Spoliticizzazione e messianesimo politico: ripensare Marx in tempi di crisi

Un Marx lampante
Un Marx lampante

di CLAUDIO VALERIO VETTRAINO

Ciò che questa crisi economico-finanziaria ci ha dimostrato, oltre ai limiti strutturali della società capitalistica nel suo complesso, è l’incapacità muta ed imbarazzante della politica nel gestire e governare questi processi. La “sconfitta” della politica risulta evidente nella chiamata disperata dei tecnici nella speranza di risanare e riordinare ciò che le forze politiche (ormai unificate nel loro pigro quanto inefficiente riformismo), avevo tentato invano di risanare e riordinare in questi ultimi vent’anni di seconda Repubblica. Un’afasia tra politica e società, tra rappresentanti e rappresentati vecchia quanto il sorgere della società borghese [1]. Ora, è impossibile fare qui la storia delle critiche alla società civile e alla non corrispondenza tra forze politiche e società [2], dell’influenza di Hegel e Rousseau [3] nel pensiero di Marx.

Ciò che qui conta è rilevare la costante spoliticizzazione della realtà contemporanea – tema in verità già fin troppo sviscerato ed abusato fin dal famoso libro di Francis Fukujama La fine della storia[4] – connessa alla cosiddetta fine delle ideologie, all’esaurirsi progressivo delle grandi idee-utopie del Novecento, che da un trentennio rappresenta l’oggetto principe di ogni discussione. Una spoliticizzazione, le cui caratteristiche vanno a mio avviso ancora ben riconosciute e calibrate e che sembra inevitabile, inesorabile, dettata soprattutto dal dominio del ciclo neo-liberista portato avanti negli ultimi trent’anni dalle maggiori potenze capitalistiche mondiali nei confronti dell’avanguardie del movimento operaio e del ciclo tradunionista iniziato nell’immediato dopoguerra e proseguito fino alla metà degli anni ’70.

Al ciclo storico progressivo della social-democratizzazione, il neo-liberismo ha contrapposto il mito del libero mercato e la bacchetta magica del denaro come unico metro di giudizio e di scambio, riducendo la politica e il “politico” a mera quantificazione, a mera monetarizzazione dell’esistente. Da utopia-trasformazione dell’esistente, la politica si è trasfigurata in circolare amministrazione dell’esistente, divenendo passo dopo passo mera ancella del potere economico e finanziario, perdendo con ciò la sua “autonomia”, i suoi “rivoluzionari” margini di manovra, di critica e d’analisi della realtà ai fini della sua evoluzione qualitativa.

Come al solito, non è la domanda in sé il problema (la spoliticizzazione della realtà e del quotidiano è un problema effettivo ed urgente, a cui occorre rimediare con forza) ma come viene posta e in che contesto storico siamo costretti ad operare per risolverla. Questa è la differenza tra l’idealismo e il materialismo. Tuttavia, la questione è un po’ più complicata, in quanto non risiede solo nella scomparsa o meno del politico e della politica come autonomia, come salvagente democratico alla dittatura anarchica del mercato.

Non si tratta di evocare il miraggio di una ricostruzione sociale, di una rinascita democratica generale e generalizzabile a partire dal recupero negativo (per sottrazione) di una famigerato “bene comune”, di un potere sovrano auto-costituito dal basso, slegato (non si sa come) dalle relazioni di potere, da interessi che operano oggettivi ed indisturbati nel tessuto sociale, anche quello più apparentemente liberato ed estraneo ad essi. Il problema non è quello di rivendicare una libertà, “una purezza” politica di gestione-azione emancipativa di contro alla corruzione dilagante del sistema (una visione idealistica e manichea che ha del religioso, fideistico, oltre ad essere lo scimmiottamento di tesi logore tipiche del vocabolario sessantottesco), ma di andare oltre antinomie irrisolvibili, inestricabili nel modo stesso in cui sono state poste, senza concentrarsi sulle uniche questioni davvero decisive.

E’ la stessa crisi (che nasce dallo sviluppo della nuova fase strategica e non dalla stasi-stagnazione del capitale mondiale) del capitalismo giunto nella suo stadio supremo di imperialismo, che rende già superflue, storicamente superate le forme di mediazione politica degli interessi e della gestione economico-produttiva della società borghese?

E’ la borghesia che rende superfluo il suo essere classe politica per realizzarsi come classe dirigente tecnocratica, direttamente attiva nell’amministrazione-gestione del suo potere e della sua influenza ideologica e sovrastrutturale, d’egemonia valoriale e psicologica (oltre che linguistica ed estetica) sulle classi subordinate, sui salariati [5]?

La tendenza-essenza finanziaria dell’imperialismo non rende già superate le forme e gli istituti di rappresentanza politica del capitale? Ha ancora storicamente bisogno del ruolo equilibratore, ad esempio dello stato [6], della politica, per sintetizzare e razionalizzare gli scontri, le contraddizioni e gli squilibri del suo potere?

La politica ha ancora un senso, possiede ancora una funzionalità economico-produttiva reale di gestione dei processi in corso oppure è una semplice spettatrice se non una zavorra imbarazzante da surclassare o quanto meno preformare ai nuovi compiti di dittatura finanziaria vigente?

