
di JACOPO BONATO
(con una foto di ANDREA SILVA)
E cosa sarebbe poi questa stupida canzoncina: “un buon non compleanno”? Un compleanno all’anno non è abbastanza? Evidentemente no: nel paese delle meraviglie è poco. É un vuoto. Allora esageriamo! Festeggiamo tutti i restanti giorni dell’anno! Perché è meglio festeggiare sempre, piuttosto che una sola volta! Non ho parole. Qui le assurdità si rincorrono a piè sospinti. Il “non compleanno”: cioè una finzione e negazione di compleanno. Un vuoto che si accalca nella mia vita e che me la vuole portare via. No, no, no: così non va, proprio non va! Sono nata in un giorno preciso e festeggerò la mia nascita soltanto quel giorno. Quei due farabutti mi vogliono tentare ancora. Vogliono la festa ad ogni costo, una festa che è però già falsa per principio. Ed infatti per me non c’è niente, come non c’è nulla da festeggiare. Guardo soltanto un banchetto cui non posso partecipare. Forse vogliono soltanto “farmi la festa”. Non riesco infatti a dimenticare di essere stata invitata, dopo tanto titubare, per un solo motivo: perché ho mostrato di apprezzare la loro stupida canzoncina! E ovviamente perché è anche il mio di non compleanno! Il peggiore invito che mi sia mai capitato… La verità, per quanto amara, è che io, come chiunque altro, può lontanamente pensare di potersi sedere al banchetto delle meraviglie, o delle miserie sarebbe meglio dire, soltanto se fa il gentile ed il carino. Soltanto se ride, applaude e tiene banco. Soltanto se adula i commensali. Soltanto se si inchina e mostra la sua deferenza. Qui si siedono soltanto i lacchè. Eccola l’amara verità. Ma nemmeno, a ben guardare. Semmai fanno finta di sedersi. Perché tanto di posto qui non ce n’è neppure per loro.
Non c’è più posto, perché, seguendo la metafora, nel non compleanno si festeggia la non nascita. Si festeggia il vuoto, il non essere. E lo si festeggia per il desiderio assurdo di estendere le feste ed i bagordi a tutti i giorni dell’anno. Le parole di Alice sono già sufficientemente chiare a riguardo. Come si è già notato, il tempo, tutto il tempo, è riempito nel divertimento, cioè nella distrazione. Forse perché ognuno di noi cerca il divertimento, la gioia, la festa, la distrazione, il disimpegno e seguendo la sua stessa natura vorrebbe che l’intera sua vita fosse dedita al solo divertimento. Un simile pensiero nasconde però qualche problema. Una vita dedita al puro divertimento non produce nulla. Consuma e basta quello che c’è. Forse concretamente qualcuno dotato di ingenti ricchezze potrebbe pure permettersi una vita del genere. Ma certamente, una società odierna, nella più estesa delle ipotesi l’intera razza umana, non può basarsi su tali premesse: se non producesse alcunché, consumando invece tutto ciò che trova a portata di mano, costruirebbe necessariamente le basi della sua stessa estinzione. Il divertimento ad ogni costo che contraddistingue lo stile di vita esclusivamente goliardico e che affolla le vite e le menti di molti uomini e donne porta di conseguenza alla irresponsabilità ed alla cattiva gestione del tempo e delle ricchezze, che come un boomerang ritornerà indietro togliendo posti e creando vuoti.
