di LENI REMEDIOS
Un vero solitario?
Eppure il solitario di Providence non era un solitario avulso dalla contemporaneità che viveva e, se si legge fra le righe, alcune delle sue storie in particolare non appaiono affatto come delle mere fughe dal reale. Certo vi sono già le centinaia di lettere, indirizzate a vari amici e letterati dell’epoca (non era poi così solitario come sembrava) in cui illustra ampiamente le proprie posizioni socio-politiche, ma non mi interessa citare qui le sue dissertazioni su Marx, Engels e l’impatto delle loro idee sulla societá.
Vorrei invece, da ultimo, analizzare due storie fra loro molto simili: L’orrore di Dunwich ed Il caso di Charles Dexter Ward. In entrambi i casi i protagonisti sono degli emarginati sociali, degli outcast, dei reietti. Nel primo caso Wilbur è un bambino dai connotati strani che cresce fisicamente ad una velocità spaventosa (a dieci anni sembra un giovane adulto), il cui nonno lo istruisce nella lettura e studio di misteriosi manoscritti, studio seguito da esperimenti che i due eseguono soprattutto nel fienile attiguo alla fattoria in cui abitano.
Nel secondo caso uno psichiatra illustra nascita ed evoluzione della follia di un suo paziente, Charles Dexter Ward il quale, ad un certo punto, segue le orme di un antenato vissuto centocinquant’anni prima, Joseph Curwen, i cui atti stregoneschi agitarono non poco la comunità dell’epoca. Curwen usava compiere esperimenti agghiaccianti di risuscitazione dei morti, nella fattoria che aveva affittato appositamente fuori città (perché l’orrore non si compie in casa propria).
In entrambi i racconti la comunità locale si accorge delle stranezze di questi soggetti, in qualche modo individua e riconosce il disturbante, ma non ne parla, o meglio: gli abitanti di Dunwich e di Providence si limitano a sussurrare, senza dare effettivo rilievo ai propri dubbi. Eppure vi è un crescendo di tensione e di dubbio, corroborato da strani ed inquietanti avvenimenti. Ma è come se ogni volta si volesse chiudere gli occhi, per amor del quieto vivere. L’orrore è sotto gli occhi di tutti. L’orrore è coperto dal silenzio di tutti.
Finché si arriva ad un tale livello di saturazione in cui esso non è più sostenibile, e le coscienze sentono pressante il dovere morale di passare all’azione. Ciò succede quando ormai il bubbone è in qualche modo già esploso e la situazione è talmente ingestibile da dover ricorrere ad un agente esterno (uno specialista, che sia medico o archeologo, etc) oppure all’unione delle forze, con spedizioni di massa dei compaesani volte non solo all’eliminazione fisica del bubbone malefico, ma anche alla sua nullificazione ontologica, all’eliminazione del suo senso, obbligando a far finta che un’aberrazione siffatta non fosse mai esistita, tale e tanto vasta è la sua indicibilità. Geniale è il breve passaggio in cui, dopo il raid alla fattoria di Curwen, nel quale non viene in realtà mai veramente descritto l’evento della sua eliminazione se non in epifenomeni laterali, “due messaggeri spaventati” arrivano alla fattoria di una famiglia vicina chiedendo del rum. “Uno di essi disse alla famiglia che l’affare Joseph Curwen era concluso e che gli eventi di quella notte non erano più da menzionare”[1].
Il meccanismo di rimozione dell’agente malefico e oscuro continua anche dopo che è stato eliminato, tramite un’indifferenza che si traduce, materialmente, in un abbandono dei luoghi in cui l’orrore si è svolto: la fattoria di Curwen giace lì intoccata dopo il “raid”, e torna a rianimarsi solo dopo centocinquant’anni, quando l’erede Charles rievoca le gesta dell’avo. Un po’ la stessa cosa succede alla casa della vecchia strega Keziah, in Sogni nella casa stregata, la quale, dopo la tragica conclusione della vicenda che vede la morte del protagonista, viene completamente abbandonata, avvolta in una volontà tenace di oblio, finché il tempo e le intemperie la fanno inesorabilmente crollare portando ad emersione orribili testimonianze legate a pratiche di magia nera.
Ma ne Il caso di Charles Dexter Ward, scritto tra l’altro due anni prima de L’orrore di Dunwich, vi è un elemento ulteriore, che fa del romanzo un esemplare veramente interessante e direi unico nel panorama Lovecraftiano: c’è un legame in più che lega indissolubilmente il personaggio raccappricciante di Joseph Curwen alla comunità che lo indica indignata, ed è quello del denaro.
