Rilke ritratto da Jack Coughlin

L’antropofania dell’amore revenant: un saggio critico su Il Testamento di R. M. Rilke

Rilke ritratto da Jack Coughlin
Rilke ritratto da Jack Coughlin

Di ALESSANDRO DE CARO

I.

“La mia vita è una specie particolare d’amore, già esaurito. Allo stesso modo in cui l’amore di San Giorgio si identifica con l’uccisione del drago, un’azione perdurante che colma i tempi sino all’estremo, così anche le risorse del mio cuore sono già impiegate e trasformate in un avvenimento definitivo” 1. Questo frammento svolge un ruolo particolare nel testo che prende il nome di Das Testament di Rainer Maria Rilke. Si può dire che il passo citato chiuda con una metafora visiva – un’iconografia, in realtà- un lungo discorso che riguarda gli amanti, l’arte, l’opera, il futuro, l’infanzia e diverse altre figure. Una sintesi, dunque, che segue, completandola, a una serie complessa di rapporti: in quattro pagine fitte e precise Rilke elabora tutta una fenomenologia della vita affettiva.

Che cosa intende dire Rilke quando scrive della sua vita come di una forma d’amore “già esaurito”? Per comprenderlo è meglio risalire a qualche pagina prima nel testo, quando Rilke traccia il ritratto dell’amante: “L’attesa delle braccia di lei spalancate dà maggior slancio alla sua corsa. La sua opera si purifica nei contorni della felicità, laddove altrimenti si inaridirebbe in torbidi struggimenti. Solo accanto al suo cuore il lavoro fu impetuoso e dolce per l’uomo affaticato – e la pace infinita” 2. L’amante che Rilke qui descrive raggiunge una pace insperata, infine, ma questa pace “infinita” ha un prezzo: si fabbrica lontano dal mondo con il quale intrattiene dei rapporti che si possono già intuire mancati, inespressivi. Anche se qui Rilke non insiste sull’appartenenza del poeta-amante ad un altro Regno, a un’altra visione che si può ottenere soltanto camminando sul margine che separa la pagina dell’amore dall’immensa distesa del cielo e della Terra, aggiunge non senza una velata ironia: “Solo ora si scioglie il coagulo delle sue notti di adolescente, l’angoscia, solo ora egli riesce a scrittura il fondo della notte”. Quest’impresa non richiede il ricorso a particolari esperienze di iniziazione, anzi, rimane racchiusa in una percezione psicologica e biografica (le notti dell’adolescenza, il “fondo della notte” che è anche il buio senza luce di coloro che sono perduti alla ricerca). C’è una progressione tutto sommato lineare dall’adolescente all’uomo adulto, nella sintesi che ci fornisce Rilke, e se sorgono dei problemi è soltanto per via di “ostacoli o difficoltà che minacciano questa unione: tutta la pena fluisce in un’unica ansia, quella di perdersi reciprocamente; e non esiste dubbio, se non nella gelosia”. L’unione che si riduce all’unica “ansia” del ritrovamento si alimenta di una visione che non mira a comprendere “la vastità dello spazio affettivo”, quanto a consumare le proprie risorse. E’ un panorama di consunzione non meno che di sentimenti vissuti, ovvero sottintende la presenza dell’amata e la compresenza dell’amato – una coincidenza tutt’altro che scontata per il Rilke epilografo ed eterno viandante.

Il quadro sentimentale sopra proposto, con la sua curva discendente già tracciata, viene contrapposto, nella stessa pagina, al destino di “colui che già sapeva”. Il passaggio è brusco, senza possibilità di mediazione. Chi rappresenta questa figura che fonde il sapere e l’ombra? Che cosa accade “a colui il cui cuore aveva già sperimentato la solitudine degli amanti? Fin dall’infanzia conobbe il suo volto puro. E poiché rifuggiva le somiglianze familiari che lo assediavano rivendicando tratto dopo tratto un diritto su di lui, il viso dell’amata significò il futuro: attraverso i suoi occhi egli guardò l’aperto [Offene]” 3.  