Ma qui si vuole avanzare una prospettiva ulteriore. Chi è stato già escluso e svuotato, chi è senza posto, può permettersi di “perdere tempo” e dedicare la sua vita al solo divertimento. Quanti giovani italiani ed italiane, senza lavoro e posto, possono infatti permettersi serate in discoteca, cene al ristorante, aperitivi infiniti, anni di studio/vacanza in città universitarie? Molti. Sono tanti e forse troppi i dottori e gli studenti. Campano sulle spalle delle loro famiglie. Consumano anch’essi. Banchettano di riflesso divorando ciò che non è nemmeno loro e non deriva dalle loro fatiche. Forse vogliono soltanto distrarsi, per dimenticare la difficile situazione in cui giacciono. Forse vogliono scappare per non vedere l’indigenza che li circonda. Così, pure essi si illudono. Chiudono gli occhi. Immaginano e sognano un luogo che non c’è. Cadono cioè nel sogno del paese delle meraviglie. E alla fine la rendono reale. Il paese delle meraviglie è proprio quel paese fatto di baretti, eventi, aperitivini, concerti, seratine, compagnie di amici e amiche dedite all’inconsapevolezza ed all’irresponsabilità. Ma di tutto questo cosa rimarrà?
Qui si nota qualcosa di più profondo e problematico. Il sistema del divertimento a tutti i costi, che sembra tanto in voga nella bella penisola italiana, sembra esistere per un solo scopo: creare il sogno ad occhi aperti che è il paese delle meraviglie. Certo, nella sua essenza simpatetica produce gioia e divertimento, ma che si dimostrano infine soltanto effimere. Eppure, dall’altro lato, esso segrega l’essere umano dedito alla sola gioia folle e mondana in un mondo delle meraviglie inconsistente e contraddittorio. Lo rende incapace di comprendere le reali dinamiche in atto e di interagire con esse. Le depotenzia e scoraggia, fino a farlo diventare un “buon cittadino”.
Come esempio impietoso si dirà che chi spende tutta la sua vita prima in un ufficio a sbrigare carte, poi al bar gozzovigliando con amici ed amiche, infine la sera con la famiglia davanti alla televisione, non è in grado di interagire con il sistema più ampio che fornisce tutto ciò, come non è in grado di comprendere i motivi per i quali esiste il sistema più ampio nel quale egli stesso è immerso. Non è in grado di comprendere la condizione in cui si trova. Semplicemente il “povero ed onesto” cittadino la subisce e si dimostra impotente di fronte ad essa. Ad ogni modo, anche se il sistema del divertimento non fosse stato creato intenzionalmente, dato che qui non si crede a complotti che nascondono le verità alla gente, concretamente si sostiene che la sua funzione sia questa. Concretamente si dirà che nei fatti esso distrae e che di conseguenza crei impotenti e passivi esclusi che non potranno mai toccare il banchetto delle meraviglie.
Come nel caso di Alice, l’unico posto che rimane per gli esclusi è quello di spettatori del macabro banchetto. Oppure di pagliacci, buffoni e tirapiedi del caso. Così alcuni riescono a trovare un qualche misero posticino. Ma il prezzo che devono pagare è l’adulazione ed il servilismo. Il prezzo che devono pagare è il loro stesso svuotamento. L’annichilimento della loro unicità e personalità. Annichilamento che trova la sua massa espressione nella boria smaniosa del potere e del pieno imperante di non avere antagonisti e rivali, ma di creare soltanto perfetti cloni innocui, eppure efficienti. Nella smania del pieno di distrarsi, di cercare il divertimento e di sfruttare tutto e tutti, consumando a piacimento. I servi avranno le briciole, o forse nemmeno quelle. Avranno gli scarti. Vivranno dell’elemosina “gentilmente” concessa da ricchi baroni intrallazzatori e nepotisti, che divorano tutto. Come il ricco Epulone gettava le briciole a Lazzaro, meno caritatevole dei cani che gli leccavano le ferite.
