
di JACOPO BONATO
(con una foto di ANDREA SILVA)
Paralizzata dalla situazione paradossale in cui si trova, Alice non riesce nemmeno a sedersi. O meglio, è costretta a cambiare di posto repentinamente ed assurdamente, come se non si fosse mai seduta, come se fosse tutto pieno. I fantasmi e gli spettri che riempiono le sedie vuote, costituendosi nel vuoto, richiedono quindi uno scotto: non si può sottrarre loro il posto per più di qualche momento. Sembra quindi che la tavola sia davvero affollata, talmente affollata da venire rimbalzati di posto in posto. Eppure non c’è nessuno e tutto è vuoto. Un vuoto terribile e spettrale che ha però effetti reali, dal momento che impedisce ad Alice di sedersi e mantenere un posto. Un vuoto che crea fluttuazione e perciò altri vuoti, altre mancanze.
Il fatto narrativo che non ci sia più posto si apre ad ulteriori significati, ovvero il perpetuo cambiamento di posto, la continua mobilità o precarietà che si gioca tra sedie vuote, tra posti vacanti. Ma ad ogni posto vuoto corrisponde sempre la saturazione, la pienezza, il pieno di cui si è parlato. Il pieno che crea la paralisi equivale allora al vuoto che fluttua e che crea insicurezza. Il pieno crea perciò la precarietà del vuoto, o quanto meno la rinfocola.
“Precarietà” significa: dato che non ci sono posti di lavoro, dato che non c’è la possibilità di trovare il posto sicuro, fisso, a vita, in cui rimanere e mettere radici, non resta che cambiare continuamente di posto. Magari occupando qualche “buchetto”, qualche piccolo vuoto aperto temporaneamente. Il vuoto, l’assenza di posto, è perciò passeggero. Oggi si apre. Domani verrà di nuovo colmato e chiuso dal legittimo proprietario. Nasce nel provvisorio e muore in un battito d’ali, creando le condizioni di ogni possibile precariato, laddove il precariato è a sua volta fondato su di una totale assenza di posti liberi. Un vuoto ancora più grande quindi. Poiché in effetti non c’è posto e non c’è niente di niente. Vuoto che rincorre vuoto. E così italiani ed italiane si fronteggiano nella corsa alle sedie (tutte vuote, tutte già piene). Ma una o più sedie mancano, come in quel gioco dei bambini, e qualcuno rimarrà sempre in piedi: escluso.
L’immagine evocata ben si adatta alla situazione precaria, anche lavorativa, che oggi caratterizza l’Italia, mettendo in luce come ogni precarietà sia causata da un finto pieno, cui in verità corrisponde un vuoto di capacità e di posto. E la precarietà consuma. Consuma le persone, i loro caratteri, le loro personalità. Poiché non trovare posto spesso significa sentirsi esclusi, tagliati fuori, non integrati, inadeguati, irrealizzati, cioè perduti in un mondo ostile ed estraneo che non offre nulla, se non insicurezza e fragilità[1].
La figura del precario è la figura di colui o colei che viene sballottato come una foglia al vento di vuoto in vuoto. Colui che non riempie davvero nulla, ma che occupa soltanto un “posticino” vacante, lasciato magari da qualcuno in malattia o in ferie. Il precario, nella migliore delle ipotesi, è costretto ad emigrare, a cercarsi una vita all’estero. Espulso volontario dal paese delle meraviglie. Ed in quanto espulso ancor di più assente e mancante: un vuoto assoluto. Ed in effetti l’Italia è svuotata di tutti coloro che decidono di spendere la loro vita altrove. In tal modo l’Italia perde i suoi figli e le sue figlie, si svuota e lentamente si avvia verso il nulla, mentre con folle spensieratezza banchetta e consuma.
“Che spettri cattivi!”, pensa Alice. “Non mi lasciano sedere e non mi fanno partecipare al banchetto. Come se non fossi nemmeno qui. Come se io stessa non fossi e non valessi niente. Eppure la tavola è imbandita, piena: non manca nulla. Ma non basta evidentemente! Pur essendo piena, io rimango a digiuno: resto vuota. Sono un niente e per di più vuoto. Non posso toccare nulla. Sono impossibilitata. Come ingabbiata. Bloccata da un muro. Chiusa in una scatola. Che rabbia mi fa! Ma se non posso consumare niente di ciò che c’è, se non posso consumare quella pienezza e ricchezza così finemente imbandita davanti ai miei occhi, è come se fosse già stato tutto consumato. È come se non ci fosse. Altri spettri o fantasmi si accalcano alla tavola delle meraviglie… Ma stavolta in senso inverso. È infatti la ricchezza che adesso si dimostra nel suo essere spettrale, nella sua inesistenza, nella sua inconsistenza. C’è, ma è come se non ci fosse. Ma cosa succede al banchetto delle meraviglie? Tutto va per il verso sbagliato ed io stessa non so più che cosa fare e che cosa pensare.