Curwen gestisce un gigantesco business di importazione e di esportazione di materie prime, necessario per sostenere i costi dei suoi esperimenti, tramite navi che arrivano e partono continuamente dal porto dietro sua commissione. Tutte le attività commerciali del paese dipendono quindi da lui. Inoltre il furbo Curwen usa prestare ai propri dipendenti piccole somme di denaro, sotto la tacita minaccia di coprire col silenzio qualsiasi loro dubbio sui suoi movimenti alla fattoria. Si presta addirittura a ciclici gesti di beneficenza verso importanti istituzioni locali (scuole, biblioteche, etc) inducendo la comunità, sempre più diffidente, a mettere a tacere la propria coscienza dubbiosa e a vederlo unicamente sotto la veste di notabile e benefattore della società. Riesce persino a sposare una giovane donna del posto, in un grottesco matrimonio combinato la cui cerimonia vede la presenza di tutti i notabili della città.
Quanti e quali orrori riesce a tollerare la societá nella propria pancia pur di assicurare la sopravvivenza delle proprie sovrastrutture? Questo sembra voler dire Lovecraft. Si odono urla strazianti, decine di marinai spariscono, i cani abbaiano agitati. Numerosi sono gli indizi e lampante è la verità per chi vuole vedere. Ma si vuole procedere, si preferisce chiudere gli occhi, perchè riconoscere la verità vorrebbe dire la disgregazione di quella società (dell’Io?) di cui tutti facciam parte.
L’orrore non appartiene solo allo strano e torbido Joseph Curwen o al suo discendente Charles Ward, ipostatizzazioni di un’ombra proiettata al di fuori di noi stessi: è un orrore che coinvolge tutti, in cui tutti, dietro la facciata di disgusto, sono in qualche modo complici silenziosi. Non serve tornare indietro (per noi) di circa sessant’anni, alla inusuale polvere che, dalle ciminiere, si posava ogni dove nei paraggi di Auschwitz o Birkenau, turbando abitanti giá perplessi dall’andirivieni di sospettosi treni. Anche la contemporaneità è piena di orrori, basti pensare alle multinazionali del farmaco – per rimanere in un esempio più vicino alla narrazione – che in laboratori situati alle periferie del mondo occidentalizzato (Sudamerica, Messico, etc), esattamente come Joseph Curwen nella sua fattoria fuori città, operano le peggiori atrocità, fino al punto di sacrificare vite umane, o di mutilare, torturare specie animali in nome della ricerca scientifica[2]. Tuttavia, se si fa eccezione di pochi sparuti individui o gruppi che ne denunciano l’esistenza, il grosso della società umana è disposta ad incorporare in sé tali elementi, come parti irrinunciabili di un indistinto progresso.
In conclusione mi sento di concordare con Joshi nel dire che la fortuna di Lovecraft, rispetto ad altri scrittori definiti “pulp” dell’epoca, risieda nel fatto che egli era un intellettuale, un intellettuale dall’ “immaginazione bizzarra e tremendamente potente. E’ questo che inizialmente affascina i lettori nei loro anni adolescenziali (ma anche non adolescenziali, nda). Solo successivamente alcuni lettori riescono a percepire la sostanza intellettuale dietro la forza immaginativa delle opere di Lovecraft”[3]. I suoi scritti si prestano, come del resto succede spesso in menti geniali, a un doppio livello di lettura, dove l’enorme potere evocativo, quello che rapisce istantaneamente la nostra parte più emotiva, attinge la propria linfa da un vastissimo serbatoio simbolico e culturale.
Degna chiosa di questo articolo, una citazione da uno dei maestri del dubbio, Carl Gustav Jung, il cui Liber Novus (o Libro Rosso) è stato pubblicato solo recentissimamente, dopo la reticenza dell’autore stesso e degli eredi, per via del contenuto potenzialmente destabilizzante per un’umanità non ancora pronta a verità del genere o addirittura, come egli stesso scrisse, esso può apparire una follia ad un osservatore superficiale. Proprio come il fantasioso Necronomicon, vien da dire ironicamente… La citazione, presa dalla sua biografia, ben rimarca il background nichilista dello scrittore di Providence e individua il (non) senso della sua fuga immaginativa: uno sfondo fantastico che pur, paradossalmente, costituiva il suo orizzonte di senso, il suo proprio cosmo in cui situarsi: “Il bisogno di affermazioni mitiche è soddisfatto quando ci costruiamo una visione del mondo che spieghi adeguatamente il significato dell’uomo nel cosmo, una visione che scaturisca dalla nostra interezza psichica (…). La mancanza di significato impedisce la pienezza della vita, ed è pertanto equivalente alla malattia. Il significato rende molte cose sopportabili, forse tutto”[4].