Prima di ridurre tutto alla ben nota questione dell’Aperto, evidenziata anche dal celebre commento di Heidegger 4, sarà bene indicare la precisa scrittura di questa scena nel Testamento: colui che sa o colui che da sempre conosce la solitudine si è trovato presto in una condizione (“il suo volto puro”) dalla quale non si esce facilmente e per la quale non c’è forse neppure un nome, ma ciò non è avvenuto senza che una dimora familiare vi proiettasse il suo potere (“le somiglianze familiari”) recando con sé i doni della vita e della morte – quel diritto senza origini al quale si è assoggettati, nel tepore dell’incomprensione, da bambini-, fusi insieme in un’immagine che non tarderà a intervenire nel testo, quella del revenant.

Conviene riportare per intero il passo rilkiano: “Esperienze del sentimento, strane esperienze del sentimento, che molto più tardi si sono raccolte in quel certo evento da me racchiuso in modo assai impreciso nell’immagine del revenant, mi confutano il diritto di essere assorbito dall’amata (per quanto infinito sia lo spazio che ella può offrire)” 5. Spettri, segni, dimore familiari che segnano da tempo un percorso nel quale l’amore, a modo suo, si estingue. Ma qual è il senso di questo esaurimento? Di certo, non è quello di un’azione passiva, di qualcosa che si subisce; il poeta indica persino una figura “eroica” (San Giorgio) per circoscrivere il senso o la direzione possibile di tale amore “estinto”. Si tratta, in realtà, dell’inestinguibile “spazio affettivo” che verrebbe minacciato da quella forma particolare e ridotta che incarna l’amata e, di riflesso, l’amante. Su questo punto Rilke scrive alcune frasi molto chiare: “Pur dovendo riconoscere la legge di questa sopraffazione, in essa mi sento al tempo stesso prigioniero e sovrano. La mia più profonda coscienza non mi lascia pace, e l’angoscia che mi disperde non è l’ansia primigenia del dolce annientamento che si origina dal centro dell’amore” 6. La questione della legge, com’è noto, non è tipica soltanto di Rilke ma anche di molti altri poeti: Kafka e Breton, per esempio, ce ne hanno restituito dei ritratti esemplari.

Ma qui Rilke esplora una dinamica interna ai rapporti umani che si dissimula spesso e volentieri, e che non consiste in una sopraffazione aggiuntiva quanto, piuttosto, nell’imposizione di una legge “spontanea”, “buona”, la legge – a suo modo, sacra o divina – dell’amore.

Di questa legge fa parte anche l’ansia: “In qualche punto nella vastità del mio spazio affettivo nasce un’inquietudine, uno scontento; lamenti che non comprendo vibrano e passano, minacce si levano sul mio essere; non sono più in accordo con me stesso”. Centro e periferia, si potrebbe dire, definiscono qui un tragitto a ostacoli: per Rilke, si tratterebbe non tanto di sottrarsi definitivamente al giogo dei sentimenti e dei sensi, quanto di giocare con l’ambivalenza, di farne una “macchina desiderante” (Deleuze) 7 che scongiuri un certo spirito di gravità a cui è soggetto lo schema amoroso, sostanzialmente teologico, e che stabilisce il peso e le misure dell’affettività: “E’ qualcosa contro il segreto della mia vita. Mentre l’amata devia verso di sé ogni avvenimento, divento inautentico nel mio intimo; perché ora sembra che nella corrente perenne venga sospinto verso di lei anche ciò di cui posso disporre. In parte è colpa della sua volontà, in parte questa appropriazione è dovuta unicamente alla realtà della sua esistenza. Ella ha trasformato il paesaggio nell’animo dell’amato e ne abita uno dei punti più profondi – : la valle verso cui tutto defluisce” 8.

Si tratta, per Rilke, di scongiurare una segregazione alla quale, spesso, è costretto a opporre una vana resistenza. A volte, il tono del discorso si fa più aspro (“Non sono molti quelli che non esauriscono la gittata del cuore negli amplessi”), ma Rilke è consapevole che la vita amorosa resta legata, per sua ambizione, non soltanto alla poesia ma all’esilio che ne è il preliminare, forse, se non il destino. La ricerca della felicità degli amanti giunge sempre ad un punto di non ritorno, dove comincia l’erranza o la dispersione: “(…) la sua parabola, superato il piacere, assume una singolare accelerazione, quella dell’impazienza che vorrebbe aver già superato anche questa felicità. Oltre questo limite, essa procede verso la sconfinatezza ed esprime – lo sai? – il malinconico itinerario di coloro che non cessano di camminare – i pellegrini russi e i beduini nomadi, continuamente sospinti col loro bastone di ulivo…” 9.

