culturale. Secondo me, il filosofo è colui che cerca di darci una sua interpretazione della realtà del proprio tempo, e per fare questo la esplora utilizzando le conoscenze disponibili. Invece, lo studioso di filosofia è colui che cerca di dare una sua interpretazione delle proposizioni dei filosofi. Stante così le cose, se tutti si attenessero al loro vero mestiere, non ci sarebbero problemi di definizione dei titoli e dei ruoli. La nebbia comincia a calare quando gli studiosi, utilizzando e deformando a loro uso le proposizioni di quelli veri, si spacciano per filosofi. In Italia, in questo ambito, abbiamo veri e propri maestri. Insuperabili prestidigitatori di parole che riempiono interi scaffali di libri assolutamente inuti per comprendere la realtà in cui oggi viviamo, e che quindi, non ottemperano al mandato che loro stessi si sono attribuiti, e per cui vengono lautamente retribuiti. Cosi si arriva a due domande retoriche cruciali: — 1) A meno che non si intendano per filosofi costoro, da quanti decenni non abbiamo più avuto un filosofo? — 2) Perché meravigliarsi che scienziati come Paolo Rossi, Toraldo di Francia o Marcello Cini, abbiano fatto il lavoro dei filosofi?

    2. Una domanda stupida riguardo il video postato: ma per questi benedetti “memi”, affinchè non siano un concetto ridondante, dennett sott’intende un’origine biologica\genetica? può dimostrarla? è una sorta di discorso a mo’ di Lombroso 2.0? mi sfugge un po’ questo punto. (nel caso fosse così, però, sarebbe già fuori da unottica costruttivista, almeno in parte: non starebbe rivendicando il nostro essere piuttosto “portatori” di senso, che non costruttori di senso?)
      Perdono per l’ottusità del post, ma mi frulla in testa da quand’ho letto l’articolo ‘sta notte

      1. La domanda non è stupida. Toccherebbe infatti chiederlo all’autore di questa neoformazione concettuale, il genetista Richard Dawinks, più che a Dennett. Ho preso i memi proprio come esempio di lemma appartenente ad un linguaggio costruito ad hoc per dimostrare l’esistenza di qualcosa che nel corto circuito logico taciuto che si viene creando, si dà per certa proprio in virtù della parola che ne definisce l’esistenza. Ma siamo davvero sicuri che esistano? E se anche esistessero, siamo davvero sicuri che sia assolutamente indispensabile tale neoformazione linguistica per definirli, in ambito filosofico, psicologico, sociologico, in una parola: in ambito SCIENTIFICO (non poetico o letterario, dove invece, per differente statuto, non più epistemologico, ma estetico, andrebbe benissimo!)? E se anche esistessero, non bisognerebbe chiedersi PRIMA se un tale concetto sia già spiegato o spiegabile in qualche altro modo, con qualche altra parola o concetto preesistente? In fin dei conti, i memi non sono che “idee o concetti che si propagano viralmente in ambito socioculturale come le cellule”. Per quanto mi riguarda, ho già detto nel commento precedente che “lo stesso concetto di meme è un meme, lo stesso concetto di meme è una neoformazione costruttivistica”. Una cosa è certa: la genetica è tirata in ballo solo PER ANALOGIA (lo sostiene lo stesso autore de “Il gene egoista”). L’analogia, come tutti sanno, è il fondamento estetico – logico della poesia. E qui torniamo al punto, torniamo alla natura poietica del linguaggio e torniamo al rischio, continuamente confermato in ogni ambito dello scibile, dell’ascientificità poietica (e poetica) della filosofia del Novecento, o anche peggio, dell’impostura di una filosofia che si crea da sola le proprie parole, neologismi che significano cose antiche spacciandole per nuove…
        Sonia Caporossi

  7. “- Professore, ma perché usa questa parola?
    – Per bellezza.”
    Penso che le idee, assolutamente condivisibili, espresse da Sonia stiano tutte in questo botta e risposta. Il problema è che nessun accademico avrebbe mai il coraggio di ammettere l’uso estetico che fa del linguaggio scientifico di propria competenza così a cuor leggero…
    Marco

