
Di SONIA CAPOROSSI
Oh Santoni, tu sei, oggi, in Italia, fra gli autori di rerum vulgarium fragmenta, uno di quelli col più fresco piglio stilistico e scrittorio; giacché ne esistono altri che del definitorio termine di vulgaria non godrebbero mai, come te invece fai, di farsi pacificamente fregio; e tuttavia di nugae, come dire “sciocchezzuole” di catulliano impianto, per non dire “corbellerie” non certo estensi perché indegne di Messer Lodovico, ne scrivono, oh, se ne scrivono in molti!, incaponendosi in un fiero e malcelato cipiglio di serietà non ulteriormente giustificata.
Tu, no: tu sei onesto, sei uomo d’onore e d’onere, e nella tragedia soporifera della letteratura d’aspirazione alta, tu esci indenne scampando da quel nugolo di ninja indolenti e incapaci della penna come l’artigliato eroe canadese col fattore rigenerante, a cui ti accomuna il vello ipertricotico sparso ogni dove nel soma, tranne che sulla lingua.
Fra i mercanti di sogni di Madripoor, insomma, tu sei quello più adatto a rappresentare la sostanza concettuale già ellenistica (e ci si rifletta oggi, in tempi così barocchi e baracconi!) del mega biblion, mega kakon estìn.
Ecco il perché sostanziale, cioè fondante, del tuo Tutti i ragni, :duepunti edizioni, libello gradevole e ben scritto, uscito ad aprile scorso in carta riciclata fatta a mano da escrementi di elefante (non sto scherzando!), ma con la copertina che è una rizla, per la collana diretta da Giorgio Vasta e Dario Voltolini Zoo:||| Scritture Animali.
In esso vi descrivi tutti i ragni del tuo passato dall’infanzia all’età adulta: i ragni aerei, murarii, giardineschi e immaginari, i ragni sulla tela, le tele dei ragni, i ragni battaglieri e i ragni pantofolai, quelli sonnacchiosi e poco loquaci, quelli aggressivi e un poco mordaci, i ragni dei dungeons e delle cantine, quelli che cadono dall’alto e quelli scappano dal basso; il ragno come animal symbolicum, avrebbe detto Cassirer, se noi tutti ci si riconoscesse in letteratura (clerckiana), come eukaryota, animalia, eumetazoa, bilateria, protostoria, ecdysozoa, arhtropoda, chelicerata, arachnida, araneae, invece di dirci umani.
Allora voglio raccontarti, come ad aggiungere in appendice a questo tuo libello in forma d’elencatio aracnofilofobica e di morale (ché tanto si è in licenza Common Creatives e quindi lo si può fare), di quella volta che anch’io, come te, ho visto un ragno fuori dall’ordinario. Sì, io, grandissima passionata di esemplari kakokathatoi a otto zampe; io, che sempre li ho raccolti, tratti in salvo, amati ed allevati, per non dire lasciati in pace a tessere la domus penelopica in qualche anfratto o in qualche angolo di muro qui dove vivo, sommersa da informi cataste di carte a volte, queste sì, di sterco d’elefante, perché ricolme, per il troppo accumulo, nell’elefantiasi del collezionismo librario, di insettini della carta, i quali, penso, come se la mangiano (e non sembrino cachinna!), puranco la cacheranno.
Avendo studiato ampiamente la classificazione zoologica di codesti fascinosi mostri di natura, per probabile esorcismo dell’ancestrale timore che anche tu conosci e descrivi nel tuo libro in quanto tale, non tardai a riconoscere, una sera, una tegenaria, sì, ma non domestica (la cui visione improvvisa già di per sé incuterebbe il ritiro dal mercato in poppa e furia della produzione mammaria ad esemplari femminini di almeno sette od otto specie in pieno allattamento da cucciolata); bensì una tegenaria agrestis (regno animalia, phylum arthropoda, classe arachnida, ordine araneae, famiglia agelenidae, genus tegenaria, specie agrestis), placidamente abbarbicata sulla parete antistante il materasso, nella stanza da letto, sopra il comò, o meglio, fra questo e la finestra: e avrei giurato sul Dante di Benigni (tanto, se mi fossi sbagliata, non sarebbe valsa comunque la penna) che con il multiforme congegno oculare sgranato fra pelo bruno e pelo ocra, stesse guardando proprio me, mentre mi maciullavo il labbro inferiore a morsicature nervose, dondolando un braccio poco sotto di lei, impalata su una sedia su cui ero salita senza ciabatte per non sporcare il cuscinetto; e la fissavo, contraccambiandogli lo sguardo, come a dire: “mo’ che faccio?”.