La ricchezza opulenta e spettacolare che si sta duramente tentando di analizzare è falsa e vuota. È già un’illusione, un sogno. Essa non si fa afferrare e non può essere consumata. Si costituisce come intoccabile: quasi fosse cosa sacra. Così, chiusa in sé, rappresenta un accumulo indebito e fine a se stesso. Accumulare per accumulare: ecco la regola aurea delle meraviglie. La regola di Zio Paperone che accumula denaro nel suo deposito per sguazzarci dentro. In tal senso, in quanto intoccabile, la ricchezza crea paradossalmente una situazione di mancanza, di indigenza, di depauperamento: un vuoto.
E ai tanti che come Alice non potranno mai toccare nulla, non rimarrà altro che osservare basiti un banchetto cui non potranno mai partecipare. È a loro che va questo scritto. Esclusi da principio. Svuotati. Indigenti. Affamati. A volte piagnucolosi e risentiti. Arrabbiati. Indignati. Bloccati e depotenziati. Incapaci di reagire. Colpevoli. Colpevoli come tutti gli altri. Perché non si vedono santi e peccatori. Che a volte chiedono aiuto con un filo di voce, ma non vengono ascoltati. I loro desideri non vengono esauditi. E si trasformano in sogni. «La vostra abbondanza supplica la loro indigenza».[2]
C’è quindi uno stato reale di bisogno e di vuoto che non viene colmato dal pieno. Perciò il pieno non è mai tale, ma è soltanto correlativo al vuoto. Che ci sia pieno da qualche parte, significa che c’è vuoto da qualche altra parte. Sui piatti della bilancia un peso corrisponde ad un altro. Ma la bilancia, la giustizia, è tutta radicata nella dinamica malata tra un pieno che crea un vuoto e che è controbilanciato da un altro vuoto, poiché è esso stesso in realtà vuoto. I piatti della bilancia sono alla pari, poiché entrambi vuoti.
La dialettica malata tra vuoto e pieno si trasferisce inoltre su consumato e non consumato. Tutta la ricchezza non è consumabile in quanto intoccabile. Ma in tal senso è come se non ci fosse, come se fosse già stata consumata. Ecco cosa sperimenta Alice. Ciò che viene presuntamente accumulato si mostra contraddittoriamente come già consumato. In realtà non esiste ed è questo il motivo precipuo per il quale non può essere toccato, come nemmeno accumulato.
In Italia nel corso del tempo le ricchezze e le risorse sono state via via sperperate e consumate. Ecco cosa si intende quando si afferma che non c’è più posto e non ci sono più risorse. Non tanto che qualcosa miracolosamente sia sparito. Quanto che qualcos’altro non è stato fatto fruttare, ma è stato semplicemente consumato irresponsabilmente. Eppure il tipo di consumazione che stiamo analizzando ha come controparte necessaria una tavola imbandita che non può essere toccata e consumata, cioè un pieno che non è consumato e consumabile. Un pieno falso ed illusorio, che come un sogno dilaga sulla realtà soffocandola ed illudendola.
Di conseguenza, se quella tavola vuole essere mantenuta, nella sua inconsistenza, qualcos’altro deve essere sacrificato e consumato. È chi non ha niente e non può partecipare al banchetto, che deve venire consumato, per controbilanciare la paradossalità della situazione. In altre parole, per preservare la ricchezza accumulata, il privilegio, lo status quo (cioè il pieno), viene sacrificato chi è già escluso (cioè il vuoto) e che si mostra così come la controparte della ricchezza e del pieno immaginari. Ma in verità la ricchezza accumulata, il privilegio è stato già consumato e la tavola imbandita è un bellissimo dipinto da ammirare, quasi un miraggio. L’escluso diventa allora il nuovo privilegio da consumare, la nuova portata del banchetto, la nuova risorsa umana sulla quale si assesterà in nuovo trend di consumo. Dopo avere divorato tutto, anche il vuoto viene divorato. La tavola è quindi intoccabile, sacra e santa, poiché non c’è sul serio nulla che possa essere in essa toccato. E per ogni cosa sacralizzata, ve n’è un’altra svuotata e svergognata.
