Misha Gordin, Crowd 47, 2000

Fatti e interpretazioni. Appunti sulla possibilità di una condizione neomoderna del linguaggio e della logica

Misha Gordin, Crowd 47, 2000
Misha Gordin, Crowd 47, 2000

Di SONIA CAPOROSSI


In questi brevi appunti verrà discussa la famosa affermazione nicciana: “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, perno della critica al nichilismo e al costruttivismo che Maurizio Ferraris mette in campo nel suo recente Manifesto del Nuovo Realismo (Bari, gennaio 2012). Questi appunti, tuttavia, esulano decisamente dal punto di vista di Ferraris e, per il loro tramite, si discute da altre angolazioni la lotta metacronica che Nietzsche e Ferraris mettono in campo nella riformulazione attuale di alcuni capisaldi della filosofia del Novecento, sperando che i due possano far pace quando si incontreranno nel paradiso dei filosofi, anche se personalmente ritengo la cosa molto difficile. Non vi vengono citati troppi filosofi o correnti: ad esempio, non vengono nemmeno nominati Heidegger, Gadamer, Apel, Jauss e quelle che Gianni Vattimo, ne “La fine della modernità”, chiama “interpretazioni costruttive dell’ermeneutica”. Questo non significa che non se ne sia tenuto conto in questi brevi appunti. Le mie timide argomentazioni propositive sono dunque le seguenti. 

“Non ci sono fatti, solo interpretazioni.” 

“Delle due l’una: o questa stessa frase è un fatto quindi è certa, e allora contraddice l’assunto, oppure è un’interpretazione dunque è incerta, e quindi lascia il tempo che trova.” 

“Perdonami, ma una frase non può essere un fatto.” 

“Beh, sarà un fatto del linguaggio”. 

“Ma questa, e anche l’altra, sono due interpretazioni!” 

“Certo, ma di che cosa?” 

Poiché soggiace a schematismi concettuali, una semplice frase non può essere un fatto. Però poi lo è nel senso del suo esistere e darsi alla comunicazione. Ovvero,  c’è un fondo residuale fattuale che la collega alla comprensibilità e condivisibilità logica, linguistica, estetica (in climax discendente, dalla semiosfera in atto al suo fondamento). Il cosa, quanto ai concetti, non va presupposto ingenuamente come oggetto in sé, ma come ponte fra il sé e l’altro che permette la comunicazione: si parla sempre di qualcosa, altrimenti non si parla affatto. In questo senso, tutto il linguaggio è fattuale. Le interpretazioni si danno di fatti, e fatti sono anche quelli del linguaggio in quanto tale. Quindi io non direi che non ci sono fatti, solo interpretazioni. Direi piuttosto che le interpretazioni divengono fatti quando si manifesta l’accordo sensato fra il quid logico e quello estetico; che non è il tanto vituperato e banale senso comune, bensì il fondamento (ebbene sì, il fondamento in senso estetico non è del tutto morto!) su cui è possibile l’esperienza in genere, quel cogliere di colpo estetico – logico in base al quale dire che questo è un cane di fronte a un animale chiamato tale ci mette tutti d’accordo. Tutti d’accordo, o quasi, esulando dal discorso, ed alla stessa stregua, sia il pazzo che Dio: giacché, come già Des Cartes aveva intuito benissimo,  ambedue posseggono un sistema di riferimento logico radicalmente altro rispetto al nostro, di cui non possiamo sapere né dire nulla, e del quale pertanto, per quanto kantiano questo assunto preliminarmente possa sembrare, per ora non discutiamo.

Piuttosto, per ora, c’è da notare che il fondamento estetico – logico così inteso è ben lungi dal possedere una presunta natura trascendentale: esso è immanente al fatto in quanto tale, perché non si darebbe senza di esso e viceversa, essendo il senso ed il fatto intrinsecamente legati: una sorta di sensumfactum, se volessimo poetizzare (il verbo non è a caso!) non percepito dal di fuori, ma dall’interno dell’esperienza stessa, essendo noi stessi quest’esperienza, ed essendo l’esperienza, innanzitutto, un fatto comunicativo.

Per spiegarne l’immanenza, prendiamo un esempio tratto dalla storia della filosofia: la disputa sugli universali, e domandiamoci che cosa succede davvero quando dico, per puro  esempio,  “Dio”. Ovviamente il senso di quanto qui si afferma non è che se dico “Dio”, esso debba necessariamente esistere; vorrei piuttosto suggerire che, se dico “Dio”, si capisce immediatamente che cosa io con questo termine voglia dire. Un interlocutore preparato potrebbe qui obiettare: “ma ci sono culture in cui il concetto di Dio non esiste, per loro Dio non c’è; dunque le interpretazioni modellano la realtà…” In tal caso le interpretazioni soggiacciono alla struttura fattuale del come è fatta una cultura, che è un fatto, appunto, di cui dare un’interpretazione non fa che deformare il sistema; inoltre, dire questo sarebbe un’interpretazione nostra di una cultura altra, dunque senza valore ermeneutico alcuno, se non quello approssimativo di una ricerca o, peggio, come spesso accade, di un abbaglio per sovrapposizione e fagocitazione di una sovrastruttura culturale sull’altra; in terzo luogo, e cosa più importante, non si deve confondere il piano ontologico col piano epistemologico: qui non si sta minimamente parlando di ontologia, ed il monaco Gaunilone, nella già citata disputa degli universali, contro Anselmo aveva avuto già la vista lunga.

Andando incontro ai disumanisti, potremmo quindi ammettere che non sono io che presuppongo un cosa, è bensì il linguaggio stesso a farlo, e questo in quanto “interpretare” è un verbo transitivo che vuole l’oggetto. Il problema è che è proprio dall’interno del linguaggio, e usando il linguaggio, che anche solo se ne parla. Quindi non si vede perché non si dovrebbe valutare la realtà (culturale) attraverso quello stesso strumento immanente ad essa che si usa per esprimerla.