La tegenaria agrestis, com’è noto ad ogni aracnofilo che si rispetti, a differenza della ben più mastodontica sorellina domestica, è animaletto che poco ha dell’indifeso e del difendibile, in quanto il morso procura necrosi dei tessuti cutanei con una rapidità ed un’intensità che sarebbero davvero mirabili se nel frattempo non fosse intercorsa tutta la letteratura (non clerckiana) dei più tremebondi e apocalittici films dell’orrore a tematica splatter, fra cui Aracnophobia appare come quello, in questa sede, maggiormente all’uopo.
Non c’era alternativa: bisognava toglierla di lì. E tuttavia, mai e poi mai avrei a cuor leggero indulto alla più facile e rapida delle soluzioni: l’aracnicidio. Occorreva infatti trarla in salvo e reintrodurla nel proprio ambiente naturale, pena lo sviluppo imprevedibile nel mio sostrato psichico, già duramente provato dallo studio e dalle turbe infantili edipiche, di una qualche nevrosi fobica, nella fatti–specie (questa sì, clerckiana), della celebrata e cerebrale aracnofobia di cui tanto si decantano i pregi congestionanti delle vie nasali e l’induzione coatta all’onicofagia compulsiva; proprio ciò da cui, dalla prima infanzia fino all’età adulta ed oltre, io ero riusciva ad esentarmi con pieno successo (onicofagia a parte), fra le epocali frigne in vece scomposte e poco achillee dei compagnucci di giochi e di scuola prius, et indi degli amici e dei colleghi (imperscrutabilmente, di sesso maschile), che avevano sempre mostrato intorno a me il più vivo timore ingiustificato nei confronti dei ragni, mentre io, ecco, io li accoglievo persino sul palmo della mano come si fa con un uccellino.
Nella mia mente, pertanto, veniva a delinearsi una sola soluzione sensata da perpetrare. Scesi così dall’impagliatura ikeanica che maldestramente sorreggeva i miei due poco femminei quarantatré di piede e corsi in cucina a cercare una cartolina di spessore (riconobbi adatta al caso un Saluti da Rimini con chiappe femminee in bella vista inviatami, tempo addietro, dal dirimpettaio gay) e un bicchiere di vetro per porre in salvo il monstrum. Impresa non facile, occorre dichiararlo; giacché, dopo l’agevole imposizione a fil di muro della vitrea prigione, contro le pareti della quale la bestìola scalciava come Holly e Benji con la forza proporzionale di un ragno moltiplicata per otto, mi resi maldestramente conto che lo scivolamento del cartoncino muro muro sotto il bicchiere, per ottenerne il successivo capovolgimento, non fosse cosa affatto pacifica.
L’intenzione dichiarata era quella di trarre in salvo, nel sottoerba pratesco antistante la mia casa, l’animale che tentava, tuttavia, di scappare ad ogni intromissione, interponendo un arto fuori dal bordo entro il quale cercavo disperatamente di trattenerlo, osservandomi per giunta con lo sguardo polioculato in un ostentato gesto di sfida, quasi a dire: “non ci riuscirai senza dovermi fare del male alle zampette, non importa quale per prima; e siccome sei aracnofila, come il metodo del Dottor Bicchiere e Professor Cartolina mi palesa chiaramente, ben presto desisterai dall’epigastrica impresa, giacché ti faccio schifo, e mi farai tessere la tela in qualche anfratto di casa tua”.
In effetti io non riuscivo nel mio intento, per quanti sforzi potessi profondere a favore della speciosa preservazione di colei che non voleva essere salvata, ma solo lasciata in pace. Risollevai il bicchiere e smisi di tormentare la vittima con il foglio, allontanandomi in fretta per evitare morso certo. Mi asciugai il sudore della fronte con un fazzoletto e presi a meditare sul da farsi, non staccandole il binocolo di dosso nel timore di fughe improvvise che mi avrebbero indotto ad aprire una battuta di caccia, destando dalla siesta tutto il vicinato con improperi la cui fonematica avrebbe posseduto un ben scarso fattore dopaminico.