Il pieno cerca quindi l’annullamento del vuoto, cioè di coloro che non hanno posto e che sono dedicati alla mancanza. Ma il vuoto è un non essere. L’annullamento rappresenta allora il tentativo di far non essere qualcosa che già non è. Il pieno cerca allora paradossalmente il non essere del non essere. Quella che sembra la legge più salda dell’universo, ovvero che il non essere non è, sembra invece una violenza malata perpetrata dall’essere-pieno sul vuoto da esso stesso creato. È il pieno, cioè l’essere come concluso, che crea il vuoto, ovvero il non essere. Vi è quindi una malattia che corrode l’essere da dentro. L’essere come pieno è infatti immobile, pigro, inattivo, chiuso in se stesso: un atto che si pensa già concluso, già arrivato. In tal senso risulta inerte e già vuoto, in una parola morto: cioè non essere. In questa sua dinamica di chiusura l’essere-pieno crea poi il vuoto, il non essere, al di fuori di sé, ovvero la mancanza di posto. L’essere-pieno oppone a sé un non essere, appunto chiudendosi, definendosi, nei limiti e modi in cui questa chiusura ed immobilità produce altrettanto il non essere in seno all’essere stesso, che risulterà appunto la controparte contraddittoria dell’essere presente nell’essere stesso.
L’escluso, il vuoto, in quanto controparte contraddittoria, è allora il sogno dell’essere-pieno. È l’illusione tramite la quale l’essere pensa di poter essere e di preservarsi negando ed escludendo qualcos’altro. Drammaticamente, il vuoto è allora il sogno messo in atto dall’essere stesso, che alla fine si trasforma in incubo ed in non essere. Follemente l’essere-pieno tenterà di negare e di annullare il non essere che ha opposto a sé. Tenterà di consumarlo, di divorarlo. L’essere-pieno divora vuoto, divora non essere, annullandosi ulteriormente. Inoltre, il tentativo di distruzione del non essere perpetrato dall’essere-pieno, il tentativo di distruzione del vuoto è ulteriormente paradossale, poiché riconosce in qualche modo il non essere come qualcosa che è, per il motivo che può venire consumato. Dall’altra parte il non essere è figlio dell’essere stesso, è stato creato dal pieno stesso ed in tal senso l’essere-pieno tenterebbe di annullare una sua opera, una sua produzione, che proviene da esso stesso. Ma ancora, se il non essere, se il vuoto proviene dall’essere-pieno, l’essere-pieno risulta inevitabilmente vuoto e non essente fin da principio. Perciò, paradossalmente, che il non essere non sia, nella presente ottica, fa sì che lo stesso essere non sia.
Ma forse la colpa di tutto ciò è da attribuirsi al Cappellaio ed al Leprotto. “Prendi una tazza di Tè, devi assaggiare una tazza di Tè”, continuano a ripetermi insistentemente. I miei aguzzini mi tentano. Mi invogliano. Mi stuzzicano. E mi fanno credere che il Tè è lì, a portata di mano. Basta solo che allunghi il braccio, che faccia uno sforzetto. Eppure dall’altra parte tentano di ostacolarmi in ogni modo. Mi riempiono completamente la tazza di zucchero. Mi costringono a cambiare di posto giusto nel momento in cui sto portando la tazza alle labbra. Poi si fanno addirittura beffe di me: “Se non ti piace il Tè potresti fare conversazione”, cinguettano. Ma insomma, che modi sono? A me il tè piace moltissimo: e si capisce, sono inglese! Sono quei due cialtroni che mi impediscono di berlo. E hanno pure il coraggio di cambiare le carte in tavola e di scaricare la colpa su di me. È colpa mia, infatti, se non ci riesco… Sono io che mi rifiuto… Sono io che non apprezzo il tè… Non loro che mi impediscono (“che sia consenso unanime che ostacolo non c’è”)… E quale sarebbe allora la morale della favola? Che dovrei almeno fare conversazione. Mostrarmi gentile. Farli divertire e spassare, mentre banchettano alle mie spalle. Ma che assurdità! Qui funziona tutto al contrario. E mi sento pure presa in giro.
Il pieno, nella sua arroganza, illude. Illude che sia e ci sia pieno. La troppa ricchezza altrettanto illude: illude che ci sia tanto, laddove in realtà c’è poco o niente. Eppure, per cercare di salvarsi e mantenere l’apparenza, di fronte al fatto incontestabile che non può essere usata ed intaccata, la troppa ricchezza tenta di scaricare altrove le sue responsabilità. E la scarica addosso a chi è stato escluso da essa, cioè addosso al vuoto che le è contrapposto. E se ne lava le mani anche! Che non ci sia posto, che ci sia vuoto, rappresenta alla fine la miglior scusa per scaricare ogni colpa sul vuoto stesso, che risulterà allora ancora più vuoto ed inconsistente. Infatti, seguendo una logica perversa della tautologia, che il vuoto sia vuoto è un problema del vuoto stesso. È il vuoto che è tale, non il pieno. E la sua essenza di essere vuoto la deve soltanto a se stesso non ad altro. Ma qui si sta appunto tentando di dimostrare che persino i meri concetti di vuoto e pieno, non solo le situazioni reali, sono tali soltanto nel loro mutuo interscambio.