(Seconda parte: https://criticaimpura.wordpress.com/2012/04/22/lorrore-fenomenologico-di-h-p-lovecraft-il-sogno-e-il-nichilismo-il-fascinans-e-il-tremendum-seconda-parte/ )
[FINE]
[1] H.P. Lovecraft, Il caso di Charles Dexter Ward, 1927 (traduzione mia).
[2] Nel gennaio di quest’anno il quotidiano argentino La Nacion riporta la notizia della condanna della multinazionale inglese Glaxo SmithKline e di due suoi medici (si badi però: pur trattandosi di pluriomicidio la condanna consiste in una mega multa, non nella reclusione), colpevoli della morte di quattordici neonati argentini (ma non si sanno gli esiti degli altri laboratori in Panama e in Colombia) in seguito ad esperimenti farmaceutici. Gli esperimenti erano volti a testare un nuovo vaccino contro la polmonite acquisita e l’otite acuta. La realtà fa impallidire i più inquietanti racconti di Lovecraft.
Si veda http://www.lanacion.com.ar/1437654-un-laboratorio-fue-multado-por-ensayos-irregulares-con-ninos
oppure http://blog.ilmanifesto.it/antiviolenza/tag/glaxosmithkline/
[3] Interview to T.S. Joshi, op.cit.
[4] A. Jaffè (a cura di), Sogni, ricordi, riflessioni di C.G. Jung, (1961-62) , Rizzoli, Milano, 1978, p. 399.
Tutto l’articolo è bellissimo, in ogni sua parte.
Era ora che Lovecraft venisse considerato.
Grazie!
Leo e Marco
Grazie Leo e Marco, davvero lieta che l’articolo sia stato apprezzato!
Vorrei pero’ precisare, che Lovecraft e’ in realta’ ora molto considerato: purtroppo il suo genio, come spesso capita, venne capito solo molto tardi, mentre era in vita non godette di molta considerazione.
In rete si trovano molti saggi e articoli su di lui, nonche’ siti interi dedicati alle sue opere…ovviamente non tutti di qualita’ eccelsa, ma le sue storie continuano comunque a parlare, a suscitare emozioni, ad evocare suggestioni ancestrali…
Una curiosita’ e’ il fatto che il nostro autore goda di molta popolarita’ soprattutto fra i metallari…
Ciao!
Io e il mio amico intendevamo dire l’altro giorno che era ora che Lovecraft venisse considerato con un articolo saggistico di ottima fattura e non solo come autore “di genere”, laddove i generi letterari come l’horror o il thriller eccetera vengono sempre ritenuti di serie B.
Anche il metal, del resto, a livello musicale viene spesso vituperato…
Grazie 🙂
Marco
Ma sai, pare che anche lo stesso Stephen King soffra di questo “problemino”: l’essere inquadrato come scrittore horror, che molti – soprattutto molta critica letteraria – non considerano alla stressa stregua di quel che chiamano “letteratura alta”. Per fortuna c’e’ sempre qualche “illuminato” sufficientemente intelligente e privo di pregiudizi per capire che non e’ cosi.
Infatti, nello stesso saggio filosofico di Harman che mi ha ispirato quest’articolo, viene citato un critico letterario, Harold Bloom, il quale paragona l’effetto suscitato dalla letteratura fantastica all’emozione sucitata dalla lettura del “Paradiso Perduto” di John Milton. E scusate se e’ poco!
D’accordissimo sul metal.
Ciao!
Leni
Difatti lo stesso King, negli ultimi dieci anni, si è provato ad allontanare dal genere che lo consacrò, con risultati a mio parere molto modesti.
I primi romanzi, invece, proprio nel loro essere schiettamente e spudoratamente “di genere”, costituiscono dei piccoli gioielli di narrativa di consumo! Lessi una sua intervista nel quale raccontava di aver preso la decisione, agli inizi di carriera, di essere uno scrittore horror, calandosene poco di esser tacciato di “letteratura bassa” dalla critica.
Voleva essere il Mc Donald dell’orrore, e in romanzi come “Carrie”, “It, “Shining”, etc. credo ci sia riuscito meravigliosamente!
La riuscita di quei romanzi, a mio avviso, sta proprio nell’amore che portano al genere, ai suoi codici, alle sue regole stereotipate e nobilitate negli anni da grandissimi autori.
Ma riguardo a Lovecraft, non è neanche il caso di considerarlo autore di genere… o meglio, il genere se l’è inventato lui! Quello che è l’horror oggi (e al quale fanno riferimento King e gli altri) è gran parte opera sua. Ne ha sconvolto la forma, i contenuti, la natura stessa.
E’ stato un genio intuitivo e illuminato! Certe sue suggestioni coincidono spaventosamente con alcune ricerche archeologiche modernissime.