Da qui l’erranza come destino del poeta-amante e il suo rapporto con la Terra o con il miraggio di un “paese riconciliatore”, la (madre) Russia. Un luogo al di là dell’Europa, abbastanza remoto da funzionare come ideale della ragione poetica? L’opera in generale diventa una sorta di trattato sulla lontananza scritto in forma di lettere, di poesie o di “antropofanie” (F. Jesi)10 che mantengono la giusta distanza dalla febbre del potere, persino della felicità, anche da quella legittima degli amanti. Poesia e libertà qui s’intrecciano fino al culmine della stessa energia psichica, disegnano una linea di fuga spezzata, verso un centro dal quale Rilke sembra aspettarsi una sorta di rigenerazione.

II.

Se parliamo di “centro” è perché Rilke svolge un discorso sulla legge, sul diritto alla letteratura e sui vincoli che l’attrazione verso il Fuori – per usare un’espressione cara a Foucault quanto a Blanchot 11– designa nel suo sentiero senza nome. Esisterebbe una legge poetica altrettanto esigente di quella degli uomini, una voce o un lamento che può prendere forme minacciose, a volte, ma che resta la condizione di un accordo con sé stessi: “Questo accordo” scrive Rilke nel Testamento “per quanto inspiegabile sia, è il tribunale davanti a cui mi trovo fin dall’infanzia. Sì, io vivo nel luogo in cui i miei giudici velati emettono sentenze, davanti ai loro occhi che brillano dai cappucci -: non l’ho mai lasciato” 12.

Poetica del revenant o del lascito ereditario, dunque, è un’ingiunzione che proviene da una memoria anteriore più vasta dei ricordi. Ma anche, se non soprattutto, un tribunale in cui risuona ancora la sublime inutilità del Bello (Critica del Giudizio)? Che cosa ne sarebbe di quest’istanza superiore, infatti, se scrivere poesia fosse soltanto questione di esprimere un Io, una situazione contingente e personale, al tempo presente? Il ripiegamento soggettivo è proprio ciò che si tratta di eludere, estrema tentazione sia della vita affettiva che di quella artistica.

Da qui deriva anche la peculiare tensione stilistica del Testamento che si ripiega su sé stesso tentando di superarsi, di eludersi come atto soggettivo, confessionale. Qui la scrittura frammentaria sembra svolgere la funzione di scorporare la confessione, rendendola discontinua e aperta ad ogni influsso del pensiero, seguendo forse un’intuizione sensibile dovuta alla figura della fontana che appare nello scarno paesaggio del prologo: “Di notte, quando mi sveglio, oppure a tarda sera (…) si ricostituisce ancora con indescrivibile dolcezza quel vasto, puro spazio acustico che tanto a lungo ho potuto abitare. Il suo inizio consisteva appunto nell’essere per così dire decorato dalle tenui voci degli uccelli, ma il suo centro era pur sempre rappresentato dalla fontana, e era sono disteso nella notte e ne prendo congedo” 13. Rilke si sofferma sulla sensazione uditiva: “ (…) E lo capii subito, lo percepii fin dal primo giorno: questa poliedrica variazione della sua caduta. Il soffio più impercettibile l’alterava, e quando tutto era immobile attorno allo zampillo improvvisamente isolato, questo ricadeva allora in se stesso e in se stesso risuonava con toni del tutto diversi che sulla superficie dell’acqua” 14.

Il getto d’acqua compone e scompone se stesso, cambia e si rigenera eludendo ogni peso e inaugurando un “albero per gioco”, di cui il testo può, forse, rappresentare una deriva grafica.