Allora forse è proprio l’espressione “non ci sono fatti, solo interpretazioni” ad essere una petitio principii. Il problema è che, per dipanare il reale oltre la mera sensazione animale, non esistono a nostra disposizione altri strumenti al di fuori del linguaggio, e neanche strumenti altri. Ma uno strumento, per esser tale, deve detenere una proprietà d’uso transitiva, appunto strumentale.

E questo è un fatto, per il nostro sistema di riferimento mentale, per la nostra logica. La nostra, non un’altra. La logica nostra, così come è fatta e strutturata, non una logica altra. Ed in questa nostra logica, uno strumento è strumento di e per qualcosa. Ecco che torna su, maledetta nei secoli a venire, la cosa. La cosa come oggetto è un fatto. È l’oggetto d’interpretazione. Altrimenti, ripeto, non si porrebbe neanche il problema, perché non se ne potrebbe nemmeno parlare.

Il circolo ermeneutico, insomma, fa sì che si diano interpretazioni che sono sempre di fatti, almeno tanto quanto si danno fatti che si offrono all’interpretans per essere interpretati, ed è così che l’interpretazione stessa, a sua volta, diviene un fatto: “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, a sua volta, è un’interpretazione, nella misura in cui parla, negandole, di interpretazioni fattuali, ed è un fatto, contemporaneamente, nella misura in cui si dà al sistema di riferimento mentale  (il nostro, non un altro, nostro, non altro) per la comprensione e la comunicazione, ed anche, come in questa sede, per la discussione o la confutazione.

Questo perché l’interpretazione ha sempre un quid fattuale su cui transitare;  eppure può, nel suo massimo picco di autoreferenzialità, divenire intransitiva, ricadendo su se stessa?

Questo sarebbe, ed è, il suo esito costruttivista estremistico, probabilmente il senso nicciano della questione; ma è già un’affermazione costruttivistica in sé anche solo  affermarlo, in quanto è lo strumento linguistico e l’uso che se ne fa a concederci questi sensi. Il residuo autistico che c’è nell’assunto nicciano fa sì che nel senso di Nietzsche ci sia solo l’interpretans e non si abbia bisogno dell’interpretandum; e tuttavia, senza interpretandum non si dà interpretazione, ovvero esiste (in senso epistemologico, non ontologico) un residuo fattuale che consente la determinazione dell’atto dell’interpretare, per cui ogni altro uso è in un certo senso, ovvero a sua volta un’interpretazione dell’interpretazione; legittima, per carità, se esiste in senso forte, del resto; ma sempre e solo in un certo senso, che è come dire in un senso incerto, per il quale, insomma, io posso anche immaginare, allo stesso modo, Dumbo che vola con le orecchie al quinto piano, appena fuori dalla mia finestra.

Qui si svela, insomma, in tutta la sua drammatica cogenza, la necessità della differenziazione logica fra validità e verità, concetti invece sistematicamente confusi all’interno della temperie costruttivistica, che per questo ha generato non solo una sorta di confusione poetica lontana da qualsiasi pretesa filosofica, ma anche una crassa serie di veri e propri errori ermeneutici. È questa la reale problematicità insita nel costruttivismo estremistico, a causa della quale occorrerebbe discutere il costruttivismo con le sue stesse armi, invece che dal piano di un realismo negazionistico come reazione al negazionismo costruttivista della realtà: perché altrimenti, dal dualismo si rischia di non uscire e di tornare puramente al razionalismo seicentesco. Con tutti i manicheismi  immobilizzanti che questo comporta.

Maurizio Ferraris, in questo senso, sembra combattere il costruttivismo con armi spuntate in partenza, nonostante intuisca e tematizzi l’importanza di ciò che lui chiama “la fallacia del sapere – potere”, ovvero il passaggio indebito, che il costruttivismo sempre fa, dal piano epistemologico a quello ontologico e viceversa. E tuttavia Ferraris sbaglia quando dà tutta la colpa a Kant per aver tematizzato gli schematismi concettuali; sbaglia perché sarebbe come dare la colpa alla scuola di Copenhagen per aver teorizzato la fisica mentalistica. Quelli messi in campo nella storia della filosofia, compresa la rivoluzione copernicana del boccoluto di Konisberg, sono semplicemente strumenti per pensare: tutto dipende quindi dall’uso che se ne fa. Kant, in questo senso, è stato un ingegnere almeno quanto Locke un carpentiere, e se il problema è l’uso che degli strumenti linguistici si fa, si può candidamente giungere a pensare che Nietzsche, affermando che “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ne abbia fatto, in questo caso, un uso più poetico, cioè costruttivista, che filosofico.

Questo perché il costruttivismo filosofico, a ben vedere, condivide con la poesia l’arte dell’inventio e dello stilema, il gusto della formula, della neoformazione categoriale e del neologismo lessicale giustificato apoditticamente, il barocchismo metaforizzante, l’analogismo analitico, il criticismo decorativo; l’essenza basilare, insomma, della paraletteratura, che è il genere letterario, di grande impatto e di enorme fascino, a cui certa filosofia del Novecento fino ad oggi sembra davvero poter fare capo. Non c’è niente di male ad esprimersi filosoficamente in questi termini, anzi, la filosofia per questo tramite acquista nobilmente sensi e stile: però occorre fare attenzione a non cadere nell’estremismo, perché significherebbe lo shifting imprescrutabile da un campo semiotico (la filosofia) all’altro (la poesia), non potendo più, per forza di cose, pretendere di rendere ragione di quanto si vada dicendo. Ma c’è di più.

Tutto ciò ha, infatti, anche esiti etici di fondamentale importanza per definire non solo il mondo in cui viviamo, ma anche il modo in cui lo viviamo; esiti etici le cui derive, se non previste in tempo, sono state e continueranno ad essere estreme fino all’inimmaginabile. Pensiamo per esempio al detto di Apuleio: “la demenza non può riconoscere se stessa, come la cecità non può essere vista”. Significa che noi non possiamo indagare i principi a cui attribuiamo valore assoluto, perché osservarli significherebbe che non abbiamo gli occhi piantati in mezzo al viso ai lati del naso, ma appendici oculari che stanno fuori di noi e guardano dall’alto, come strumenti di un io che non possiede una qualsivoglia torre di controllo cerebrale o psichica, e quindi decade ad assenza dell’io, ovvero a morte dell’uomo. Antropologicamente, possiamo, in tal caso, solo indagare i valori degli altri. Ma chi è che allora, indaga? E chi sono, a loro volta, gli altri?