Quale insomma lo spazio vitale del politico? Vi è ancora la politica come mediazione di interessi o sono gli interessi “nudi” che operano autonomamente mediandosi autonomamente, facendosi essi stessi politica, società, costume, psicologia, linguaggio, utopia, intellettualità [7]?

Riparto dall’inizio. Io sono d’accordo con le ultime analisi di Mario Tronti [8] sulla necessità di ripensare e ricostruire il politico come sfera attraverso cui sia possibile riattivare-riattualizzare l’utopia di trasformazione dell’esistente, ripensare in concreto l’alternativa, un soggetto politico in grado di realizzarla, imporla nel quotidiano alienato. Ma allo stesso tempo, i limiti ideologici di questa impostazione risiedono proprio nell’ingenuità di credere di poter uscire politicamente da questa crisi, affossando de facto qualsiasi analisi sul rapporto dialettico tra politica ed economia, riqualificando non il fondamentale concetto marxiano di formazione economico-sociale capitalistica, nella prospettiva – indicata da Colletti quasi quarant’anni fa – di ricostruire una nuova e dinamica critica dell’economia politica marxiana, ma recuperando un’astratta quanto puerile dimensione “politica” dispersa ormai nelle nebbie della storia, una sorta di age d’or della contestazione e della rivendicazione operaia [9].

Sono d’accordo con Tronti nel recuperare l’autonomia politica [10] della classe operaia, dei salariati, ma non bisogna confondere questo progetto quanto mai necessario ed urgente (pena la scomparsa della classe come forza politica alternativa e rivoluzionaria al piano del capitale) con una fantomatica quanto impossibile fuoriuscita tutta politica dalla crisi. Una rivendicazione che paradossalmente lo accumula a forze politiche a lui diametralmente avverse, come la Lega Nord ad esempio, o forze dell’estrema destra, tutte unite nello sbraitare un’Europa sociale, del welfare generalizzato, dei “popoli” contro l’Europa delle banche e della finanzia. In questo senso, non dobbiamo –come suggerisce lo stesso Tronti e grande parte della sinistra –ricostruire un ordinamento di controllo, di gestione politica della crisi, una sorta di inno nostalgico di razionalizzazione del piano strategico capitalistico [11], come se la politica potesse da sola riequilibrare e governare ciò che per sua natura sociale è squilibrato ed ingovernabile [12].

Questa pia speranza non solo ci impedisce di vedere come la politica, “il politico” sia già parte integrante, elemento centrale della crisi, suo agente oggettivo, suo portatore sano [13], ma altresì ci obbliga al pernicioso sostare empirico nella situazione data, alla mera amministrazione dell’esistente, alla semplice attesa di un’azione politica che mai verrà, alla buona volontà, alla speranza in una fase espansiva e di ripresa, uccidendo e defenestrando qualsiasi spinta utopica concreta al superamento di questa società, all’organizzazione capillare dell’alternativa, alla lotta contro le sue contraddizioni insanabili, siano esse politiche ed economiche o la sintesi dialettica delle due.

Non è dal politico in quanto idea-volontà, “spirito” di cambiamento, non è dalla razionalità che vince contro le tenebre oscure dell’irrazionale (tutte tipiche espressioni del feticismo ideologico delle varie correnti borghesi contro cui G. Lukàcs polemizzò così bene ne La distruzione della ragione [14]), che può venire qualsiasi segnale di cambiamento o almeno una timida inversione di tendenza [15]. Marx ricorda – e la sua è una precisa previsione storico-scientifica – che è lo stesso sviluppo capitalistico – attraverso la sua inarrestabile socializzazione dei mezzi produttivi – che pone le basi e le premesse (e non la sua effettiva, fideistica realizzazione) del passaggio al socialismo e al comunismo [16]; ma ovviamente ciò non basta.

Credere nella teleologia messianica del crollo necessario del sistema, della sua contraddizione in essere tra sviluppo e regresso, tra forze produttive imperiose e rapporti di produzione angusti, nell’oggettività storica della fine inevitabile, fideistica di un mondo ormai sull’orlo dell’abisso, in preda ai suoi fantasmi irrazionali [17], ha nel passato stimolato la convinzione – specialmente in alcuni esponenti spartachisti come Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht – dell’opinabilità del partito, di un’organizzazione strutturata e capillare, radicata nel territorio, che sappia nel momento decisivo dirigere le masse – messe in movimento dalle guerre del capitale per spartirsi quote sempre maggiori del plusvalore mondiale – alla conquista del potere.

Come risulta evidente, la rivoluzione russa vinse – in un paese economicamente e politicamente arretrato rispetto alle società capitalistiche più avanzate dell’Occidente [18] – proprio perché il leninismo riuscì a coniugare analisi scientifica delle tendenze oggettive del piano operativo del capitale monopolistico-finanziario e partito in quanto organizzazione – radicata nelle masse popolari ed operaie – dell’alternativa politica rivoluzionaria. Dunque Lenin ritrova Marx (dopo decenni di oblio marxista) proprio nel nesso dialettico tra l’analisi economica e strategia politica, nella certezza – espunta dai fatti storici – che l’una non può esistere senza l’altra, che l’una è il riflesso dialettico dell’altra, l’una la manifestazione, il riflesso rappresentativo, l’epifania dell’altra.