  8. ah, bene, mi ero perso il momento in cui si sostiene che la genetica entri in campo solo per analogia: a questo punto tutto il discorso che facevi (che gentilmente hai riscritto) mi torna meglio; perchè se lo statuto genetico era confermato (magari da un numero più o meno sufficiente di riprove tecniche) allora mi sarebbe andato pur bene l’ideazione del lemma (che lo vogliamo o meno il termine “idea” si porta dietro reminiscenze iperuraniche), se invece ci si continua a muovere in un campo più o meno teorico, sì, mi sembra piuttosto scorretto tirare in ballo il termine… (pensavo che dennett o dawkins si facessero sostenitori in questo discorso sui memi, dei claim, che non ho le capacità per determinare se fondati o meno, che ogni mese qualhe biologo e affini fa riguardo l’aver scoperto il meccanismo neurale di qualche “sentimento” complesso, tipo l’amore nei topi)

    divergo completamente, perchè la tua risposta mi ci richiama: ma non è in qualche modo paradossale che sia il campo estetico, almeno in qualche suo propaggine, dopo duchamp a farsi carico di mettere in mostra (con scopi che per me sono chiaramente non filosofici) la struttura aniconica dei linguaggi? voglio dire: dove è iniziata la confusione?, perchè è parte della nostra storia (e credo anche parte non secondaria) tutta la riflessione artistica (cioè: anche tecnica, ma in senso più lato culturale) che nel novecento s’è svolta attorno il tema della metafora, del suo superamento post-simbolista, dei rapporti con la retorica e con il “terrorismo”… cioè, per farla breve: che se da un lato la filosofia(?) sembra per qualche verso rincorrere la strada della narrazione, gli artisti che (forse) dovrebbero occuparsene sembrano particolarmente interessati a fuggire nella direzione opposta. Però capisco che si tratta di rilievi talmente generali (da discorso sui massimi sistemi) che siano probabilmente smontabili ab oigine

    1. E che divergi, stiamo dicendo le stesse cose…
      Per rispondere alla domanda, io credo che il punto di svolta sia stato la pretesa di una negazione della metafisica in quanto tale, dalla quale però qualche filosofo accorto del Novecento s’è reso conto di non poter sfuggire, perché la natura apodittica del linguaggio è connaturata al suo contesto semico e potere semantico.
      Di fatto, oggi, la filosofia è più metafisica di quanto chiunque voglia ammettere.
      Sonia Caporossi

  9. «Il fatto che oggi i più siano assolutamente convinti del relativo, com’è ovvio, consiste in una tautologia bella e buona; questo lo si sa da Wittgenstein, in quanto la forma logico proposizionale soggetto-copula-predicato nominale “x è y” è la tautologia per eccellenza. Ma così, non mi stancherò mai di ripeterlo, proprio così funziona il linguaggio! Così funziona il nostro sistema di riferimento mentale! E allora, che dobbiamo fare, che strategia o forma di comportamento dobbiamo tenere, forse dovremmo aspirare a raggiungere l’eterna afasia?»

    I x è y non è una tautologia
    II non lo ‘sappiamo da Wittgenstein’
    III la copula è nel predicato nominale
    ( IV, la definizione di soggetto è difettosa, già Frege parlava di individui…)

  10. Cerchiamo di capirci. La tautologia è un’affermazione vera per definizione; questa stessa frase che ho appena pronunciato è una evidente tautologia. La struttura stessa del linguaggio pretende che quando si parla si enuncino verità “per definizione”; in questo senso “x è y”, come struttura base del linguaggio, è tautologica in senso logico, non in senso retorico, non essendoci infatti in “x è y” ridondanze esplicite, ma solo la pretesa concettuale che la definizione aggiunga informazione, quando invece, partendo da fondamenti assiomatici, non lo fa.
    I punti II, III e IV, premesso questo, si confutano da sé. Fermo restando che per quanto mi riguarda (e per quanto riguarda la grammatica) il verbo essere ha funzione di copula, cioè di unione fra il soggetto ed il predicato nominale, e l’auctoritas di Frege, per la verità, non mi interessa più di tanto.
    Grazie dell’intervento che mi ha permesso di puntualizzare questi aspetti.
    Sonia Caporossi