L’autoconoscenza assoluta è un non senso; noi siamo e persistiamo nel relativo. E relativamente a noi, sempre, parliamo. Sono quindi arrivati i postmoderni a dire che il relativismo è un valore assoluto (!). E si comprende bene che  questo è un altro colossale non senso, o per meglio dire, il principale dei problemi della nostra epoca, anche da un punto di vista sociale e massmediale. Come potremmo pensare mai di uscire da quest’empasse, se ci siamo ridotti in queste estatiche condizioni di autonegazione sostanziale?

Il discorso è molto semplice, come qualunque discorso veramente filosofico dovrebbe sempre essere (la semplicità espressiva, che non ne sottintende una concettuale, è comunque garanzia di esenzione dal costruttivismo poetico, o di un uso non estremistico, bensì oculato di esso!). Proviamo adesso a pensare per un attimo alla struttura logica del linguaggio. Essa, wittgensteinianamente, è tautologica per sua stessa conformazione. Si faccia riferimento infatti alla forma logica normale della definizione: x è y. Noi parliamo proprio così, questo è lo strumento che abbiamo a disposizione, e non ce n’è un altro. Questa è la nostra logica, non un’altra, e neanche una logica altra.

Per ciò, io sostengo con forza che è nell’aisthesis, nel fondo di senso comune in senso forte, che possiamo ritrovare i sensi delle cose e delle parole.

Il linguaggio, abbiamo detto tante volte, è uno strumento. Se il contadino non usa la zappa per piantare le patate, succede che muore di fame. La parola viene così a delinearsi come il nostro primo ed ultimo porto sicuro, lo strumento che dobbiamo usare, ma da cui non dobbiamo farci usare; come fosse una bacchetta magica non onnipotente, in un certo senso (uso il costruttivismo poetico, ma non me ne faccio usare!), perché non cambia “le cose” ma solo i concetti che se ne danno, ma onnipotente, in un altro senso, proprio in quanto riconosce i suoi limiti di intervento sulla realtà, quegli stessi limiti dettati dal sistema di riferimento mentale e logico che di volta in volta, nella nostra semiosfera culturale, possediamo. E pur tuttavia, all’interno di quegli stessi limiti, è lo strumento che costruisce la sua casa, la casa del linguaggio (uso il costruttivismo poetico, ma non me ne faccio usare!), come la chiocciola costruisce la sua casa da sé. Questa casa ha infinite dimensioni, è un non luogo che più luogo non ce n’è, e noi dobbiamo esserne i maghi, altrimenti la realtà si volatilizza e non c’è residuo realistico o zoccolo duro veritativo che tenga.

Occorre infatti decidersi: o la parola è limitata, e dunque non possiede un’istanza costruttivistica, per cui i concetti non conformano la realtà, e allora non possono crearla; oppure è illimitata, e allora possono anche crearla, ma sempre in un certo senso: nel senso della realtà concettuale, che non potrà mai cadere nel campo d’indagine dell’ontologia. Io direi allora che le parole e le cose le rintracciamo senz’altro come coincidenti fintanto che possiamo attingere al fondo di senso comune estetico, la cui principale funzione è quella di guidarci nel labirinto del senso delle cose circostanti.

È un discorso molto serio, che dall’estetica va a parare nell’etica. Giacché, se il mondo intero è costruito dalla parola (come io in fondo non credo in senso letterale, cioè costruttivistico estremo, ma solo in un certo senso), allora tutto perde di realtà e scade nel relativismo assoluto postmoderno; se invece la parola, lungi dal crearlo, non governa almeno il mondo (nelle strutture ermeneutiche di base per il tramite culturale che ognuno di noi possiede), allora tutto è caos. Se invece rientriamo in possesso del linguaggio, diventiamo solo i padroni apparenti del mondo, cosa che non ci deve parer poco, perché, intanto, per il suo tramite, diveniamo i reali padroni di noi stessi; cioè, del nostro mondo; ovverossia, del mondo intero. Allora, si capisce la funzione positiva del costruttivismo, a patto che l’uso che se ne fa sia consapevole.

Se siamo nel caos, chiediamo pure aiuto a un mago del linguaggio, anzi: diveniamo noi stessi maghi del linguaggio e della comunicazione; caliamoci esteticamente nel senso delle cose e poi condividiamolo con gli altri all’interno di un comune orizzonte di senso. Tiriamo fuori le parole dalla tuba prendendole per le orecchie: facciamo pure poesia consapevole del reale, ma per favore, non scambiamola per filosofia né tantomeno per la verità. Infatti, la filosofia, quella vera, è un’altra cosa: essa “scopre l’ovvio della non ovvia condizione dell’ovvio” (Emilio Garroni). Ed è una facezia solo apparente, il lettore affezionato di Critica Impura lo sa.

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18 pensieri su “Fatti e interpretazioni. Appunti sulla possibilità di una condizione neomoderna del linguaggio e della logica