Per concludere; non si esce dalla crisi (che è poi l’essenza originaria e costante del modo di produzione capitalistico, che si sviluppa attraverso crisi [19]), scindendo ideologicamente il politico dall’economico, indicando con ciò una prospettiva millenaristica e a tratti messianica, ma nel ricostruire un’analisi storica (partendo dai processi di trasformazione e dai ruoli oggettivi delle classi all’interno del processo produttivo, recuperando e riattivando i concetti base del marxismo) e scientifica (verifica pratica delle ipotesi concrete di lavoro [20]) all’altezza della complessità, apparentemente inestricabile, dei nostri tempi, attraverso cui ricollegare dialetticamente politica e critica radicale all’organizzazione e alla divisione del lavoro capitalistica, alla finanziarizzazione del mondano e dei rapporti umani, teoria e prassi, ragione e materia, soggettivo ed oggettivo, particolare ed universale, ponendo le premesse di un’azione politica tra le masse che dia risposte concrete e prospettive concrete ai lavoratori, concreti motivi di lotta al capitale in tutte le sue forme, non come semplice ed istintivo rifiuto in quanto classe antagonistica, ma lotta quotidiana alla sua alienazione. Politica in quanto scontro ed analisi giornaliera piuttosto che attesa pigra di un “politico” (sceso chissà da dove) che metta a posto le cose, governi il caos del mercato capitalistico, per sua natura ingovernabile.

Mai come oggi, il motto di Trostkij “o socialismo o barbarie” si pone con tragica attualità. Siamo davvero a un bivio della storia. O comprendiamo che non c’è altra via che il socialismo (già nei fatti praticabile ed operativo su scala mondiale) oppure siamo condannati a vagare nelle tenebre di un caos, di un razionalismo irrazionale aspettando un messia politico, assistendo impotenti alla triste strumentalizzazione di Marx come classico del pensiero occidentale [21] o, peggio ancora, di un presupposto “tradizionale” per il ritorno alla saggezza della morale individuale o alla “cura dei corpi”[22].

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NOTE

[1] Un’afasia esemplificata nella scissione alienante che abita l’uomo moderno, denunciata da Marx fin dalla Questione ebraica e dalla Critica del diritto statuale hegeliano, tra gli interessi del cittadino e quelli del borghese, che trova le sue origini nel discorso sull’uguaglianza di Rousseau e le critiche di Gracco Babeuf alla formalità meta-fisica e meta-storica del diritto e della costituzione francese appena uscita dalla rivoluzione, in cui all’uguaglianza sostanziale dei cittadini viene sempre sovrapposta quella giuridica che governa il cielo astratto della legge. Cfr. Karl Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, in Scritti filosofici giovanili, a cura di Galvano della Volpe, Editori Riuniti, Roma. Sulla natura di classe della democrazia borghese, sui limiti di classe dell’”umanesimo borghese”, cfr. l’esauriente e precisa ricognizione di Adam Schaff, La questione dell’umanesimo marxista. Saggi filosofici /3, Dedalo, Bari 1978, pp. 34-35.

[2] Un tema questo molto attuale, ripreso in questi ultimi tempi da Mario Tronti in alcuni suoi scritti ed interventi. La tesi principe di Tronti è l’incapacità delle forze politiche, nella loro strutturale debolezza ideale ed organizzativa, di rappresentare ancora le forze sociali e culturali che operano concretamente, quotidianamente nel mondano, diagnosticando una frattura, una scissione netta tra politico e sociale, tra istituzioni rappresentative e movimenti di base, preoccupante, soprattutto nell’intento strategico vitale di ricostruire una soggettività politica autonoma attraverso la quale ricostruire-riattivare una vera e concreta alternativa al sistema neo-liberista presente. Sui limiti e le degenerazioni del parlamentarismo borghese e la sua ormai cronica incapacità di rappresentare le reali spinte sociali, gli umori popolari e le coscienze individuali, cfr. Danilo Zolo, Stato socialista e libertà borghesi, Laterza, Bari 1976. Un’opera che, con molta lucidità, ripercorre il dibattito molto attivo negli anni ‘70 tra esponenti dell’intellettualità italiana di diversa estrazione politica e culturale, come ad esempio Bobbio e della Volpe, sulla crisi delle istituzioni rappresentative, sulla perdita di autorità e capacità di direzione e gestione politica dei partiti tradizionali, sulla debolezza ed inefficienza del multipartitismo italiano e le possibili alternative teorico-pratiche di gestione della cosa pubblica avanzate da teorici marxisti come Althusser e Poulantzas. Lo stesso teorico greco, ne La crisi del partiti, un suo scritto del 1979, ora in Nicos Poulantzas, Il declino della democrazia, Mimesis, Milano 2009, mise in rilievo come alla crisi della tradizionale partitocrazia occidentale, alla sua eclissi oggettiva, stava imponendosi uno statalismo autoritario di nuova concezione, ancora più pericoloso perché non mediato dalla rappresentanza popolare dei grandi partiti di massa. Una nuova comunità politica sempre più a-politica basata sulla costruzione del consenso, stava mettendo radici in Europa. Ed è la stessa contro cui siamo chiamati oggi a confrontarci. Sull’itinerario teorico-politico di Poulantzas, in relazione e contrapposizione al suo maestro Althusser, oltre che sull’involuzione dello Stato democratico-rappresentativo a organo di gestione bonapartista della cosa pubblica, rinviamo ancora all’esauriente esposizione di Danilo Zolo, Ivi, pp. 105-115 e sgg.