Stufa di essere presa in giro e di non ricevere nulla, Alice se ne va infuriata dal terribile banchetto che non dà posto e che divora tutto. Il paese delle meraviglie nasconde dei lati oscuri che Alice non avrebbe mai pensato, troppo presa dalla magnificenza del suo sogno. Troppe cose assurde avvengono qui. Così, mentre passeggia tra boschetti e strade sterrate in cerca della via per tornare a casa, Alice sente un strano ronfo provenire da lontano. Circospetta si avvicina in punta di piedi alla fonte del curioso brontolio, fino ad intravedere dietro un piccolo cespuglio di rovi, disteso per terra, il Re Rosso addormentato ed intento a russare sonoramente. “Cosa starà sognando?” pensa Alice. “Potrebbe sognare tutto questo in effetti. Potrebbe sognare l’intero mondo delle meraviglie. Non mi sembra quindi il caso di svegliarlo. Meglio lasciarlo dormire e sognare ancora, altrimenti il paese delle meraviglie sparirà! C’è qualcosa di strano però. Questo dovrebbe essere il mio sogno, non quello del Re. È il mio paese delle meraviglie: il paese in cui io stessa desidero vivere. Cosa è successo allora? Chi è che sogna? Sono io o è il Re? E come ha fatto il Re ad entrare nel mio sogno e a prendere il sopravvento? È forse egli stesso che ha costruito il sogno per me? Per imprigionarmi dentro? Per illudermi? Per farmi divertire? Per cosa? Non so più che pensare ora e tutto è così oscuro e confuso.”
Il mondo delle meraviglie è un sogno. Il mondo in cui tutto sembra perfetto, dove si è già arrivati prima ancora di partire. Dove si può avere tutto, anche le cose più fantastiche. Il paese dei balocchi di Collodi, dove tutto è divertimento, dove l’istruzione è stata abolita ed il destino dei suoi sciocchi abitanti ragazzini è di diventare asini e di affondare appesantiti da massi sul fondo del mare. Il paese della cuccagna, mito medievale dell’abbondanza fittizia, inventato di fronte alla triste realtà della povertà, della miseria, della fame. Il paese di Bengodi di Boccaccio, fatto di montagne di parmigiano e delizie di tutti i tipi [1]. Il sogno di una pienezza già fatta e consegnata. Il sogno della sicurezza, del sentirsi apposto, in pace, arrivati, finiti. Il sogno della vita facile, piena di svago e divertimento. Il sogno di un vuoto. Il paese delle meraviglie assomiglia molto all’Italia odierna: il paese in cui tutto sembra meraviglioso, ricco, fantastico, ma che in realtà è soltanto un incubo. Per molti infatti non c’è posto e tutte le meraviglie si dimostrano perciò vacue ed inesistenti. Pieno e vuoto ancora che si corrispondono. La pienezza della meraviglia, assieme al vuoto, all’oscurità dell’incubo.
Il paese della meraviglie è però il sogno che sogna il Re rosso. Non è nemmeno il sogno di Alice. È un’illusione messa in atto da qualcun altro. Da un Re nello specifico, cioè da una fonte di potere ed autorità. È un sogno imposto quindi: l’abito imperante che rende l’Italia ciò che è. Il sogno di una meraviglia illusoria, che nasconda un incubo terribile. Il paese delle meraviglie è allora il sogno di altri, sogno che tende a creare i suoi esclusi e così a bruciarli, ad annientarli, a svuotarli. È allora precisamente nella dinamica vuoto/pieno che si gioca ogni fattore politico ed ogni fonte di potere o autorità. Il potere può comunicarsi infatti non solo attraverso le dinamiche antagoniste, ma ancor più fornendo e fomentando sogni, illusioni, abiti che soggioghino i sudditi di quello stesso potere. Il potere così affascina. Abbacina. Persuade. Il potere crea quell’allucinazione che è la meraviglia che annebbia la vista ed il pensiero, di fronte alla reale situazione, che distrae e rende impotenti e servizievoli. Il potere così si mantiene inalterato ed intoccato. E trova nella persuasione la sua vera fonte di autorità. Crea così le sue vittime ed i suoi vincitori. I suoi esclusi ed i suoi arrivati. I suoi sommersi e salvati. Il suo vuoto e pieno.