  1. Ho davvero molto apprezzato il rigore del tuo scritto. Aggiungo solo una chiosa.

    La svolta linguistica inizia con Gorgia, Zenone, Parmenide, Protagora e Socrate, che dice nel Fedone, mi sono rifugiato nei Logoi. Wittgenstein si immette su questa strada e ci fa notare ancora una volta che logos è pensiero e discorso, la stessa cosa – c’è sempre, a quanto pare, bisogno di ricordarlo – la natura ama nascondersi e noi tentiamo le strade della conoscenza del mondo, navigando nei linguaggi – E sembra proprio che qualcosa otteniamo, se abbiamo l’energia elettrica, strade, medicine ed internet – Il mondo esiste, ci suggerisce Wittgenstein, e la scienza lo esamina nei logoi – la logica sta nel logos, è incorporata nei nostri linguaggi – così procediamo da sempre – Ma, dimmi un po’, si capisce davvero di cosa vanno cianciando nuovi realisti e pensatori deboli? Mi sembra che li accomuni la fede in uno dei miti più duri e più infondati, quello della storia – Da qui le reciproche accuse su chi è progressista e chi conservatore, entrambi i gruppi vedono la storia come sviluppo ed attuarsi dell’essere nel pensiero dell’umanità – ma dai, dove fondano questo comune terreno di confronto? sulle ciance, appunto – Fondamento non c’è per il pensiero, la nostra seconda navigazione è sempre la stessa di 2500 anni fa – E la consapevolezza che il nostro pensiero è infondato a rendere libero e potente il nostro pensiero occidentale – Molta della filosofia del ‘900 fa il gioco delle tre carte e, senza farsi scoprire, muta le parole in cose reali, addirittura metafisiche, e ci inganna – Tenta di ingannare noi, ma a volte non ci riesce e noi guardiamo ad occhi aperti proprio quell’ovvio dove nuotiamo –

    1. Il fondamento è stato negato da tutti nel Novecento ed oltre come retaggio dell’idealismo trascendentale; ma un fondamento, per esser tale, non può essere trascendentale, altrimenti non sarebbe fondamento; non può possedere che la natura dell’immanenza, dunque il problema del fondamento non si pone: esso c’è, è immanente, e va indagato nell’aisthesis, almeno allo stesso modo in cui le fondamenta di una casa con tutti i crismi antisismici, per sorreggerla, non stanno “fuori”, ma “sotto di essa, le pertengono come basamento e ne assicurano sia la stasi, in quiete, che la dynamis, quando arriva un terremoto.
      Il fatto è che oggi, di filosofie “con tutti i crismi” che resistano alle scosse, non è che ce ne siano poi molte.
      Per quanto riguarda la storia, le prime pagine de “La fine della modernità” di Vattimo sono proprio tutte protese, assiomaticamente e dunque indimostrabilmente, a definire il nichilismo postmoderno come esente dal mito della storia, dicendosi “fuori”, non contro di essa, perché Vattimo è consapevole che dicendosi contro, ci rimarrebbe impastoiato in mezzo. Il problema è che non basta “dirsi” fuori per starci davvero; la fine della storia deve essere ancora dimostrata, i punti di osservazione sono talmente vari, e gli esempi addotti talmente poco pertinenti, che la teoria si ritorce contro i suoi creatori. Ad esempio, la questione della techne; essa avrebbe annullato il divenire storico nella simultaneità. Ma va da sé che intrinsecamente si possa individuare una storia della techne nell’arco del suo sviluppo, tutt’ora in fieri.
      Così, a me sembra che in crisi definitiva sia andata la concezione positivistica della storia lineare (ma questo già dagli inizi del Novecento! E allora, quale sarebbe il terminus ante quem del postmoderno? E poi, si fa sempre l’esempio del “Tramonto dell’Occidente di Spengler: grazie, è stato scritto fra due guerre mondiali, tanto che all’alba della seconda è già pressoché superato. Che temperie culturale vogliamo trarne con quel sostrato sociale e cronologico? Ma vogliamo contestualizzare un poco gli esempi che si adducono?); tuttavia, una concezione circolare, a mio parere, continua a funzionare benissimo.
      Sonia Caporossi

  2. chiarisco un aspetto del mio precedente commento: in filosofia non dobbiamo chiedere quando è nato Parmenide, dobbiamo ascoltare quello che ci dice e, se ci riusciamo, rispondere – Abbiamo problemi teoretici, non storici, non antropologici, non sociologici, non religiosi – Se riteniamo in fondo che i filosofi del ‘900 siano più avanti, perchè sono nati dopo, siamo già fuori del confronto filosofico senza paracadute, siamo schiavi del mito della storia, nelle sue diverse forme – la storia semplicemente è un prodotto simbolico del nostro intelletto, non è una sostanza – non è –
    Sediamoci a chiacchierare con Zenone, se ne siamo in grado – ma è dura – durissima – Pensiamo solo alla elaborazione di Kant, che tirò fuori, dopo dieci anni di riflessione, lo schematismo trascendentale – Ma questa trovata era già distrutta da Parmenide con l’argomento detto poi del terzo uomo – ma Kant non teme Parmenide? dovrebbe –

    massimo pistone

    1. Quanto affermi, Hegel l’aveva ben chiaro. Tutta la filosofia del Novecento lo ha temuto – e odiato in una forma di fobia che ha portato alla negazione- non a caso. Indipendentemente dall’assunzione o meno del suo presunto “storicismo”.

  3. Quanto affermato con forza da gorgialeontino: “….abbiamo problemi teoretici, non storici, non antropologici, non sociologici, non religiosi…” è vero solo se consideriamo il pensiero in modo angolare, ovvero nel modo considerato da Kant mediante lo schematismo trascendentale o da Husserl con l’epochè con cui cercavano di accedere il primo alla ragion pura(non è forse questa teoria, gorgialeontino?), il secondo all’oggettività del fenomeno(fenomenologia o, a mio avviso, ancora problema teorico).
    Pertanto è evidente che in tale discorso manca l’uomo, l’esperienza dell’uomo sia come individuo, nel senso kierkegaardiano, che come soggetto sociale, nel senso marxiano; manca insomma la sua, la nostra storia: insomma, c’è il discorso filosofico manca però la filosofia.
    La quale, per esser tale, deve essere tutt’altro che teoresi o algida informazione di dati o concetti, bensì, per dirla con P. Hadot, essa è esercizio per convertire o formare l’uomo esistenziale.
    Per chiudere, approfitto dell’interessante tema proposto da Sonia, sostenendo la tesi di Nietzsche, ma “questo” è un fatto inconfutabile(passatemi, o siate indulgenti, con la mia palese contraddizione).