[3] Cfr. su questo complesso e contraddittorio rapporto, Galvano della Volpe, Rousseau e Marx, Editori Riuniti, Roma 1963. Cfr. inoltre Danilo Zolo, Ivi, p. 71.: «Secondo Colletti, a parte la teoria (filosofica) dell’estinzione dello Stato, Marx (e Lenin) non avrebbe aggiunto nulla a Rousseau dal punto di vista della teoria politica. Questa tesi mi sembra comportarne almeno altre due che andrebbero accuratamente verificate: l’assenza di ogni sviluppo entro la riflessione teorico-politica marxiana (la quale, anche nelle opere della maturità, ripeterebbe i motivi della ricezione giovanile del pensiero di Rousseau) e l’inesistenza di “due facce” del pensiero politico di Marx. Il Marx teorico della politica, a differenza del Marx economista, sarebbe in toto dipendente dalle “filosofie” di Rousseau e Hegel».

[4] F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992.

[5] In questo senso, Monti e Marchionne sono due tecnici chiamati a risolvere i problemi lasciati aperti ed irrisolti dalle forze politiche borghesi. La borghesia cioè si spoglia del suo ruolo politico di mediazione e ridiventa classe economica dirigente a tutti gli effetti. Il montismo e il marchionnismo sono due facce dello stesso processo: ovvero riqualificazione complessiva, ricompattamento generale della borghesia come classe, per usare un’espressione hegeliana, in sé e per sé.

[6] Sul fondamentale ruolo dello Stato (altro che rappresentante degli interessi generali) nel mediare istituzionalmente, politicamente gli interessi delle classi avverse nella società capitalistica, il fondamentale Stato e rivoluzione, Editori riuniti, Roma, 1971.

[7] Un processo disumanizzante che riduce la complessità della mediazione politica umana a immediata quantificazione monetaria dell’esistente, alla mera interpolazione degli interessi, già operante dall’imporsi storico del modo di produzione capitalistico, come inedito rispetto ai modi di produzione economico-sociale precedenti. Cfr., su questo Adam Schaff, La questione dell’umanesimo marxista. Saggi filosofici \3, Dedalo, Bari 1978, cit. pp. 40-41.: «La borghesia, leggiamo già nel Manifesto del partito comunista, la dove è giunta al potere, ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale legavano l’uomo ai suoi superiori naturali e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato “pagamento in contanti”. Essa ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; in luogo delle innumerevoli franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto la sola libertà di commercio. In una parola, al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e arido».

[8] Cfr. su questo l’ultima produzione di Mario Tronti, dal suo ultimo libro L’estremo possibile, Ediesse, Roma 2011, ai suoi recenti interventi su “Il manifesto” del 24-1-2012 e la rivista “Italianieuropei”.

[9] Parlare dell’operaismo significa parlare di una stagione fondamentale del movimento operaio italiano e non solo. Sui suoi meriti teorici e politici e sui suoi limiti strutturali (in relazione, ovviamente, alla fase storica in cui emerse e agì), rimandiamo alla seconda parte dell’ottimo libro di Mario Alcaro, Dellavolpismo e nuova sinistra, Dedalo, Bari, 1977, soprattutto ai cap. VI e VII.

[10] Un necessario “ritorno al politico” che emerge molto chiaramente nell’ultimo libro di Geminello Preterossi, La politica negata, Laterza, Bari 2012, in cui la politica, il riannodare il filo dell’istituzione democratico-rappresentativa è l’unica strada per combattere da una parte il populismo e dall’altra tendenze nichilistico-individualiste.

[11] Massimo Cacciari nel suo famoso Pensiero negativo e razionalizzazione (Marsilio Editore, Venezia 1976), interpretava la spinta alla razionalizzazione del piano strategico del capitale, uscito dalla crisi del ‘29, incarnata dal New deal americano e dal fascismo corporativo, come una delle tipiche espressioni del tentativo riformista di governarne le contraddizioni e le lacerazioni insanabili. Riformismo, significa razionalizzare, o tentare di farlo, ciò che per sua natura è irrazionale e ingovernabile; il mercato mondiale capitalistico.