Il paese delle meraviglie è quindi un sogno ad occhi aperti messo in atto da qualcun altro. Da chi per la precisione? Non solo dal Re che oggi russa e sogna. Da un cattivissimo di turno: il novello capro espiatorio sul quale far ricadere tutte le colpe. Ogni sogno è caratterizzato da un lungo tragitto e da una difficile gestazione. Il paese delle meraviglie è il sogno che è stato tramandato da padre in figlio. Quante volte molti di noi si sono sentiti dire che è necessario studiare, crescere, andare all’università, essere i migliori, per poter così trovare un ottimo posto di lavoro, un’ottima professione: chi avvocato, chi medico, chi insegnante? E per poter poi costruire una famiglia ed avere tanti bei figli, una casa, una bella macchina, una bella moglie? Cos’altro sperare di meglio infatti?
Ecco il sogno della vita ordinaria, ma in fondo perfetta ed in sé autoconclusa. Ecco l’ideale tutto paterno sotto l’egida del quale siamo stati svezzati, ovvero che un figlio è da considerarsi realizzato se e solo se sarà in grado di arrivare laddove i propri genitori non sono riusciti. Così i nostri genitori, che vissero la guerra, la fame, la povertà, la rinascita e la voglia di ricostruire, forse scaricarono su di noi le loro aspirazioni e le loro frustrazioni. Molti di loro furono costretti ad abbandonare gli studi, per trovarsi un lavoro, campare e costruire famiglia. Non poterono iscriversi all’università e proseguire per la “somma” carriera accademica. Ed anche in questo caso scaricarono forse su di noi le aspirazioni e frustrazione. Eppure, anche i nostri genitori devono avere ereditato i sogni e le aspirazioni dai loro genitori (i nostri nonni quindi) e così via nel corso del tempo e della storia.
Figli e genitori vivono oggi nello stesso sogno: il sogno che è stato trasmesso di generazione in generazione, il sogno del pieno, della ricchezza, dello stare bene, dell’essere apposto e di essersi così realizzati una volta per tutte. E questo sogno è l’abito che oggi tutti noi abbiamo acquisito per trasmissione, che abbiamo impiantato con forza nelle nostre teste e tramite il quale vediamo e viviamo tutta la nostra vita e realtà. Al fondo di tante dinamiche ritorte è possibile intravedere quindi un meccanismo di emulazione, nonché di clonazione, poiché sono gli stessi sogni e pensieri, le stesse idee, aspirazioni ed intenzioni che si ripetono uguali, diventando delle abitudini, cioè dei modi consolidati di pensare, interpretare ed agire. Al fondo vi è quella che più precisamente si può chiamare ripetizione e trasmissione di abiti (culturali).
Ma nessuna delle parti in causa, figli, genitori, nonni o bisnonni che siano, hanno fatto i conti con ciò che oggi invece si mostra con grande evidenza: che non c’è posto. Che tutte le possibilità che allora c’erano, nel tempo si sono via via consumate. Che quel sogno si è esaurito. È finito. È stato consumato. È stato divorato. Nell’irresponsabilità e nell’incapacità. Che per noi “figli dei figli” non c’è più. Allora non videro, o fecero finta di non vedere nulla. Quel sogno era nato contraddittoriamente in un vuoto ed in una mancanza che si sarebbe nel tempo espressa compiutamente. Con la fine di quel sogno finisce la fine stessa quindi, perché se il pieno è già una paralisi, un esaurirsi e concludersi, un finire, ciò che oggi si dovrebbe davvero sperare è la fine di questa fine, poiché tale fine rappresenterà la fine del sogno e l’uscita da esso. Invece oggi in un certo senso gli italiani e le italiane, i “figli dei figli”, sognano ancora il sogno dei loro genitori. Non sono capaci di staccarsene e di svegliarsi, tanto forte è divenuta l’abitudine nelle loro menti e nei loro desideri.
E pure, alcuni di loro, si lamentano che non c’è più posto. Perché sembra loro ingiusto. Perché non potranno mai avere le comodità, i privilegi e tutte le possibilità che invece ebbero le generazioni precedenti. E sbattono così i piedi a terra come bimbi infuriati. Si lamentano che quel sogno per loro non potrà avverarsi. Perché in fondo avrebbero voluto una vita perfetta ed ordinaria. Avrebbero voluto vivere pacificamente nel paese delle meraviglie. La responsabilità ricade allora anche e sopratutto su di loro. Si ravvisa perciò una forte tendenza e voglia all’illusione, all’illudersi, a vivere nell’illusione, che caratterizza forse lo stesso statuto dell’umano in quanto umano, nelle sue paure più ataviche, nel suo sentimento di straniamento ed impotenza di fronte ad un mondo ed universo reale, che incombe nella sua infinita potenza, e che induce alla fuga ed all’illusione.