In quel momento si verificò quell’epifania joyciana di indubbio valore catartico che sempre occorre alla solutio di qualsiasi plot più che degno: mi accorsi infatti che una delle otto zampe appariva più corta delle altre, e avvicinandomi con premura al corpo dell’animale, notai che riportava i segni di una morsicatura recente e reiterata, di natura inequivocabilmente o sadiana o masochistica. Fu allora che mi venne in mente la leggenda di origine ancestrale e provenienza parentale (o forse era Calvino?) in base alla quale un ragno, quand’è in vecchiezza e quindi sul punto di morire, preferisce togliersi hegelianamente dal mondo divorando se stesso, come per far pulizia della propria presenza divenuta ingiustificabile nella concatenazione naturale degli eventi di cui facciamo parte tutti quanti, nostro malgrado. Non c’era in definitiva molto da fare: sarebbe stato di gran lunga meglio, per la bestia e per me, per pietas e per utile, ammollarle una ciabattata; e a farla breve, così fu.
L’ellissi seguente è dettata un po’ dallo stile, un po’ dal decoro, un po’ dalla rimozione freudiana. I poveri resti gorgogliarono a lungo, avvoltolati all’interno del migliore sudario funebre di carta igienica profumata che fossi riuscita ad approntare (Eurospin permettendo), giù giù dentro lo scarico fognario, avendo apposta a mo’ di lapide e coperchio, dopo il de profundis di rito, la tavoletta del water.
E così è sempre, quando lo sforzo scrittorio non vale l’impresa, sia per l’autore sia per il recensore; ecco giunta la morale. Tu prendila come una parabola di come io sogno vanamente che dovrebbe andare il mercato letterario dei libri facili (il critico tenta di salvarli, ma il loro destino è la soppressione) e, ben lungi da poco amichevoli ciabattate, come un accalorato invito, fuor di metafora, rivolto a tutti gli scrittori valenti, te compreso (non si riponga fede in sequele oceaniche che richiedano l’ingresso nelle agognate porte di San Pietro!): dedicarsi, orsù, ad imprese scrittorie non dico titaniche (ché non regge ormai la pompa, né al lettore né allo scrittore), ma maggiormente centrate intorno ad un perno di valore; allontanarsi dalle tondellianerie e dai giovanilismi di riporto in direzione dell’opera matura, facendo lo slalom fra ammanitismi, moccismi gocciolanti e dia-volerie varie; ritrovare un senso civile per il mestiere di scrivere, che non significa letteratura impegnata e barbosa a tutti i costi, bensì un richiamo innanzitutto all’aspetto formale, cioè d’arte, dando il primato dell’importanza alla pagina rispetto al proprio nome, ché sennò il pubblico non capisce, e pensa che qualsiasi stronzata data alle stampe, siccome è di XYZ, detenga forzosamente il valore aureo di tutto intero il contenuto delle casse dello Stato dell’Arte, sed sic non est; infine, sì, magari anche un occhio al contenuto, al suo dipanarsi e al suo perché, non guasterebbe.
Per altre anime probe, non garantisco, ma tu puoi, perché non ti manca nulla e i tempi sono giunti, come dichiara quest’operetta in primis, talmente superflua (il tuo racconto o il mio?) da non superare lo status di un ben riuscito esercizio letterario che stampare in carta avorio sarebbe stato d’affronto a quei bravi elefanti dalla volenterosa peristalsi. Già te lo consigliai un poco fra le righe, del resto, sul finale della recensione al tuo precedente Se fossi fuoco arderei Firenze, analisi critica che t’era tanto piaciuta come spero ti piaccia questa mia nuga, nella quale, barocchismi stilistici a parte che mi son propri nel bene e nel male, anche un poco per farti ridere, ho voluto seguirti.
Con affetto e sincerità impregnate di quella stessa impurezza che non mi aprirà mai la strada a una carriera compiacente che non voglio.
Sonia Caporossi
capolavoro. ribadisco: questa recensione è un capolavoro. (e mi dà molto da pensare)
scrittura di spessore di fine intendimento.Complimenti Sonia!
ok!
bene…
siamo già
arrivati a quel
punto, dunque:
quello in cui ci si
aspetta che io debba
scrivere minimo Petrolio
(pensavo più a una roba che
assommasse Infinite Jest e 2666
co’ un po’ d’Ulisse e come sottotesto,
magari, i Veda) – e se lo dice Caporossi,
state certi: è vero. Non dimentichiamo però
che cominciai tipo l’altro ieri con questa storia
dei libri: che solo ora sto pigliando due misure al
mondo (e son sballate di sicuro). Ma forse lei vuol
dire solo che la cassetta degli attrezzi è pronta e ci si
aspetta un giuramento impuro. E sia! Io pure credo che
i libri chiedan tutto questo. Ci provo, giuro. Oppure muoio.