[12] E’ proprio l’anarchia ingovernabile del mercato, che va dove c’è un profitto sicuro, a determinarne le oscillazioni cicliche e gli squilibri su scala globale. Ciò determina altresì che aree del mondo crescano e altre tendano a declinare, (come sta accadendo oggi vistosamente, con il declino dell’Occidente e l’imporsi dell’Asia e del BRIC) in virtù della quantità di plusvalore estratto al minor costo produttivo e sociale possibile. Che il mercato sia sempre più globale e gli squilibri sempre più globali (dimostrando che la globalizzazione tanto osannata negli ultimi vent’anni in realtà fu già analizzata benissimo da Marx e Engels) e come la violenza cieca del profitto, del “basso costo” della forza-lavoro e delle materie prime, distruggano l’isolamento millenario di civiltà tra loro lontanissime creando un unico tempo ed un unico spazio della circolazione delle merci e dei capitali, e con ciò un’unica lingua, un’unica storia universale, cfr. K. Marx, F. Engels, Il manifesto del partito comunista, introd. e trad. it. a cura di Domenico Losurdo, Laterza, Bari 1999, cit., p.10-11 e ssg.: «Con lo sfruttamento del mercato mondiale, la borghesia ha dato un’impronta cosmopolita alla produzione e al consumo di tutti i paesi […]. Col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni rese infinitamente più agevoli, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I prezzi bassi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi e con cui costringe alla capitolazione la più ostinata xenofobia dei barbari. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a sua immagine e somiglianza. La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha costruito città enormi, ha accresciuto grandemente la popolazione umana rispetto a quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rurale».

[13] Marx ci mostra come sia impossibile scindere il piano politico da quello economico, come ogni forza politica in realtà non è altro che la rappresentazione pratica di determinati interessi economici, mostrandoci come lo stato borghese agisca sempre su un doppio binario, quello interventista e neutralista, a seconda dell’espansione o dell’involuzione della fase storica.

[14] G. Lukàcs, La distruzione della ragione, 2 vv., Einaudi, Torino 1975.

[15] Ed è singolare come proprio Tronti, che pose le premesse dell’operaismo nel ribaltare i rapporti tra classe e partito, indicando come la classe, in quanto soggettività storica portatrice di interessi primariamente economico-produttivi (in base al ruolo svolto all’interno del processo produttivo) venisse “prima” del partito in quanto funzione tattica, cioè mediazione meramente politica dei suoi interessi nella lotta contro il capitale, ribadisca ora la necessità di una ritorno “prioritario”, possiamo dire quasi ontologico alla sfera del politico, come elemento equilibratore, d’ordine nel caos finanziario del capitalismo selvaggio neo-liberista, come se esistesse un capitalismo riformabile e controllabile dal potere politico e non fosse viceversa il politico stesso (con tutti i suoi limiti e impotenze) un aspetto fondamentale della dittatura finanziaria attuale, dello stato finanziario mondiale.

[16] Una contraddizione che anima intimamente la società capitalistica, permettendone la sua risoluzione oggettiva nel passaggio ad una società superiore, che lo stesso Galvano della Volpe pose con lucidità ed estrema chiarezza. Cfr. su questo Mario Alcaro, Dellavolpismo e nuova sinistra, Dedalo libri, Bari 1977, cit., p. 123-4 e sgg.: «L’opposizione tra carattere sociale della produzione e carattere privato dell’appropriazione nella formazione capitalistica è tale non perché i poli opposti della contraddizione costituiscono parti-specie e perciò distinti-opposti di un unico genere o unità, ma perché essi sono in reale contrasto tra loro; un contrasto oggettivo e insanabile, un contrasto che postula il superamento di quella formazione economico-sociale ed il passaggio ad un’altra, qualitativamente superiore». La storia inoltre ci ha dimostrato come il comunismo non sia una libera scelta dei lavoratori, ma in determinate circostanze storiche – ad esempio durante l’Ottobre del ’17 – bensì un obbligo per sfuggire alla barbarie imperialista della guerra mondiale. Infatti molti lavoratori di estrazione e collocazione non bolscevica passarono dalla loro parte, fraternizzarono con le loro parole d’ordine, lottarono e morirono per esse durante i due anni di guerra civile, perché tutte le altre vie (le famose terze vie, democratico-riformiste proposte da Kerenskij) non erano oggettivamente praticabili né per porre fine alla sanguinosa guerra sul fronte orientale e alla redistribuzione delle terre ai contadini promesse da Lenin, né avrebbero condotto alla loro piena ed agognata emancipazione. Ahimè lo stalinismo, impostosi dal ’22, uccise –attraverso il ripristino capillare del burocratismo zarista in seno al partito e alla giovane società sovietica- anche queste precarie condizioni di libertà appena conquistate.

[17] Sulla vastissima letteratura “sul teoria del crollo” cfr. Lucio Colletti, Il marxismo e il “crollo” del capitalismo, Laterza, Bari 1975.

[18] Furono proprio le circostanze anomale- rispetto alle previsioni scientifiche di Marx ed Engels – che indussero Gramsci a definire la rivoluzione russa come rivoluzione “contro Il Capitale”.

[19] Cfr. su questo K. Marx e F. Engels, Il manifesto del partito comunista, Laterza, Bari 1999, cit., p.14.: «Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Spianando la strada a crisi sempre più vaste e violente e riducendo i mezzi per prevenirle».

[20] Già in Logica come scienza positiva del 1950, Galvano della Volpe pose il circolo concreto-astratto-concreto (partire dall’osservazione empirico-deduttiva dei processi reali, trarre da essi un’ipotesi astratta di lavoro, un’astrazione storicamente determinata da verificare in osmosi con la mondanità concreta), come elemento centrale ed imprescindibile del marxismo come “galileismo morale”, del metodo scientifico marxiano applicato all’analisi della società e della formazione economico-politica capitalistica. Un’operatività epistemologica attraverso cui è possibile, secondo della Volpe, «individuare nella negazione e soppressione del contraddittorio negativo di tale antinomia (la soppressione dei rapporti di produzione capitalistici, dell’appropriazione privata dei prodotti, ecc.) il compito di una rivoluzione sociale per la realizzazione di una società socialista». Cit. tratta da Mario Alcaro, Dellavolpismo e nuova sinistra, Dedalo, Bari 1977, p. 123.