Il momento dell’ascolto, ad ogni modo, è segnato da una vera e propria invocazione: “Parla, dicevo alla fontana, e stavo in ascolto. Parla, dicevo, e tutto il mio essere le obbediva. Parla, puro incontro di levità e gravezza, noncuranza del peso, albergo per gioco, metafora degli alberi appesantiti di fatica, corrucciati nella loro corteccia”. Ma ecco che questo simbolo non sorge da solo, come se facesse parte di una rassicurante iconografia metafisica, piuttosto s’immette in un paesaggio rinnovato dalla figura dell’amante: “E con una involontaria, innocente astuzia del mio cuore, affinché nulla esistesse se non ciò da cui volevo imparare a esistere, paragonavo la fontana all’amata, lontana, perseverante, silenziosa”. La formula è ambigua: che cosa appare o viene prima, la fontana o l’amata? Si tratta di due simboli o l’uno partecipa del fulgore dell’Altro, non essendone che una copia sensibile, per dirla al modo platonico? Rilke chiarirà questo punto qualche pagina più tardi, dando ad intendere che il suo culto dell’arte non ammette molte discussioni: “L’esperienza amorosa appare come una forma per così dire minore, atrofizzata, inetta dell’esperienza creativa, come una sua riduzione, – rimane non sperimentata, incontrollata e, commisurata alla superiore gerarchia della realizzazione, illecita” 15.

Il tono apodittico, se non persecutorio, non deve ingannare. Si tratta di una vittoria mancata. In un modo abbastanza vertiginoso, si potrebbe osservare che anche la presunta superiorità ontologica dell’arte, come d’altra parte sull’intera sfera delle emozioni spontanee, è sottoposta ad una – peraltro consapevole, almeno in parte- dipendenza affettiva dal regno dell’infanzia, da quel rapporto mai risolto tra infanzia e storia che segna tutta l’opera rilkiana, ponendola sotto il segno di un’epoca di passaggio, in qualche modo di decadenza e di rinnovamento. Infanzia e storia: difficile non pensare anche a Walter Benjamin, e in particolar modo al lavoro di scavo inesorabile tra il “mondo di ieri” (S.Zweig) e la visione secolarizzata della vita moderna, di cui il ripiegamento sulla vita sentimentale, di stampo borghese, segna anche una precisa partizione dello “spazio affettivo”. Ben lontano da un’operazione archeologica tracciata nel solco della politica, magari rivoluzionaria, Rilke adopera certo tutt’altro registro espressivo, ma non siamo lontani dalla coscienza di una disgregazione di cui il Testamento è cifra poco eludibile. Continuare a pensare a Rilke come il poeta dell’Essere e del Sacro è possibile soltanto rimuovendo le istanze nietzschiane e antimoderniste che alimentano la sua opera, vale a dire la resistenza all’appropriazione così come, in generale, alle totalità dominanti.

III.

Esiste una forma di totalità che gode di un particolare privilegio nella letteratura critica intorno a Rilke: si tratta dello sguardo. Più in generale, del visibile. Il simbolo della fonte è rilevante per almeno due motivi. In primo luogo, ribadisce come per Rilke esista un importante rapporto tra il suono, l’ascolto e la parola; uno spazio sonoro che, nel suo commento alle Elegie, Peter Szondy aveva messo in discussione: “Se si vogliono accettare anche solo per un istante le categorie della percezione uditiva e della percezione visiva, dell’uomo dell’orecchio e dell’uomo della vista, va detto allora che non vi è nulla di più erroneo del definire Rilke un uomo dell’udito. La stessa importanza conferita alla musica nella sua opera tarda – si pensi ai Sonetti a Orfeo – parla a favore e non contro l’ipotesi che il senso preponderante, per Rilke, sia stato quello spaziale” 16. A conferma della sua tesi,  Peter Szondy cita una poesia “scritta probabilmente nel 1925”, dove si leggono i versi:

Musica: […]

Tu metamorfosi

dei sentimenti in che – : in paesaggio udibile.

Musica: Tu straniera. Tu spazio del cuore

cresciuto oltre di noi. […]

In effetti, Szondy precisava nella sua lezione che non si tratta tanto dell’influenza “che lo spazio reale assume per il suo sentire (…) ma contemporaneamente, o piuttosto, al fatto che per Rilke il mondo degli uomini si manifesta anche nei suoi aspetti invisibili – sia in quelli udibili, sia in quelli metafisici, che oltrepassano l’esperienza dei sensi – come un mondo costituito spazialmente, descrivibile con espressioni mutuate dal mondo fisico”. Sempre secondo Szondy, è proprio dalla metafora spaziale che l’ottava elegia trae la sua “coesione”, per l’appunto dalla “visione spaziale del Metafisico” che ne fa “una delle poesie più mirabili della poesia tedesca”.