Ecco allora che, svuotato così selvaggiamente, l’escluso non rappresenta davvero più nulla. Non preoccupa più. Non dà problemi. Non è più quel vuoto che potrebbe minacciare e consumare il pieno. Anzi, può diventare addirittura un pagliaccio, un burattino, un tirapiedi, pur non ricevendo nulla in cambio. Ecco la vera prospettiva qui in gioco. Nel vuoto che questo pieno è esso cerca un passatempo per riempire il suo tempo e sminuire ancora di più il tempo dell’altro, dell’escluso, che viene quindi svuotato per venire riadoperato vuotamente come vuoto ancora più vuoto. Così ogni vuoto, ogni escluso, trova il suo finto posto in un teatrino, in una farsa a cielo aperto, in un’ennesima illusione. Alienazione totale. Oltre al danno la beffa quindi.
Ed anche questa immagine si adatta molto bene a descrivere la situazione italiana, che nel togliere posto, nel creare vuoto, fornisce altro vuoto ancora. Si pensi ai compensi azzerati, alle casse integrazioni, agli stage gratuiti, ai periodi di prova e sfruttamento interminabili, agli anni di attese per avere qualcosa, ma nel frattempo niente, a cui coloro che oggi non hanno posto sono costretti. È tutta una enorme farsa intavolata per nascondere l’unica verità: che posto non ce n’è e che la ricchezza di cui tanto l’Italia si vanta è stata in fondo sperperata. E allora che cosa rimane? Buttarla sul ridicolo, sulla commedia, sul divertimento. Meglio divertirsi che pensare ai problemi reali. Meglio consumare ancora di più il poco che rimane e decretare il vuoto come fenomeno ultimo. E l’Italia è drammaticamente il paese della commedia. Del dominio imperante del divertimento e dell’essere scanzonati. Degli eventi mondani. Delle serate in discoteca. Degli happy hour. Delle cene e delle sbronze. Delle interminabili ore davanti al computer (a giocare, a chattare: a perdere tempo). Delle interminabili ore davanti alla televisione (a guardare la peggiore spazzatura mai concepita: a perdere tempo).
Il tempo è impiegato e consumato nel divertimento. Avere buon tempo quindi. Essere pieni di tempo. Non sapere come adoperarlo. Usarlo solo per le felicità passeggere, mondane e dettate dalle mode del tempo. E allora consumare il tempo. Svuotarlo. Annullarlo. Di nuovo un pieno (falso) di tempo, che corrisponde ad un vuoto (di capacità). Ma il tempo che viviamo oggi è anche quello della frenesia e della virtualità. Il tempo che passa, che si consuma in un istante. Il tempo della frenesia consumistica, messa in atto per supplire alla forte mancanza di sicurezze, valori, identità, forza personale: “consumo dunque sono”.[3] Il tempo finto, passato e consumato davanti ai giochetti e agli spettacolini facili facili. Un tempo perciò già carico di vuoto, già carico di irresponsabilità. Un tempo che passa in fretta e non mostra così chiaramente ciò che avviene, gli oggetti che passano, le persone che si incontrano. Un tempo che inganna ed illude. Un tempo pieno di eventi. Eventi tutti stipati assieme in un’accozzaglia indistinta e perciò indistinguibili, invisibili. Un tempo che passa in fretta perché non vuole mostrare ciò che è. Perché vuole sfuggire e non farsi prendere. Perché la fine del tempo fa paura. Il tempo: un movimento folle e schizofrenico. Avere quindi un tempo a disposizione, il tempo della vita, e consumarlo così in fretta da essere arrivati alla fine in un battito d’ali.
Vivere per non vivere. Essere per non essere. Prima ancora di essere. Prima ancora di tentare di essere. Ma vivere anche in un tempo virtuale, il tempo della televisione, di internet, dei videogiochi, ricchissimo di avvenimenti, ma tutti interiori, di vita immaginaria che non rappresenta una reale discesa nel mondo, nella socialità reale che si muove, briga, crea vuoti e pieno. Nel tempo virtuale manca un impegno concreto verso la realtà di tutti i giorni. Verso i propri cari. Verso i propri amici. Rappresenta piuttosto una fuga nei Paradisi artificiali. Anche se qui non si assume un atteggiamento scioccamente ostile nei confronti della tecnologia e del virtuale, che potrebbero celare molte sorprese, quanto una seria analisi di alcuni pericoli in essi certamente presenti.
(prima parte: https://criticaimpura.wordpress.com/2012/04/12/il-paese-delle-meraviglie-esposizione-metaforico-teoretica-di-un-vuoto-imperante/)