  4. Mi complimento per il bell’articolo e per la serietà con cui è affrontato il testo di Ferraris, un libro-manifesto facilmente aggirabile, come di fatto viene aggirato anche dai filosofi che lo considerano, non senza interessi in gioco, una boutade. Quelli che pensano in questo modo, temo, si sbagliano e mancano il segno della questione, che non è nè ontologica nè epistemologica a priori…Conoscendo molto da vicino l’ambiente universitario torinese posso dirvi che la questione è, in primo luogo, un gioco di potere (espressione che, a proposito di stilemi e riferimenti, evoco sia nel senso di Foucault che nel senso del sopra citato Wittgenstein). Osservazione banale, se volete, ma forse va ricordato poiché lo sfondo in cui questo genere di problemi vengono tirati fuori non è neutro: si tratta di sfondare definitivamente il paradigma ermeneutico. Sfondarlo nel senso di un ritrarsi progressivo- questo, credo, sperano i nuovorealisti- sia del nichilismo (a mio modesto avviso, vivo e vegeto nella società ma agonizzante nello spazio della riflessione filosofica, con le solite eccezioni e feticci veterotestamentari) sia dell’ermeneutica in senso stretto.
    E’ un’impresa che non passa soltanto tramite la polemica Vattimo-Ferraris, ben nota e che dura da tanti anni, quanto dall’acquisizione di un tessuto di discorsi più ampio che include anche autori come Foucault, Putnam, Searle, Derrida (decostruzionismo revisionista, com’è stato notato da più parti, ma presente: ovvero, sussiste un certo nichilismo e soltanto di un certo tipo all’interno del paradigma).
    Insomma, qualunque cosa sia il nuovorealismo, boutade o meno, è un sisma necessario, storicamente, direi; e smantellare i precedenti luoghi comuni, come sapete, con qualsiasi mezzo fa parte del jeu. Siamo di fronte a qualcosa di più del “delirio” realista, siamo a un svolta storica. Come spesso accade, le svolte non si notano che a cosa fatte e somigliano terribilemtne a dei ritorni o a dei passi indietro (pensate al passo indietro più famoso, quello di Heidegger lettore dei poeti).

    Un paio di “postille non scientifiche”.
    A proposito di Kant, “il boccoluto di Konisberg” 🙂 Sonia, avrei letto anche pagina 61: qui Kant è rivendicato proprio sul piano etico e rivendicativo, insieme a Marx…Ferraris non ha certo conti in sospeso con Kant, li ha liquidati ampiamente, ma quando gli serve eccolo lì che salta fuori. Ci sarebbe da analizzare, magari, il libro-manifesto proprio in quanto manifesto: come apparato “ideologico”, riga per riga. Impresa stimolante, oltre che faticosa, a cominciare dal famoso “rinnegamento delle virgolette” che sono state e sono ancora per alcuni, come ricorda Rodolphe Gauschè in un suo saggio apparso in L’avvenire della decostruzione (Il Melangolo), l’emblema del decostruzionismo.
    Sul dibattito filosofico mi permetto di rinviare al lavoro svolto dalla redazione di Eterologie, di cui sono curatore (la sezione Postmoderno e new realism):
    http://eterologie.it/?page_id=93
    Quanto al volume sopra citato trovate una recensione qui:
    http://eterologie.it/?page_id=108

    La postilla, lo giuro, non voleva essere pubblicitaria 🙂
    Saluti,
    Alessandro

  5. Premessa: non ho la cultura filosofica di Sonia Caporossi, quindi le mie considerazioni sono molto generali,“pretestuose”, tendenziose.
    Ho il sospetto che si cada nel dualismo semplicemente usando parole come fondamento, ovvero usando categorie filosofiche e ontologiche.
    Il problema è pensare concezioni e metodi usando categorie e concetti contro i quali quelli si sono sviluppati, volendo spiegare concezioni e metodi nuovi con categorie e concetti che però si sottopongono a un’elaborazione. si vuol pensare il nuovo con categorie e concetti precedenti. Si dà conto e ragione del nuovo verificando, mettendo alla prova categorie filosofiche. Ci si rivolge a chi ha una cultura filosofica e con i suo strumenti si vogliono comprendere e affrontare problemi nuovi che si sono sviluppati anche “laicizzandosi” dalla tradizione filosofica. Il rischio è presupporre un’autorità di categorie e concetti estetiche e metafisiche con le quali si pretende di mettere bocca su questioni che operano e si dibattono anche a prescindere dalla filosofia. Il merito è che attraverso la pratica filosofica, riusciamo a stabilire e mantenere un rapporto tra le questioni dibattute in modo più specifico e l’orizzonte più generale della conoscenza, civiltà storia: come potremmo senza la filosofia e la teoria, ricondurre le questioni particolari all’orizzonte più esteso?