In realtà, la poesia citata da Szondy dimostra al massimo la compresenza, per dirla con Kant, dello spazio e del tempo ma non una precedenza ontologica del primo sul secondo, costruita da Szondy in sede argomentativa, tralasciando altri testi. Pertanto ritengo più affidabile la lettura “fonocentrica” di Paul De Man, che invece sottolinea come la poesia rilkiana mira a far sparire il soggetto in vista di una forma più leggera, di natura sonora, infatti “quest’ultimo [il soggetto] perde l’individualità di una voce per diventare né più né meno che la voce delle cose, come se il punto di vista centrale fosse stato spostato dall’io alle cose esteriori. Contemporaneamente, queste ultime perdono la sua solidità e diventano vuote e vulnerabili come lo siamo noi stessi. Questa perdita dell’autonomia del soggetto e della capacità di recupero del mondo naturale viene nondimeno trattata come se fosse un avvenimento positivo, come un passaggio dall’oscurità alla luce. Sarebbe errato interpretare questa luce come la chiarezza di una conoscenza di sé. Nella logica della figura, non si tratta di ciò (…) Questa figura è la metafora di un divenire suono, non di un divenire cosciente” 17.

In secondo luogo, il passaggio dal simbolo della fonte alla sua incarnazione nell’amata (“paragonavo la fontana all’amata, lontana, perseverante, silenziosa”) esclude ogni presunta misoginia rilkiana, come si poteva trovare nella cultura del suo tempo (Weininger, Kraus, Benn, etc.), ma piuttosto mostra come il tema della vita amorosa sia da intendersi come una dialettica difficile quanto necessaria. Al limite, una dialettica negativa.

Diventa chiaro, leggendo i testi che costituiscono il Testamento, che una lettura puramente simbolica o filosofica manca, comunque, il bersaglio: se De Man ha qualche buon motivo per parlare di chiasmo, come di quella figura retorica che “inverte gli attributi delle parole e delle cose” e conferisce alle poesia rilkiane il loro peculiare fascino, a noi sembra che un altro motivo sia all’opera in Rilke, ed è quello dell’incarnazione. Anche l’incarnazione, in effetti, gioca secondo una logica paradossale che risale sempre a qualcosa di indefinibile. Da questo punto di vista, il Testamento somiglia molto ad un personale, improbabile Libro dei Morti: vi vengono convocati tutti, ma alla fine nessuno è riconoscibile. Rilke non parla ma traduce, spesso, qualcosa che non può essere detto. Ma forse non si tratta di una condizione specifica di Rilke, quanto della scrittura.

In termini blanchotiani, “chi scrive l’opera è messo in disparte, chi l’ha scritta è congedato. Colui che è congedato, inoltre, non lo sa. Questa ignoranza lo preserva, lo distrae autorizzandolo a perseverare. Lo scrittore non sa mai se l’opera è compiuta. Ciò che egli ha terminato in un libro, lo ricomincia o lo distrugge in un altro” 18.

Omettendo i momenti di dubbio e di perplessità per favorire le connessioni più o meno convincenti tra temi e figure, come spesso accade nella critica letteraria sempre avida di autoaffermazione, si finisce col dimenticare il lato paradossale della padronanza per come, invece, la descrive Blanchot e che, in questo commento alla notte rilkiana, mi sembra pertinente: “La padronanza, la maestria dello scrittore non è nella mano che scrive, questa mano «malata» che non lascia mai la penna, che non può lasciarla, perché ciò che essa tiene, non lo tiene realmente, ciò che essa tiene appartiene all’ombra, ed è un’ombra essa stessa. La padronanza è sempre appannaggio dell’altra mano, di quella che non scrive, capace di intervenire al momento opportuno, capace di afferrare la penna e di allontanarla. La padronanza consiste dunque nella facoltà di smettere di scrivere, di interrompere ciò che si scrive, restituendo all’istante i suoi diritti e la sua incisività fondamentale” 19.