    1. Capiamoci, davvero.

      Per quale definizione qualcosa sarebbe ‘vero per definizione’? È evidente che non basta dire, questa davvero un’auctoritas, che la definizione è una definizione ( questa davvero una tautologia).

      Vero per definizione, lo diciamo – a patto che vi siano il valori di verità che fungano da definientes. Questo contestavo, cioè che c’è qualcosa ‘prima’ della definizione, che sono punto i valori di verità V e F:

      non a ( -a), diciamo che ‘non è’ a (a) per tutti i valori assegnati ad (a) e (–a): ed è questa la tautologia, non per definizione, ma per i valori di verità assegnati ( Wittgenstein lo sapeva, e lo sapeva da Frege e Russel)

      Poi tu saprai di sicuro che il predicato nominale è proprio il verbo essere+ una parte nominale, o un altro verbo. Cioè il predicato nominale è costituito dalla copula, cioè a (riba)dire il punto III.

      1. ti ringrazio davvero degli interventi calzanti. Capisco che cosa intendi. Ma forse non hai inteso ciò che dico io. La prenderò un poco alla lontana, a tratti avrai la sensazione, forse, che io vada pascolando per pericolose chine di ignoratio elenchi, perché lascerò qualcosa all’intuizione, e quindi, non esplicitato. Prova a seguirmi, per favore, senza pre-giudizi.
        Pensa ad esempio ai cinque precetti di Pascal che sono alla base del metodo assiomatico: 1, non ammettere alcun termine oscuro o equivoco senza definizione; 2, in una definizione si possono usare solo termni perfettamente noti e spiegati; 3, gli unici assiomi che si possono prendere sono proposizioni autoevidenti; 4, bisogna dimostrare tutte le preposizioni usando nella dimostrazione solo assiomi autoevidenti e solo preposizioni già dimostrate e accettate; 5, non fare uso dell’equivocità dei termini tralasciando di sostituirli mentalmente con le definizioni che li spiegano.
        Ed ora pensa, per contrapposizione, al metodo matematico – analitico, i cui due principii sono: 1, non usare alcun termine di cui non si sia già spiegato il senso; 2, non proporre niente di già non dimostrato.
        In tal caso bisogna assumere che qualcosa non sia dimostrabile per evitare il regressus ad infinitum. Nel metodo analitico non sono ammessi termini primitivi ed assiomi a priori, perché in esso occorre dimostrare TUTTI i termini e TUTTE le definizioni. Ora, quale è secondo te il metodo dei due esposti che assomiglia di più alla struttura logica del linguaggio?
        Per Pascal il metodo analitico sarebbe bello, ma di fatto è impossibile, perché non offre mai un ultimum da cui partire, bensì, con la pretesa di dimostrare tutto, gira in circolo. Pascal è uno ligio al metodo assiomatico.
        Bene, per me, invece, il circolo è la struttura stessa del funzionamento del linguaggio. Non so se ci siamo capiti.
        Ora, come sai, per Frege ogni concetto ha una estensione e una intensione.”Proprietà”, per Frege, è un concetto del tipo P(x). Come si sa, per Frege ogni proprietà ha un’estensione, dove estensione= l’insieme degli oggetti che cadono sotto il concetto, cioè che soddisfano la proprietà. Che poi è precisamente l’incauta affermazione che inguaia Frege riguardo all’antinomia di Russell, quando dice che per ogni proprietà esiste l’insieme degli oggetti che hanno quella proprietà. Purtroppo non posso usare qui la notazione logica, altrimenti mi esprimerei in formule. Ma sai che Russell lo “inguaia” talmente tanto da fargli parlare, dopo vent’anni di tentativi infruttuosi di risoluzione del paradosso relativo, di “guai del linguaggio”, tanto da fargli rinunciare, alla fine, alla pretesa che la logica fondi l’aritmetica. Frege torna a Kant, afferma che Kant ha capito la vera natura delle realtà geometriche, quella di essere verità sintetiche a priori, per cui anche nell’aritmetica ci dev’essere per lui una verità sintetica a priori (la fonda infatti sull’elemento spaziale). E l’intuizione tempo dove la mette?