    1. Nel dualismo si cade se si concepisce il Grund alla maniera idealistica come trascendente. Ho rimarcato invece che il fondamento estetico è di natura immanente.
      Per quanto riguarda il resto, il problema è proprio che quelle concezioni e metodi “nuovi”, proprio nuovi nuovi non sono, e utilizzare poieticamente una terminologia neologistica adoperando istanze costruttivistiche non genera un nuovo pensiero, ma un nuovo linguaggio (che ho detto poetico, non filosofico) che edulcora e nasconde un pensiero vecchio. C’è poi il percorso opposto, quando a concetti consolidati della storia della filosofia si attribuisce un altro senso che pretenziosamente si dà per nuovo, ingarbugliandone volontariamente l’idioma.
      Questo secondo tipo di linguaggio filosofico non sta a testimoniare “il nuovo”, bensì vuole generarlo di sana pianta, anche laddove non ce ne sarebbe bisogno.
      Diversi filosofi del secondo Novecento, specialmente francesi, hanno utilizzato alla bisogna questo metodo costruttivistico come forma di impostura intellettuale e di plagio dannunziano. Molti critici letterari e teorici della letteratura del secondo Novecento, specialmente francesi, hanno fatto lo stesso con pieno merito di indagine e di risultati. Dov’è la differenza? Nel fatto che la critica della letteratura se lo può permettere per costituzione ontologica ed epistemologica altra rispetto alla filosofia. Deleuze, in un intervista su Millepiani, di fronte all’obiezione che i contenuti dell’opera non mostrassero novità rispetto alla filosofia del passato, rispose senza batter ciglio: “sì, ma noi [io e Guattari] siamo degli stilisti” (Cfr. G. Deleuze, Immanenza: una vita, Mimesis). C’era in atto in lui, e c’è sempre stata, una certa propensione al costruttivismo estremistico generatore di concetti, dietro i quali si nascondeva la poiesis più dell’episteme; come anche dietro al suo riutilizzo dei concetti vecchi, si nascondeva il vecchio più del nuovo. Per inciso, una delle domande seguenti fu: “Millepiani è un libro di filosofia?”. La risposta dell’autore fu unilateralmente affermativa, ma sarebbe stata pacifica se non avesse generato affatto la necessità della domanda.
      Ora: quanto dico ovviamente non significa che non si possa o non si debba utilizzare il vecchio, modificare o creare un linguaggio, generare il nuovo, o leggere e studiare chi lo fa; significa piuttosto che, memori della caverna di Platone, occorre esserne sempre lucidamente consapevoli.
      Quanto al rischio dell’auctoritas aesthetica, non lo si corre di certo, se si pensa che quella pratica filosofica di cui invochi la necessità non è altri che l’estetica stessa, che proprio basandosi su fatti “di conoscenza, civiltà, storia” (ed “arte”) e tramite la sua teoria ermeneutica vuole spiegare il nostro rapporto col mondo. In essa fatti e interpretazioni sono imprescindibilmente legati da un nesso animale insostituibile: quello fra senso, manifestazione storica e significato.
      Ecco perché il linguaggio filosofico deve farsi più diretto.
      Perché se voglio leggere un libro di poiesis argomentativa, io preferisco Cavalcanti. Almeno il suo tomismo aristotelico è dichiarato.
      Sonia Caporossi

  6. Ho letto la polemica, un po’ compressa nei limiti giornalistici, come chi alzi la mano per dire: i tempi stanno cambiando, tornano prepotenti le istanze realistiche, della prassi concreta, come effettivamente constatiamo anche sulla Rete do
    ve le discussioni politiche e morali stanno equiparando le effusioni espressive private, identitarie. Nel suo brillante excursus, Sonia Caporossi fissa le coordinate. Personalmente sono rimasto colpito dalle tensioni psicologiche che sa ricavare dall’atto di conoscenza e ri-conoscenza. Dopo la sbornia dei linguisti, semiologi & Co., è lecito un richiamo all’uso vero, consuetudinario, storico delle nostre forme di comunicazione. Per quanto riguarda il realismo o idealismo, sappiamo che se sbatto contro il muro, il muro c’è, eccome, come il mio “sbattere” la fronte, al di là di ogni interpretazione possibile. Ma la provocazione nicciana funziona sempre. Recentemente rileggevo Gadamer e Weil, i passi dove noi siamo “linguaggio” e al di fuori di questo non saremmo neanche concepibili, io-l’altro-il-nostro-rappo​rto. Il racconto nicciano, come i dialoghi platonici, ci continuano a prendere per i nessi d’amicizia e riflessione che creano, mentre ci interpretano. E guidano a considerare il muro: come tutti insieme lo chiamiamo, sappiamo che c’è e lo insegniamo a chi verrà su questa Terra dopo. Questo è anche “poesia” del muro.

  7. Ciao Sonia, confesso che non ho riletto tutto il tuo articolo. Comunque mi pare che tu rivaluti come orizzonte di risoluzione e impostazione metodica dei problemi filosofici l’ambito del pre-filosofico accordo comunicativo, sempre fungente
    nei mondi della vita e nelle forme della vita nelle stesse pratiche linguistiche e nelle stesse azioni simboliche e non, culturalmente date come fatto storico, e dici tu fatto estetico, se ho capito bene. Ovvero pre-riflessivo. A questo punto il fatto “estetico” così inteso, lo usi con valore censorio o critico (habermas direbbe terapeutico) rispetto quelle che possono essere chiamate le sovrainterpretazioni costruttive del lessico della tribù dei filosofi. Se ho capito bene questo tipo di impostazione non è molto lontana dal filone dell’analisi linguaggio ordinario, da una parte, e dall’altra, anche se non lo ammetti, dall’impostazione di Ferraris in “Estetica razionale”, cioè da quel particolare attraversamento del lato fenomenologico della percezione che va a sfociare nell’ontologia. Se abbiamo infatti una varietà di giochi linguistici pronti a fornirci regole normative locali, non si vede perché non si debba anche avere, dal lato fenomenologico, una varietà di immagini-tracce a darci nozione pre-riflessiva, pre-intellettiva, di un mondo di inemendabili oggetti di fatto. Se la ricostruzione che ho fatto sopra è plausibile, mi pare, che tu però ti debba trovare nello stesso problema in cui si trovano i panlinguisti e i nuovi ontologi. Gli uni devono dare un senso a parole come logica e verità all’interno di una posizione relativista, scettica e pragmatica. E devono lavorarci molto. Gli altri cercano di saltare il problema offrendo una sistematica degli oggetti razionali, a cui però si può sempre rispondere con la domanda kantiana sul diritto che si ha di parlare delle cose, domanda su cui per forza si deve rispondere riflessivamente. Sia gli uni che gli altri ci sono debitori di una fondazione, e se non vi si impegnano possono sempre essere imputati di una forma di pragmatico scetticismo. In sostanza, entrambi denunciano e lamentano i crampi della sovrainterpretazione concettuale, ma al prezzo di interdire la rifessione critica sul presupposto estetico-ontologico. La metto così, dai. Vediamo se ti va di rispondere e correggere le mie estrapolazioni. Ciao.