Ciò che essa tiene appartiene all’ombra, dunque alla poetica – nel senso letterale del termine- che può fare del revenant il segno che lo esilia nell’opera. Gli oscuri persecutori che i critici non riescono a identificare nell’opera di Rilke, apparsi anche tra le righe del Testamento, trovano forse qui la loro ultima verifica piuttosto che negli aneddoti di una biografia ormai mitica?

IV.

Il Testamento, per certi aspetti, è un testo crudamente materialista: espone dei frammenti di vissuto su di una graticola intrisa di malumori e di speranze, di lamenti e di sotterfugi morali. L’elemento personale si sovrappone continuamente a quello estetico, anche perché il Testamento – ma quale poesia si potrebbe escludere da queste considerazioni, se non al limite i Sonetti a Orfeo?- rimane pur sempre una confessione d’artista. Tutto fa supporre, però, che l’autore dubitasse di questo genere letterario, ovvero che la frammentarietà del lavoro non sia casuale o dettata dalle circostanze ma che nasca da un’intemperanza sistematica, fondata proprio sull’insensatezza o infondatezza dell’Io. Ben presto Rilke, infatti, abbandona la voce narrante che caratterizza il “prologo” per scrivere dei frammenti che suonano, spesso, come delle ammonizioni, come delle voci che giungono da fuori: “Non pensare, artista, che la tua prova consista nel lavoro. Non sei l’uomo che intendi far credere e per il quale alcuni, non riuscendo a vedere più lontano, possono prenderti, fino a quando questo lavoro non sia connaturato in te al punto da non lasciarti altra soluzione che affermarti in esso. Operando così, sei il giavellotto magistralmente scagliato: dalla mano della lanciatrice ti accolgono leggi che si abbattono con te sulla meta -. Cosa ci sarebbe di più sicuro del tuo volo?” 20. Altrove Rilke scrive: “L’artista appartiene a coloro che con un’unica e irrevocabile determinazione hanno rinunciato al guadagno e alla perdita: perché ambedue non esistono più nella legge, nell’ambito della pura obbedienza” 21.

Nel complesso l’autobiografia rimane poco consistente e, in ogni caso, comprensibile soltanto tramite allusioni criptate, scritte per chi conosce le vicende (da qui l’utilità del corpo delle note nell’edizione italiana). Meglio ancora, il tono del resoconto biografico appare derisorio rispetto al vaticinio auspicato di un ritorno a Orfeo, per così dire. Il salto verso la poesia rimane l’unica preoccupazione, ossessiva, del Testamento. Ciò non stupisce più di tanto, visto che si tratta di un oggetto testamentario concepito con largo anticipo (precede la stesura delle Elegie duinesi) e, in un certo senso, votato ad un esito positivo: configurare il futuro di una morte simbolica quanto attiva, quella della poesia che verrà. Testo di passaggio, dunque, nonostante alcune affermazioni lapidarie come questa: “La mia solitudine, questa condizione essenziale della mia esistenza”. A volte, le recriminazioni possono ricordare Baudelaire: “Fossi un uomo in un contesto tangibile, un commerciante, un insegnante di cose concrete, un artigiano…” 22.

Sotto la cenere delle confessioni, comunque sostenute dalla credenza nel proprio valore se non da un fantasma di rivolta, Rilke scrive dell’avvenire della scrittura, mentre si congeda dal mondo definendosi ormai, lui stesso, un fantasma. C’è da dire che se non si ricava lo scrivere dall’effetto più o meno profondo di un revenant da che cosa lo si potrebbe ricavare? Che cos’è il segno se non, appunto, la traccia del suo passaggio? Anzi, l’unico passaggio dell’unica, singolare, traccia che un passaggio, nonostante tutta l’inerzia del mondo, c’è stato?

Si tratta di una linea di ricerca tipicamente modernista, e si potrebbe costruire tutto un percorso che va dalla celebre Passante baudelairiana ai Passagenwerk di Benjamin – apogeo del frammento e della memoria culturale che non si dà pace- per tornare alla “rammemorazione” rilkiana, ai confini della notte, certo, ma anche della vita moderna.