[21] Il rischio attuale, in questa fase di crisi acuta del capitale globale, è che si verifichi un ritorno “borghese-accademico” a Marx, come spesso è accaduto nella storia. La classe borghese, conscia dei rischi e delle possibili tensioni sociali, come della presa e della superiorità scientifica del marxismo, si impadronisce ideologicamente del metodo marxiano (scindendolo ad es. nelle sue inscindibili componenti) per depotenziarne la carica rivoluzionaria ed eversiva di critica radicale al sistema (depotenziandone, ovviamente, l’elemento più radicale, più disorientante per il pigro e miope pensiero borghese che è la dialettica), per cristallizzare il pensiero di Marx come classico del pensiero occidentale, ottimo economista e pessimo rivoluzionario, come mitico punto fermo della tradizione, un maestro di cartone da tirar fuori al momento opportuno, sempre pronti a privare, alla classe operaia, la bussola analitica fondamentale per muoversi nel caos capitalistico. Ed è questo il pericolo più insidioso. Il nostro sforzo non è quello di ritornare accademicamente a Marx (ciò non serve a nulla, o meglio serve alla borghesia per annichilire o filtrare ideologicamente l’analisi critica marxiana), ma di riattivare un ritorno “proletario”, operaio a Marx, ricongiungere gli obiettivi di lotta, i bisogni, i compiti storici della classe con la sua teoria rivoluzionaria. Un compito immane e di difficile organizzazione; ma strategicamente necessario.

[22] Tentativo questo portato avanti da Roberto Finelli. All’impossibilità di ipotizzare, nella fase attuale, il ritorno alla necessità storica del partito come unità delle forze antagoniste, Finelli risponde con il ritorno alla coerenza del sentire personale, del “buon senso” individuale, alla morale kantiana della libertà data dal dovere etico-sociale del cittadino, nel sentirsi parte della comunità. Una posizione rispettabile ma mio avviso estremamente utopica e fuori dalla storia, in un mondo che è sempre più globale e che richiede, nelle sue sfide, la spinta all’organizzazione politica e strategica di massa, all’unità dialettica di teoria e prassi, piuttosto che “l’involuzione intellettuale” verso modelli di autocoscienza ideale e filosofica, “di uso dei corpi”, non più in grado –soprattutto se scissi dalla studio della realtà concreta – di dare risposte politicamente praticabili.

9 pensieri riguardo “Spoliticizzazione e messianesimo politico: ripensare Marx in tempi di crisi

  1. Mi trovo d’accordo sul fatto che e’ insensato ed ingenuamente utopico affidarsi alla speranza di una via d’uscita solamente politica.
    Ho molti dubbi sulla conclusione, per molte ragioni: la prima e’ che per piu’ generazioni l’assetto economico mondiale, impostato sul modello neoliberista, ha “educato” milioni di individualita’ alla completa alienazione. Le individualita’ sono diventate fondamentalmente individualismi e, seppure non siano inesistenti bellissime eccezioni di esperienze comunitarie (non parlo di “comuni” nel senso sessantottino, parlo di progetti portati avanti da piu’ soggetti in seno alla comunita’ di appartenenza, rione, parrocchia o quel che e’) o di lotte collettive non vedo proprio all’orizzonte la prospettiva di una lotta organizzata, che porti in nuce, anche in maniera inconsapevole, un germe di “socialismo”. Al massimo sporadici episodi di sollevazione popolare che porti a emersione la rabbia e la frustrazione, anche in maniera incontrollata e senza un obiettivo preciso, e di questi episodi ce ne saranno sempre piu’. Sono molto pessimista. Anche se, credo, la via d’uscita ci potrebbe gia’ essere (suvvia, con la tecnologia che l’uomo ha a disposizione e con le fonti di energia alternative potremmo gia’ essere a posto su molti fronti!), tuttavia i nodi di potere che hanno in mano le redini non molleranno nemmeno con il pianeta in fiamme.