… Per farla breve, alla fine Frege RINUNCIA al logicismo, pur non rinunciando a Pascal, per cui il metodo della matematica rimane quello assiomatico, e i prinicipi matematici si fondano ancora sul…Cuore, ovvero l’intuizione. Ma l’intuizione che cosa è? E’ un principio fondante estetico. Eccoci giunti al punto per cui le tavole di verità diventano obsolete. Come sai, infatti, per Frege le funzioni proposizionali, di per sé, non sono NE’ VERE NE’ FALSE, ma se introduco un quantificatore lo diventano. Anche se attribuisco un valore alla variabile x, essa diviene o vera o falsa. Ma la struttura logica basilare del linguaggio è composta di quantificatori? Nella frase “x è y” il quantificatore c’è o c’è stato introdotto a forza da una riformulazione logico – matematica? Ovvio che se io riformulo il linguaggio in termini di variabili individuali e di costanti individuali (tanto per rispondere al tuo appunto sull’uso del termine “soggetto” piuttosto che “individuo”) ho bisogno poi di due quantificatori, universale ed esistenziale; ma questa è una riformulazione logico matematica della realtà. E’ una formalizzazione, appunto. Il linguaggio, invece, con Wittgenstein, è una “forma” sì, ma “di vita”. E allora, l’intensione, ovvero la possibilità, creativa, creazionista, costruttivista, ma pur sempre, al fondo, “tautologica” (perché “si dice la stessa cosa”) di poter esprimere lo stesso oggetto in due, tre, x modi diversi.
        Capisco di stare fuori dalla logica tradizionale. Non era mia intenzione starci dentro, infatti.
        Per quanto riguarda il predicato nominale, ciò che affermi è certo: ma a scuola, ai miei alunni, faccio analizzare il verbo essere separatamente come copula dal nome o aggettivo seguente come parte nominale; tutto insieme fa il predicato nominale. Perché, se non analizzassero il verbo essere separatamente, poi non capirebbero che cosa sono i verbi copulativi, cioè quei verbi che, analogicamente, “stanno per”. Prendila come una parabola.
        P.S. Mi riservo di scrivere un articolo su questo argomento, anche grazie alle tue gradite sollecitazioni. Magari in esso sarò più calzante e cogente. Mi piacerebbe nel frattempo sapere chi sei, puoi firmarti in privato? Grazie. A presto
        Sonia Caporossi

  11. Ciao, non sono sicuro di aver recepito tutto, magari me ne renderai ragione tu. Intanto prendo spunto da alcuni passi del tuo testo, che mi danno poi il destro di chiarificare, magari, qualcosa sulla mia posizione ( non è un élenchos, il mio)

    Pensa ad esempio ai cinque precetti di Pascal che sono alla base del metodo assiomatico: 1, non ammettere alcun termine oscuro o equivoco senza definizione; 2, in una definizione si possono usare solo termni perfettamente noti e spiegati; 3, gli unici assiomi che si possono prendere sono proposizioni autoevidenti; 4, bisogna dimostrare tutte le preposizioni usando nella dimostrazione solo assiomi autoevidenti e solo preposizioni già dimostrate e accettate; 5, non fare uso dell’equivocità dei termini tralasciando di sostituirli mentalmente con le definizioni che li spiegano.