    1. Rosario, hai colto un punto importante su cui occorre fare molta attenzione.
      Intanto, concorderai sul senso complessivo dell’articolo, ovvero che per superare quei problemi cui fai opportunamente cenno, l’atteggiamento costruttivistico non è opportuno, perché non si dà che come il velo di Maya, detto in soldoni. Però, il dualismo che hai magistralmente delineato tu fra i rischi del panlinguismo e della nuova ontologia (e di cui parlo anch’io come problema concreto, anche se non in questi termini, all’interno dell’articolo) pertiene ad una concezione della storia (e della filosofia) lineare; solo all’interno di una concezione lineare, infatti, l’estetica può essere concepita esclusivamente come pre-filosofia (o pre-riflessione), e pertanto, come qualcosa che ancora consente un gettarsi di qua della percezione, di là della riflessione. Croce si dovette trovare nello stesso identico problema della ricaduta nel dualismo di forma e contenuto, problema spinosissimo (hai letto a proposito la magistrale analisi di Gennaro Sasso?) proprio perché, dopo tanto parlare di circolo, concepì l’estetica come un primum aurorale.
      Il richiamo alla circolarità ermeneutica che faccio all’interno dell’articolo, circolarità in cui vige l’immanenza autorichiamantesi di detto e fatto, dicibile e fattibile, è proprio invece dell’estetica concepita non come un’istanza del pensiero cristallizzata in un punctum al di fuori, bensì come una modalità fondante della logica del senso (o meglio, dei sensi, in ogni senso) che dà luogo ai fatti sociali. Non è l’estetica di Croce, insomma, sebbene la contenga, come contiene del resto il verumfactum e il cogliere di colpo wittgensteiniano, nonché il “ponte fra intelletto e ragione” di kantiana memoria.
      L’estetica si viene insomma secondo me a delineare proprio come la possibilità (anzi di più, come la strettissima ed impellente, oramai, necessità) del ritorno a pensare il fondamento; ma un fondamento inteso come una possibilità di risalire, per dirla con semplicità, non ad un presunto ed univoco senso delle cose, bensì all’imperativo, questo sì etico, che si debba dare un senso via-via come ordinamento dell’esperienza, e quindi come l’istanza estetico – logico – ontologico – pratica (che può essere tutte queste cose insieme perché, appunto, moventesi su un percorso circolare e non lineare) attraverso cui, per dirla con Wittgenstein, ci “raccapezziamo” nel mondo.
      Per questo, quando si dice fondamento, occorre mettersi d’accordo su che cosa si intenda per esso. In un commento poco sopra, ho affermato:
      “Nel dualismo si cade se si concepisce il Grund alla maniera idealistica come trascendente. Ho rimarcato invece che il fondamento estetico è di natura immanente.” E quest’immanenza è sostanziale.
      Sonia Caporossi

  8. Molto interessante: diciamo che la penso grosso modo come te. Il problema, messo in un certo modo, a cui anche tu accenni, è che si dà per scontato (in filosofia! in filosofia!) cosa la verità sia. In questo senso, però, si chiarisce meglio
    perché Nietzsche può usare una frase così forte: non ci sono fatti, solo interpretazioni. Che io condivido in pieno, inserita però in una cosmologia “forte” alla Peirce. Al di là di questo, mi sento di dire: ma siete proprio sicuri che “l’epistemologia” (o la “gnoseologia”) stia da una parte e “l’ontologia” dall’altra? Ed esistono davvero queste cose? Visto che parliamo della realtà del mondo (che nessuno nega, questo è il punto), dobbiamo innanzitutto essere franchi sull’incanto dei nostri strumenti, delle parole della tradizione filosofica (già, che cosa è uno strumento? dove comincia lo strumento? gli animali hanno uno strumento? non è forse la condizione, lo strumento, per l’apparire di ciò per cui lo strumento esiste – il bastone per colpire l’animale totemico non è la condizione perché quell’animale-dio appaia, dia forma alla comunità che si ri-conosce e inauguri la veglia dell’autocoscienza, sicché senza quello strumento non ci sarebbe neanche la domanda sullo strumento, non ci saremmo neanche noi? – per questo lo dobbiamo sapere, cari amici). Allora: gnoseologia, ontologia. Innanzitutto, cosa sono? Discorsi. L’uno è discorso sul discorso, l’altro è discorso su ciò che sta fuori dal discorso (ma che, anche, ambiguamente lo comprende; dove starebbe il discorso, se non in tutto ciò che c’è? se dico che c’è il mondo (m) più il discorso che lo dice (d), sto dicendo in realtà questo: m + d = M (tutto quello che c’è). Il problema è che tutto quello che c’è non apparirebbe se non lo dicessi… sicché il discorso sta ambiguamente al margine, come direbbe Wittgenstein, è un limite (non un confine). Ecco, il discorso che ho appena fatto è gnoseologico o ontologico? Un premio a chi può deciderlo. Poi c’è da dire che questi discorsi sono discorsi logici (in senso ampio), non mitici. Vengono dal mito, ma sono anche la prescrizione della dea parmenidea di guardare il significato per giudicare (Ur-teil, de-cidere il mondo, INTERPRETARLO, abitarlo e per questo deformarlo). Entrambi domandano sul principio, come un po’ tutti i nostri discorsi. Ma, come insegna Hegel magistralmente all’inizio della Scienza della logica una volta per tutte e per tutti (anche per gli amici neorealisti e postmodernisti, che lo sappiano o meno), domandare del principio significa domandare allo stesso tempo e non ingenuamente di ciò di cui si domanda e di chi domanda, in quella particolare configurazione che chiude la storia che con Parmenide si era inaugurata, e la chiude così come si era inaugurata, con l’uguaglianza tra pensiero ed esser; tuttavia una uguaglianza arricchita dalla veglia del logos, arricchita dal lavoro della mediazione. Dire questo non significa essere hegeliani, ma significa porsi la domanda non più schiavi della retorica dello stupore. Significa porre al centro la prassi che produce il significato – il sigificato del mondo. E che dice: che ci sia il mondo, questo è assoluto; che cosa esso sia, questo è relativo (senza la potenza del negativo del pensiero – della visione della morte che esibisce il primo strumento inanimato, il cadavere, e con esso la magia della parola, nella quale la presenza si assenta e l’assenza si presenta -, la sostanza rimarrebbe nel suo immoto circolo, senza alcuna determinazione).