Nonostante i tentativi di inscrivere Rilke nel solco dell’umanesimo (Jesi), la sua opera mi sembra rientrare a pieno titolo nella tradizione del nuovo: tutto attesta in lui che niente è meno poetico di un Io, questa particella porta con sé un indice di prevaricazione, come insegna Nietzsche (Genealogia della morale). Può accadere così di sacrificare la poesia nel nome di un’oscura sopravvivenza, in una stanchezza dolciastra che assorbe l’energia stessa di ciò che si vorrebbe vivere: la poesia lirica è, spesso, disseminata di questo malessere a buon mercato che si accomoda nella soggettività. L’amore del poeta, legato alla “cieca obbedienza” come all’evidenza della sua inconsistenza che trapassa nelle cose viste o sentite, declinate nel verso, si sottrae a questo destino: non soltanto è “già estinto”, ma come la vita stessa è dichiaratamente assente. Esso si assenta, scrivendo la propria scomparsa che è, poi, il suo unico modo per esistere. Contro-firmare la morte, attendersi al di là dello specchio (nicht Spiegel, scrive Rilke con tono programmatico, al termine dell’ennesimo sfogo contro il dominio amoroso) 23 e, dunque, al di là del riconoscimento.

Rilke, pertanto, scriverà sul versante negativo dell’amore che non poteva essere. Ma questa negatività si converte estaticamente in un flusso di voci, immagini, libri di meditazione, lettere – tutto per assolvere il debito agli “eredi sconosciuti” con i quali il poeta rimane legato da un’appartenenza spettrale – come accade anche nel Malte, il Bildungsroman parigino – e da una rivolta che non può dire il suo nome.

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Bibliografia

R.M.Rilke: Il Testamento, Guanda 1983.

M.Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia 1997.

G.Deleuze: Critica e clinica, Raffaello Cortina, 1997.

F.Jesi, Letteratura e mito, Einaudi 2002.

M.Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli 2004.

M.Blanchot, Lo spazio letterario, Einaudi, 1967.

M.Blanchot, L’infinito intrattenimento, Einaudi 1977.

P. Szondi, Le Elegie duinesi di Rilke, ed. SE, 1997.

P. De Man, Allegorie della lettura, Einaudi, 1997.


1     R.M.Rilke: Il Testamento, Guanda 1983, p. 57.

2     Op.cit., p. 53.

3     Ivi, p. 53.

4     Cfr. M.Heidegger, Perché i poeti? in Sentieri interrotti, La Nuova Italia 1997. Heidegger, com’è noto, non sviluppa la sua analisi considerando l’aspetto psicologico del dissidio rilkiano.

5     R.M.Rilke, op.cit., p. 55-57.

6     Op.cit., p. 57.

7     Cfr. G.Deleuze: Critica e clinica, Raffaello Cortina, 1997.

8     R.M.Rilke, op.cit., p. 73.

9     Op.cit., p. 85.

1     0      Cfr. F.Jesi, Letteratura e mito, Einaudi 2002. I capitoli 7, 8 e 9 sono dedicati alla “macchina mitologica” di Rilke.

1     1      Cfr. M.Foucault, Il pensiero del di Fuori in Scritti letterari, Feltrinelli 2004; M.Blanchot, L’opera e lo spazio della morte (il terzo capitolo è dedicato a Rilke) in Lo spazio letterario, Einaudi, 1967.

1     2      R.M.Rilke, op.cit., p. 57.

1     3      Op.cit., p. 49.

1     4      Op.cit., p. 51.

1     5      Op.cit., p. 91.

1     6      Cfr. P. Szondy, Le Elegie duinesi di Rilke, ed. SE, 1997, p. 65.

1     7      Cfr. P. De Man, Allegorie della lettura, Einaudi, 1997, p. 44. Per la tematica della parola in rapporto al visibile e all’invisbile cfr. M.Blanchot, Parlare non è vedere in L’infinito intrattenimento, Einaudi 1977.

1     8      Cfr. M.Blanchot, Lo spazio letterario, p. 7.

1     9      Cfr. M.Blanchot, op.cit., p. 11.

2     0      R.M.Rilke, op.cit., p. 59.

2     1      R.M.Rilke, op.cit., p. 61.

2     2      R.M.Rilke, op.cit., p. 71.

2     3      R.M.Rilke, op.cit., p. 23 (letteralmente, “non specchio”).

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