    1. Certo, hai perfettamente ragione ad essere “pessimista”..l’ideologia neoliberista che ha governato in mondo in questi ultimi trent’anni ha lasciato – come ogni sistema dittatoriale – pochi o pochissimi margini di manovra e di pensiero critico. Sono inoltre d’accordo con te sulla natura “particolaristica”, individualistica delle lotte (o meglio delle battaglie di resistenza) oggi in atto. Oggi, a mio avviso. non si lotta, si tenta di resistere; due cose ben diverse. La lotta implica avanguardia e progresso, la resistenza battaglie di retroguardia se non addirittura (e qui so di spingermi forse troppo in là) reazionarie, conservatrici. Io credo che la sinistra sia oggi una forza generalmente (non entro nei particolari) avente caratteristiche conservatrici, tenta di salvare il salvabile, di riformare l’irriformabile anarchia del sistema capitalistico invece di lottare per abbatterlo; ma la sinistra ha smarrito da almeno 40 anni il marxismo come bussola scientifica, d’analisi e d’organizzazione politica: è sta qui secondo me il suo limite storico. Ma questa è un’altra questione, su cui torneremo a discutere senz’altro. La necessità che io pongo come centrale, è proprio quella di andare oltre il particolarismo, il settarismo delle lotte per costruire un movimento unitario del lavoro, un partito radicato veramente sul territorio, che sia in grado di dare voce e qualità alle rivendicazioni dei lavoratori, su cui ricominciare a ricostruire un vocabolario, un linguaggio (partendo dalla riattualizzazione della scienza marxista) una pratica politica concretamente connessa ai reali bisogni emancipativi della classe e della società tutta. E’ un compito storico immenso ed inedito. Ma un partito ha senso è vincente se è in grado di unificare soggetti politici ed economici molto diversi tra loro, è in grado di connettere ed indirizzare verso un progetto comune diverse tipologie di lavoro salariato (dall’ingegnere della boeing all’immigrato africano che lavora nei cantieri edili di Brescia). E’ vero, oggi vince la paura e la frustrazione, con moti di rabbia improvvisi, senza un vera direzione: domina un ribellismo diffuso e spesso incontrollabile. Un partito operaio, degno di questo nome, che fa suoi i principi del comunismo scientifico di marx, engels e lenin (che nulla ha a che vedere con lo stalinismo, maoismo, e con il “socialismo reale”) deve dare prospettiva teorica, tattica e strategica a quello malcontento, deve dare uno sbocco storico, politico reale alle lotte e alle battaglie che oggi la classe operaia, i lavoratori (soprattutto dopo queste nefaste riforme del lavoro e delle pensioni) stanno portando avanti. Dare forma all’informe..è questo che un partito “del lavoro” (comunista) deve saper fare. Solo unendo le nostre forze sotto un’unica bandiera possiamo farcela. Divisi, come la storia ha dimostrato, non siamo nulla. Lenin diceva: “Il proletariato è un gigante che dorme. Dobbiamo dare coscienza a questo gigante di essere potenza tra le potenze”. Oggi, il proletariato conta un miliardo e mezzo di persone. Se fosse cosciente della sua forza e del suo potere, il capitalismo avrebbe i giorni contati.
      Claudio Valerio Vettraino

  2. troppa importanza alla definizione di gruppi e poca a quella dei singoli. trovo il tutto poco antropologico.

  3. Mi sono interrogato più volte nel recente passato sull’attualità della “profezia” marxiana ed ho sempre concluso con fieri dubbi le conseguenti riflessioni. Trovo interessanti spunti di riflessione nell’articolo, ma nulla di più. Soprattutto le conclusioni mi lasciano perplesso. O socialismo o barbarie ? Riflettiamo sui molti milioni di cinesi ed indiani che “ieri” vivevano con l’equivalente di meno di 10 euro al mese ed “oggi” vivono con l’equivalente di poco più di 100 euro al mese (redditi decuplicati in meno di 10 anni). Chi o cosa è responsabile del loro uscire dalla povertà estrema e del consentire loro di avere oggi un tenore di vita che, comunque, farebbe ancora inorridire il più misero tra i cittadini dell’occidente ? Forse la “nostra” crisi ?