O ancora meglio – ecco una vittoria! – le due cose assieme…
A me Petrolio manco piace, se è per questo.
Però per i calligrammi ti vedo portato!
Scherzo, hai capito perfettamente: la cassetta degli attrezzi è pronta.
Secondo me.
Quanto alla roba postmoderna che hai prefigurato, ti prego: c’è già Pynchon!…
(Circa la morte, non farti prendere la sindrome di Michelstaedter e di Morselli per favore; non smettere di scrivere!)
Sonia
haha e si ruzza…
(anche se il giuramento impuro è fatto)
vediamo. Io non la sento prontissima. Ora c’è il romanzo SIC, la cui revisione tanto ha contribuito a riempire quella cassetta. E poi farò anche delle cose “inaspettate” (non dico niente…), ma un romanzo ad alto peso specifico (o meglio: ad alto peso specifico presunto) è in lavorazione.
Ottimamente! A me come scrivi piace, e lo sai. Altri sono spacciati in partenza. Tu devi solo stare attento a non cadere in un cliché. Ecco, questo soprattutto. Il resto verrà da solo.
Poi è chiaro che altri che sono “qualcuno” rispetto a me che non sono “nessuno” possono anche suggerirti altro. Ti credo. Gli interessa!
Sonia
Il problema dell’opera matura: quasi incomprensibile per l’editoria bruciaesordienti. Il grande Vanni fatica a far uscire secondo me le sue cose più ambiziose. E basti vedere la brutta campagna promozionale e grafica che Feltrinelli aveva riservato ad un bel libro come “Gli interessi in comune” (con tutte le riserve del primo libro, ovvio). Comunque, la strada è quella: la voracità scrittoria di Vanni. Dopo vent’anni di blandizie al lecteur supposé lire, bisogna essere feroci come lui. E ambiziosi senza compromessi, come credo lo sia.
Il problema è proprio che chi vale molto oggi spesso rimane ingabbiato in un cliché (letterario, editoriale, di genere) non riuscendo più a uscirne fuori, e non vorrei che accadesse a Vanni.
La ferocia, sono d’accordo, lo salverà.
Sonia
I tempi sono cambiati. Fermo restando che la generazione dei trentenni soffre spesso quello che altrove soffre chi cerca lavoro, ambisce a posti più elevati e non allo stagismo di massa generalizzato. Ecco, io vedo l’esordismo della stessa pasta dello stagismo. Una piaga che impedisce un percorso di maturazione (o anche semplicemente un percorso) a molti, una specie di protratta neotenia editoriale.
Infatti il problema diffuso, generalizzando, è proprio il rischio di cadere impastoiati nell’esordismo cronico tramite cui stracampano gli editori (a fascette, in primis).
Sonia
Molte volte ho visto nascere e morire la parola “insetti” nelle bocche dei miei maestri e inevitabilmente avverto un senso di familiarità leggendo la Letteratura in parabola ragnesca di Sonia Caporossi. Poiché l’artista che è in lei non abbisogna dei miei complimenti, mi limito al ringraziamento per aver reso piacevole qualche minuto di questa mia domenica. Grazie. La condivisione è totale.
Concordo in via generale con quanto dite (Sonia e Ale) nei commenti. Tuttavia non dimentichiamo che operazioni come la collana ZOO (o, in senso più ampio, la stessa Contromano di Laterza), piuttosto che essere un’alternativa al sudare sangue sul romanzo “grosso”, aiutano l’autor giovine a (eventualmente) arrivarci, concedendogli l’opportunità al tempo stesso di sperimentare e lavorare su un tema, oltreché di andare in libreria – perché hai voglia a fare, bella la Internet, ma alla fin dei conti i tuoi testi vengono davvero presi in considerazione, commentati, analizzati, solo se “escono” – affinando così la tecnica e ampliando la portata potenziale.
Dopo Gli interessi in comune, per dire, avevo già scritto un romanzo lungo, che alcuni tacciarono di eccessiva complessità – bon, adesso, dopo Se fossi fuoco…, dopo questi ragni (e anche dopo la revisione di In territorio nemico, il famoso romanzo SIC) mi rendo a tal punto conto dei suoi limiti (limiti altri eh, secondo me non era per nulla “troppo complesso” ^_^) che prima ancora di rimetterci le mani (cosa che farò comunque in futuro) ne sto scrivendo un altro nuovo e ancora più grosso. Questa, credo (spero) è crescita.