    1. Paolo, il tuo è un commento che mi permette di assentire in più punti. Quando parlo di circolarità ermeneutica, ho sempre in mente l’annoso problema hegeliano del cominciamento. Ed è vero che esiste una circolarità immota, ma è di natura trascendente. La circolarità ermeneutica, per fortuna, non è né l’una né l’altra. Così come non è neanche la circolarità viziosa dibattuta da Hegel e che tu adombri qui: “non è forse la condizione, lo strumento, per l’apparire di ciò per cui lo strumento esiste?”.
      Ho in mente Hegel anche nella possibilità che il circolo vizioso si muti in virtuoso. E per fortuna.
      Non è un caso, come ho detto altrove, che Hegel sia stato il filosofo più vituperato nel Novecento, sia da quello costruttivista, che da quello realista. Osare infatti prenderne tutto il buono poteva offrire la possibilità di risolvere molto prima alcune cose, indipendentemente dall’idealismo, dallo storicismo e dall’ottocentismo di cui è pregno. Ma anche solo tentare di risolvere le cose, con la scusa che non c’è risoluzione definitiva alle cose (siamo d’accordo, lo sarebbe anche Hegel) e quindi neanche si deve tentare (non siamo d’accordo), è precisamente ciò che non si è avuto l’intenzione di fare nel Novecento pseudonietzschano, apocalittico e nichilista, questo secolo filosoficamente infame no, infamante sì, che non ha capito Nietzsche, figuriamoci Hegel.
      Sonia Caporossi

      1. Già. Ecco, secondo me c’è una via per sposare “l’ermeneutica” (parola che non mi piace tanto), diciamo meglio, la questione dell’intepretazione, con Hegel. L’insuperabilità della mediazione, come titolo indicativo, si può trovare in Peirce
        nella forma del suo specialissimo pensiero semiotico. Ecco, Peirce è un filosofo che ho scoperto tardi. La difficoltà con lui è che non c’è un’opera vera e propria. Ma, se si comincia a leggere, si rimane strabiliati dalla cosmologia e dalla metafisica che la sua semiotica, con il suo circolo, mette in scena. Da questo punto di vista egli può essere considerato il filosofo più rivoluzionario, anche se poco conosciuto, del ‘900. Credo che, attraverso Peirce, la questione del fatto e dell’interpretazione venga dissolta (come accade in filosofia: non si risolvono i problemi, si dissolvono le questioni) in una nuova considerazione senz’altro realista, dove il reale è la totalità in cammino, essa sola assoluta. Per ritornare ad Hegel: che cosa è più vicino ad una considerazione “ermeneutica” consapevole e non superficiale (perché ce ne sono molte di interpretazioni deboliste inessenziali), se non il sillogismo disgiuntivo? Qui non c’è nulla di soggettivo (in senso volgare; in senso hegeliano sì, eccome) o di immaginario; c’è una metafisica, ben salda e stabile, che dice: il mondo è l’accadere del mondo nelle sue figure, delle “interpretazioni”, se vi piace, delle “pieghe di mondo”, come preferisco io. La totalità non è altro che questo accadere in figura, e il venire meno della figura, dove il centro è in ogni dove, così come la circonferenza, brunianamente. Ogni figura è determinata dalle altre e le altre da lei. Ma dove è la totalità qui, se non al margine, al limite, infinito di ogni figura, in una esplosione che è l’assoluto? Non so se riesco a spiegarmi, ma, vista da questo punto di vista, la questione della opposizione fatti-interpretazioni non regge più. Non ha proprio più senso pensare un “fatto” come distaccato dalla infinità di tutte le incarnazioni del mondo (le piege di mondo, le interpretazioni del mondo) che lo determinano in ciò che esso è, proprio lui, non altro, perfettamente reale, ma anche perfettamente relativo a tutto il resto.

  9. In verità bisognerebbe dire, con Nietzsche, non che non esistono fatti, ma che non esistono fatti ETERNI e che ogni stato di cose è transitorio. Ogni fatto è il fatto che è perché è divenuto tale ed è anche sempre in procinto di divenir altro. Allo stesso modo, bisognerebbe dire non che non si dà alcuna verità, ma che non si dà alcuna verità UNIVERSALE. La verità è una posizione dell’intelletto rispetto a un determinato stato di cose. Ma l’intelletto stesso è frutto di divenire. L’intelletto è cioè implicato nel movimento stesso (divenire) di ciò rispetto a cui, prendendo posizione (prospettiva), vorrebbe essere la verità (universale). Questa verità è quindi, in realtà, essa stessa transitoria e, in più, non si può certo dire che sia “a tutti comune”, perché l’umanità non evolve in un sol blocco e lo spazio separa in modo radicale gli esiti dell’evoluzione umana facendone dei differenti. Per tanto, sintetizzare tutta la questione nella formula “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni” (quand’anche o quantunque la si ritrovi nello stesso Nietzsche), è corretto solo se si fa attenzione a ciò che si dice. Credo che Nietzsche volesse “semplicemente” sostenere che ogni irrigidimento astrattivo operato per mezzo dell’intelletto (che si crede universale e separato, cioè esterno e non coinvolto nel divenire e quindi immutabile e a tutti comune) è destinato a infrangersi contra una smentita. Posta la questione in questi termini, dire che l’affermazione “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni” è a sua volta un’“interpretazione” significa proprio questo: che le posizioni intellettualistiche e astrattive (a cui Nietzsche oppone il “filosofare storico”), essendo illusoriamente sottratte al movimento storico, sono sempre e costantemente falsificate e trasformate in pregiudizi. In altre parole, la frase “non vi sono fatti, ma solo interpretazioni” può essere compresa solo se posta in stretta correlazione al presupposto fondamentale secondo cui l’essere non è quell’immutabile in sé, eternamente identico a se stesso, interamente disvelato per l’eternità ad opera di un’intelligenza perfetta. Per Nietzsche (come già per Hegel) l’essere è essenzialmente temporale, inoltre la sua prospettiva è radicalmente atea (non c’è un intelligenza perfetta che riveli questo supposto stato di cose originario). Se si accetta la prospettiva per cui Essere = Divenire, allora i fatti non possono che essere transitori e la verità prospettica, cioè qualcosa che ha solo una validità locale e che, allo stesso titolo dei fatti, non può in alcun modo mantenersi.

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