    1. Tu metti insieme cose diverse: 1) Marx, ed è lui stesso che lo dice più volte nei suoi scritti (Dalla critica al Programma di Gotha all’ Ideologia tedesca), non ha mai proposto “ricette per l’avvenire”. Marx non è né un profeta né un mago ma uno scienziato. Marx studiando le leggi di funzionamento del modo di produzione capitalistico, ha individuato delle linee di tendenza del suo sviluppo, ho analizzando e criticato i suoi processi oggettivi di riproduzione, cogliendo i suoi punti deboli e gli spazi dove il proletariato, i lavoratori potessero attaccarlo. Fin dal Manifesto del partito comunista scritto nel 1848, Marx parlava della globalizzazione e del mercato mondiale, di classi mondiali (quando i lavoratori salariati erano si e no qualche milione e situati solo in alcune aree, tra cui il centro-nord europa e la costa est degli Stati Uniti), di storia universale, di linguaggio universale, della fine dell’isolamento rurale e dell’esaurirsi dell’incomunicabilità tra popoli e zone geografiche lontanissime, facendo un elogio del potere borghese nell’aver prodotto, in due secoli, quello che l’uomo non aveva prodotto in millenni: questo è per Marx il potere del capitale, che rivoluzionando costantemente i suoi mezzi produttivi (qualità che lo differenzia da tutti gli altri modi di produzione precedenti) produce un mondo a sua immagine e somiglianza, trascende i confini e i particolarismi estendendo i rapporti di produzione capitalistici a tutto il mondo, facendosi mercato mondiale, sollevando – per i suoi fini produttivi e di profitto – dalla povertà e arretratezza interi continenti, schiavi fino a quel momento del dominio schiavistico e feudale (basti ricordare le parole di Lenin sullo sviluppo capitalistico in Russia).
      Nel 1852, rispondendo a Engels sull’importanza della scoperta dell’oro in California, Marx fece questa previsione scientifica, basata sulla verifica dei fatti storici e non su sue intime impressioni. Conoscendo il mercato mondiale e il suo sviluppo attraverso la ricerca spasmodica del profitto nella conquista di nuovi territori vergini su cui impiantare il suo potere, Marx osservò che la scoperta dell’oro in California avrebbe spostato l’asse commerciale dall’atlantico al pacifico e ciò avrebbe di conseguenza decretato l’inizio dello sviluppo capitalistico asiatico (fino a quel momento totalmente isolato dal resto del mondo, chiuso nel suo feudalismo imperiale). Marx già nel 1852 aveva previsto il mondo di oggi. Il passaggio epocale dall’atlantico al pacifico; sviluppo economico del pacifico ed annessa guerra di secessione americana come riunificazione del mercato nazionale americano, diventato necessario sotto la spinta della crescita economica esponenziale della California. Ovviamente è impossibile in un commento entrare nello specifico. Ma tutto questo dimostra come è possibile, con l’arma della scienza e dell’analisi storica oggettiva, prevede le linee di tendenza del capitale e di contro organizzare un movimento capace di intervenire nella realtà per modificarla. 2) Per Marx, e questo è decisivo, è il mercato mondiale capitalistico, è l’imporsi storico della borghesia, che permettono il passaggio al socialismo. Senza il mercato mondiale, senza immane raccolta di merci e di ricchezza che il capitalismo produce ogni giorno, il socialismo, come regno dell’abbondanza (e non della fame e dell’uguaglianza della/nella povertà di marca proudhoniana) pianificazione economica razionale in base ai bisogni degli uomini e non sull’anarchia del profitto (come avviene ora), sarebbe impossibile, vera e propria utopia. E sta qui la critica di Marx alle varie correnti del socialismo utopistico (dalla Repubblica di Platone, ai vari More e Campanella). Fino a un secolo fa il comunismo era materialmente impossibile, se non in forme primitive, teologiche ed ideali. Oggi, data la socializzazione della società, grazie al mercato mondiale, è sempre più materialmente attuale oltre che urgente e necessario.
      Inoltre, per Marx il comunismo non è un’idea che scende dall’alto, una pia volontà dei buoni e dei giusti, un progetto mentale fatto architettato a tavolino, il famoso “paradiso in terra” di cui tanto ci riempiamo la bocca..ma è il movimento stesso della storia che nel suo divenire dialettico-contraddittorio., pone le basi e le premesse (che sta a noi uomini concreti, con i nostri movimenti politico-pratici realizzare) per il passaggio al socialismo. Il socialismo è una necessità storica, non una volontà puramente soggettiva. La classe operaia sarà costretta (come è stata costretta molte volte nella storia, basti guardare la comune di Parigi e la rivoluzione russa) a fare la rivoluzione dalle circostanze oggettive in cui si troverà immersa. La necessità rivoluzionaria, e ciò si vede bene durante la rivoluzione russa, va oltre l’esser d’accordo o meno, con le scelte politiche elettorali soggettive che possiamo fare oggi. Quando, come diceva Trostkij, il bivio è tra socialismo o barbarie (guerre mondiali, crisi economiche, macelleria sociale ecc), e io ribadisco che ci troviamo in questa stessa situazione (ovviamente in forme diverse), quando la situazione si fa dura e senza via di scampo o trionfa la reazione (Fascismi) e la controrivoluzione (stalinismo) o si fa la rivoluzione; ovviamente se sul campo c’è un partito capace di dirigere, “educare” le masse, messe in movimento dalla guerre del capitale, alla meta finale. Come diceva Lenin: “un conto è scrivere della rivoluzione altro conto farla”. Staremo a vedere.
      Claudio Valerio Vettraino

  4. In Questo articolo impuro, ci sono delle interessanti domande che aiutano a riflettere seriamente sul presente, e non solo. Analisi accurata dove si parla anche della qualità. Grazie.

  5. Interessante laddove mette in luce la coincidenza tendenziale nella forma ciclica del modello economico e di quello esistenziale. Ma direi anche che la ciclicità è parte essenziale (ahimè) del sostrato biologico. Non è col messianesimo che si sconfigge una tale presunzione onnicomprensiva, ma con la riappropriazione del concetto di ciclicità. Bisogna lanciare un’offensiva economica, filosofica e biologica. Essere e fare l’alternativa; esserlo e farlo con gli altri. La solidarietà funziona bene come mezzo di produzione. E mi pare di parlare di politica. A voi?

  6. Condivisibile nel complesso; però Il difetto è che si muove ancora all’interno del genere letteraio “filosofia”, ossia registro che è un po’ a metà tra l’analisi puramente teorica e il proclama. I proclami van benissimo, ma van tenuti distinti, oggi almeno, dall’analisi, che deve avere tratti più marcatamente scientifici, cioè anche dati empirici; ad esempio rilevare che la Rivoluzione russa fu dovuta anche ai fattori indicati, ma pure alla guerra e al ruolo delle potenze europee che vi combattevano, oltre che a fattori economici e culturali. Così anche oggi, non si può sostenere apoditticamente che il modo di produzione capitalistico è ormai in un cul de sac; è dagli inizi del Novecento che lo si dice e ancora dura eccome, anzi si espande e rafforza, pur con le sue crisi interne. Occorrerebbe mettere in questione alcuni presupposti dottrinari…

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