    -Qui c’è quella deviazione gnoseologica tutta della modernità, quindi hai ragione, Aristotele la sapeva più lunga ad esempio… e i suoi ta prota intorno ai quali, e a partire dai soli, si fa scienza non sono evidenti alla ‘mente’, sono evidenti perché evidenti e basta, di per sé,-

    Ed ora pensa, per contrapposizione, al metodo matematico – analitico, i cui due principii sono: 1, non usare alcun termine di cui non si sia già spiegato il senso; 2, non proporre niente di già non dimostrato.
    In tal caso bisogna assumere che qualcosa non sia dimostrabile per evitare il regressus ad infinitum. Nel metodo analitico non sono ammessi termini primitivi ed assiomi a priori, perché in esso occorre dimostrare TUTTI i termini e TUTTE le definizioni.

    -ma i fondamenti della matematica oggi, con la teoria assiomatica degli insiemi, hanno ammesso, detto barbaramente, l’esistenza di una infinità di assiomi ( Quine parlerà di postulati culturali anche solo in riferimento al ‘mondo fisico’), quindi di fatto l’ultimum da cui partire c’è, solo che ce ne sono infiniti, infiniti ultima – forse tu lo chiameresti senso comune? ( e perché no!..), o apriori materiale; il punto allora è però che 1+1= 2 non è una tautologia, è un teorema: perché è vero date tali e tali altre condizioni ( che non sto ad esporre) –

    […]

    .
    Bene, per me […] il circolo [ del metodo analitico] è la struttura stessa del funzionamento del linguaggio. Non so se ci siamo capiti.

    sì, mi va bene!, ma a patto di chiarire che (heideggerianamente) non è un circolo vizioso – bisogna starci dentro-, e forse nemmeno è un circolo ( come dicevo sopra in riferimento allo 1+1=2)… non si può affermare il das Selbe ( io personalmente penso che tautologie non ve ne siano), magari l’uguale, ma non l’Identico. È qui che divergiamo forse, o forse come dicevi, non ti ho capita, ed è per questo che non c’è tautologia, c’è poietica, ‘egualizzazione’ forse, ma non già l’identità.
    se posso concedermi una esemplificazione: sono più vere le cose dette, cioè le cose, che non il ‘dire’ del linguaggio. E dirò una eresia grossa quanto una casa in campagna poiché in controtendenza con tutta la storia del linguistic turn, ma il linguaggio è un mezzo(!), e il mezzo è ciò di cui ci si ‘fida’, quindi più che un mero mezzo ovvio, quasi fosse una motoretta; ma questa sua dignità è tale solo fintanto che ‘dice’.
    A presto,
    non appena avrò capito com’è che ci si firma in privato, sarà presto fatto.

    1. “1+1= 2 non è una tautologia, è un teorema”. Va benissimo, ma quel 2 o è una scoperta scientifica vera e propria, cioè ex novo, e allora fa capo alla logica euristica di discendenza platonica e al metodo analitico, oppure è una ripetizione o una formulazione assiomatica; in entrambi i casi, per poter significare, nasconde una parzialità analogica e tautologica; infatti “1=una specie di x” è un’analogia, cioè una tautologia “con scarto” segnico e semantico, se posso concedermi un gioco di parole. Ebbene, per me è con questo tipo di circolo che funziona il linguaggio: infatti è persino scolastico il concetto che ogni definizione ne richiama un’altra e così all’infinito. Se tale procedimento è lineare, è assiomatico; laddove ci si mette l’animo in pace, si riconosce invece che il linguaggio ha una struttura ermeneutica circolare perché si fonda sul procedimento dell’analogia (e quindi della tautologia “con scarto”), e tutto il resto, Quine compreso, viene dopo. Perché è del fondamento estetico del linguaggio che mi sto interrogando, in primis: ed il fondamento estetico del linguaggio non è un circolo vizioso, bensì un circolo “virtuoso” (così lo discute e lo tematizza Emilio Garroni) su cui si fonda, precisamente, A SUA VOLTA (altrimenti non sarebbe un circolo) il senso comune estetico. Che è precisamente una tautologia: te ne accorgi avendo finito di compiereil giro intoro ai 360 gradi. Vedo che alla fine ci siamo capiti.
      Per quanto riguarda la definizione di “linguaggio come mezzo”: sono perfettamente d’accordo! Io ritengo infatti, ma Ezio Saia, più sopra, non ne è convinto, che il linguaggio sia uno strumento: wittgensteinianamente, l’uso che se ne fa.
      Prova a leggere anche l’articolo seguente, commenti compresi:

      Fatti e interpretazioni. Appunti sulla possibilità di una condizione neomoderna del linguaggio e della logica


      Grazie ancora, ci risentiamo presto, perché debbo mettere in chiaro una serie di punti emersi che non possono esaurirsi all’interno di un commento.
      Ciao
      Sonia Caporossi

      1. Posso rispondere al posto della signora Caporossi? Perché? perché per una settimana ho anch’io frainteso Quando parla della forma X=Y come tautologia penso che ne parli in senso metaforico con l’intento di significare che tutto è riconducibile a identità. Tautologia è “piove o non piove” e lo sa bene anche la signora Caporossi. Il termine tautologia precede Wittgenstein e Russell. Russell era convinto di poterci appoggiare tutta la matematica . Non solo Russell ma anche Ramsey. Però, ripeto, per La signora Sonia Caporossi la forma x è y è effettivamente la forma a cui tutto riconducibile e che esprime tutte le possibilità. Io l’ho capito quando opponendole che la frase Socrate è Greco andava considerata un’asserzione d’identità della forma “la nazionalità di Socrate è greca”, lei insisteva a
        dire che, pur non parlando la stessa lingua, dicevamo le stesse cose.
        Il Wittgenstein del Tractatus parla dell’uguaglianza a = b come di un falso se a non è b e di una identità prima d’informazione se a è b. Qualcosa di simile l’aveva già asserito Bradley e in fondo soggiace a tutti i tentativi di rendere assurda l’uguaglianza.
        Anche Frege in un certo senso assegnava l’esistenza al numero 1 e la non resistenza allo 0. E non era questa un’assegnazione per analogia o addirittura per metafora? Questa è la tesi, mi pare, di quel grande libero Battitore che fu Enzo Melandri. Ma a parte Melandri a me formulazioni del tipo “Socrate appartiene alla classe dei Greci” sono sempre apparse comiche. Le classi mi sembrano enormi borse.
        Certo con le classi si evitano i paradossi dei megarici; se si interpreta la predicazione come identità infatti da
        Socrate è greco
        e da
        Giovanni è greco
        si inferisce
        Socrate è Giovanni
        mentre da
        Socrate appartiene alla classe dei greci
        Giovanni appartiene alla classe dei greci
        si inferisce solo cheGiovanni e Socrate appartengono alla classe dei Greci. Ma questa non è l’unica maniera di evitare i paradossi. Se dico
        La nazionalità di Socrate= Greca
        La nazionalità di Giovanni = Greca
        non ricavo
        Giovanni = Socrate ma
        Socrate e Giovanni hanno la nazionalità Greca.
        riconducendo la predicazione a quella forma generale X=Y di cui parla Sonia Caporossi. O, almeno Credo, perché senz’altro la signora avrebbe da obiettare.
        Non ho ancora finito ma comincio a inviare perché prima ero già molto, più avanti e di colpo tutto è scomparso.