Il discorso che qui si presenta non rappresenta, né vuole farlo, il lamento sterile degli esclusi che vorrebbero i privilegi che sono stati loro negati. Rappresenta piuttosto la lucida denuncia di quel tessuto paradossale che ha portato allo stesso lamento che oggi molti intonano come uno slogan da carosello, così come all’assenza di posto che produce quel lamento. Ciò che qui si prospetta quindi è che il sistema dei privilegi, il paese delle meraviglie, il sogno imperante muoia, per dare spazio a qualcosa di essenzialmente nuovo e diverso. La funzione dell’escluso qui deve essere intesa in senso positivo, nel senso che l’escluso al banchetto, per la sua stessa peculiarità, può sperare di liberarsi dall’illusione dello stesso banchetto. L’escluso non è tale perché possa essere ri-incluso. L’escluso deve rimanere tale per escludere tutto il sogno e la sua malata consistenza.
(parte seconda: https://criticaimpura.wordpress.com/2012/04/19/il-paese-delle-meraviglie-esposizione-metaforico-teoretica-di-un-vuoto-imperante-seconda-parte/ )
[FINE TERZA PARTE]
[1] Figurativamente si ricorda Il paese di Cuccagna di Bruegel il Vecchio, dove si vedono personaggi addormentati, privi di senso, sbronzi, accasciati. Poi Il giardino delle delizie di Hieronymus Bosch, sovraffollato quadro di scene ed avvenimenti.
Non condivido affatto la tua lettura di Alice nel paese delle meraviglie. Solo un pretesto per dire ciò che avevi in mente. Approfondisci prima di parlare…vedrai che potresti usarlo comunque a tuo vantaggio ma con cognizione di causa. Scusa ma… mi da la possibilità di prendermi la libertà di dissentire…e la uso…spero senza offendere nessuno.
…lo stesso vale per il paese di cuccagna e il giardino delle delizie…esiste un sottotesto…sempre…approfondiscilo e scoprirai delle cose interessanti. In generale, con tutto il resto, potrei anche essere d’accordo…ma non usando paragoni impropri!
Ti ringraziamo per l’intervento a cui prontamente rispondiamo, per ora, al posto dell’autore; mica per altro; perché abbiamo letto per primi.
“Solo un pretesto per dire ciò che avevi in mente”: a nostro parere, sì. Qualcosa di male?
Questo testo semplicemente non è una lettura critica di Alice Nel Paese delle Meraviglie, bensì un’indagine metaletteraria e paraletteraria dell’Italia contemporanea all’interno della quale la metafora di Alice non è che un espediente per far emergere dissonanze e conflitti. Un sottotesto non c’è perché è svincolato dall’aderenza al testo principale; c’è invece un testo che scorre parallelo ad un altro, c’è un analogismo di fondo di natura simbolica e volutamente forzata, c’è un’intenzione, quella della critica e della denuncia sociale, che è la stessa ad averci indotti a porre l’articolo nella rubrica di società piuttosto che in quella di letteratura. L’operazione scrittoria può piacere o non piacere, non è questo il punto: il punto è comprendere dapprima le intenzioni con le quali qualcosa viene scritto.
Prima di parlare, forse, ti dovrebbe venire quantomeno il dubbio di non aver approfondito la lettura di ciò che pensavi fosse una lettura che non c’è. Una volta compresa, l’operazione scrittoria potrà continuare a dispiacerti tranquillamente; ma per altri motivi.
Sempre senza offesa, per carità; l’impurezza critica ce l’abbiamo, e per fortuna la si usa.
La Redazione