        Riprendo per invitare a non impuntarsi sulle parole. Anche in matematica tutto è diventato tremolante. Dal tempo di Pitagora, i tragici incommensurabili, i numreri relativi, gli indigeribili immaginari, gli incomprensibili contraddittori infinitesimi parenti prossimi dei non meno pazzi indivisibili di B. Cavalieri e infine i famigerati, orrendi, vertiginosi, diabolici infiniti cantoriani hanno minato molte certezze. Ancor più traumatici gli infinitesimi di Robinson hanno riportato in auge dei peccati che si pensavano estinti. Nell’ottocento Kronecker l’acerrimo nemico di Cantor, il diffidente preintuizionista formulo una relazione molto tecnica e complessa ma il cui significato si può anche approssimare con parole di questo genere: noi possiamo erigere tutti i fantastici palazzi che vogliamo per questi nostri stupendi bellissimi, divini, numeri ma dobbiamo comunque tener conto che bisogna accertare che in quei meravigliosi palazzi i NOSTRI numeri riusciranno ad abitare e che se ci abitano siano veramente gli stessi numeri con cui lavoriamo tutti i giorni.
        Quando penso al mare di sabbia con le onde di sabbia penso anche che se spingessimo l’analogia dovremmo parlare delle fantastiche balene, dei fantastici pescecani, tonni, granchi meduse che scorrazzano per il mare di sabbia.
        Ciò che voglio dire è che anche il modello matematico del mondo favoleggiato dai pitagorici potrebbe essere lentamente scivolato nella metafora creando con infiniti, infinitesimi immaginari, ecc. i nostri pescecani e le nostre balene della sabbia.
        Non aggiungo altro anche se dovrei parlare dell’assioma di scelta, della coincidenza del continuo con ecc. ecc. entrambi singolarmente e in coppia coerenti con certi modelli matematici, mentre altri modelli ne fanno a meno . Di Goedel e delle infinite proliferazioni della matematica. Insomma ormai sono ritenuti accettabili da qualcuno anche coerenze parziali e modelli con numeri non infiniti.
        pensare a cosa sia 1+1=2 è stimolante ma non ci si può bloccare con infinite discussioni.
        Ramsey lo considerava una tautologia ma era isolato. Wittgensteinn pensava che matematica e tautologia fossero come l’acque e l’olio. Ransey, introducendo strane classi estensionali e interpretando gli ordini come strutture linguistiche ricostruì il sistema logicista in cui tutto funzionava meno l’assioma dell’infinito. Ma in una matematica senza infinito potremmo parlare di 1+1=2 come di una tautologia?
        Finisco qui. Il senso di tutta questa allegra scorribanda è che abbiamo due persone capaci di pensare e di proporre soluzioni loro, di discuterle e questo posso dirlo perché sono quarant’anni che guardo la desolazione dei non pensatori italiani, è un miracolo.
        Auguri e stima a entrambi.

  12. Qui, signor Saia, lei coglie il punto. Metafora ed analogia, infatti, sono alla base della natura poietica, quindi estetica in primis, logica in secundis, del linguaggio. Quanto al resto, c’è geometria senza infinito, ma non c’è matematica senza infinito. Pensiamo alle geometrie non euclidee, o all’ipercubo, fino alla quarta dimensione ancora ancora rappresentabile nello spazio; ma dopo, il cinque-cubo, il sei-cubo, il sette-cubo e così via finché ci sarà uomo o macchina in grado di calcolarli, non sono più rappresentabili né riproducibili geometricamente se non su vettori 3D, e tuttavia, nella loro reale essenza, solo esprimibili in formule matematiche.
    Sonia Caporossi

  13. L’uomo è la sua storia che è prodotto di immanenza congiunturale.. la filosofia ha il compito di occuparsi, oggi, di ciò che rende digitale ciò che è analogico. Ha un ruolo centrale soprattutto nel pragmatico.Il pensare è dato a tutti, il saper pensare si raggiunge attraverso l’assunzione di vari modi di strutturare i perché e la capacità di sintetizzare queste logiche e questi dati, in scelte consapevoli, razionali e legittime. La filosofia, appunto, deve essere vista come una sorta di disciplina del saper pensare. Da cristiano potrei dire che si deve occupare della parte riflessa in me, del Dio nel quale credo: il pensiero /ragione. Fatti non fummo per viver
    come bruti.. 😉

Lascia un commento