
di ANTONELLA PIERANGELI
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.
Giovanni Giudici (La vita in versi)
Ora che Giovanni Giudici non c’è più, mi tornano alla mente i versi dell’ultima poesia di O Beatrice (1972), intitolata Descrizione della mia morte:
C’era un bel sole, volevo vivere la mia morte.
Morire la mia vita non era naturale.
Non aveva ancora compiuto cinquant’anni, Giudici, quando compose questa poesia; ma di visitazioni della morte i suoi versi, nello snodarsi naturale della sua opera poetica, ne avrebbero conosciute altre ancora, come in Stalinista, del 1984 – “Morivo come Tolstoj…“ – e infine, con apparente leggerezza e con aria di congedo, nelle pagine di Quanto spera di campare Giovanni (1993). Qui il testo recita all’inizio:
Mettere su una casa
Alla sua età – quanto spera di campare Giovanni
Ti sei domandato:
E io che non ho osato
Replicare alcunché
Nemmeno tra me e me – sui due piedi
Per quanto approssimato tenendo un calcolo […]
E dopo Empie stelle (1996) e Eresia della sera (1999), quasi un decennio di silenzio. Un silenzio mai vuoto nell’opera di Giudici, un silenzio che sedimenta nella pace assolata della dimensione onirica.
Nei versi della Descrizione, con andamento solidamente narrativo, il motivo onirico infatti poteva richiamarsi tanto a Gozzano che a Sereni: due poeti che, seppure in una sottesa ma incisiva eco, agirono in profondità nell’opera di Giudici, proprio perché seppero includere il sogno e la dimensione interiore (con le loro rivelazioni, i loro misterici presagi e segnali oscuri) entro un articolato organismo narrativo, aperto al movimento del tempo e mai intrappolato nella staticità del momento.
E proprio ripercorrendo empaticamente e mentalmente il suo itinerario poetico, ci si accorge della qualità e della singolarità della sua presenza nel Novecento.
Diciamolo subito, allora: quanto mondo è entrato nella poesia italiana per merito di Giovanni Giudici… E non generico mondo, generica vita, bensì vita e mondo immersi nella società, nel tempo di tutti, nei dialetti delle culture che vivevano dentro e attorno al suo “personaggio” poetico, nelle tante personae che i suoi versi hanno messo in scena, e che brulicano tuttora vivissimi nella memoria.
Nella poesia di Giudici infatti, ad un grado non rintracciabile in altri, sin da La vita in versi (1965) l’elemento “teatrale” e quello “romanzesco” si fondevano aprendo porte e finestre a quel che una lunga tradizione snobbava come transeunte e prosaico, non redimibile, spurio. Non era “realismo”, ma qualcosa di assai più denso, duttile e complesso, che sapeva annettersi quanto Bachtin ha indicato nel concetto di “dialogismo”: visioni del mondo veicolate dalla lingua (“Un nuovo gergo / imparerai nelle file dei nuovi conservi”), stereotipi culturali e linguistici all’ordine del giorno o in via di estinzione, intrisi di bassa cronaca e spirito del tempo (“Tecnicalità”, “pi-trentotto”, “area depressa”) inflessioni e voci di piazza o strada, “parole prese a prestito da libri e labbra”, pensiero altrui da ritradurre ogni volta scontando la posizione, l’orientamento del parlante. Compreso l’io, naturalmente: Il famoso “io impiegatizio” e “aziendale” di tanti versi, ma anche l’io-donna di estrazione piccolo- o medio-borghese; l’uno e l’altra, comunque, parte di quella massa anonima che ora, nella nuova era (il “boom”, il “neocapitalismo”), sciamava nel corpo del secolo, pronta a prostituirsi o riscattarsi ai miraggi ed ai ricatti collettivi delle ideologie, dei meschini interessi, delle piccole o grandi speranze di ogni giorno. La “gente minuscola” che in Giudici, con una pluralità di voci, dice “io”.
Sdoppiamento e proliferazione di sosia (Raboni richiamò Dostoevskij, ma anche il “grottesco gogoliano”) vanno di pari passo con la narratività; e per esplicita professione d’autore, il varco, la crepa attraverso cui tutto questo filtrò in poesia era l’ironia. Con più precisione, si dovrebbe parlare, sempre ricavando dai versi il vocabolo, di «commedia»: un tal genere di poesia, pertanto, va letto non per degustare la bellezza o bravura di questo o quel testo (che pure può sfiorare il funambolismo), ma nell’ordine della continuità, quasi si tratti di un epos desublimato della soggettività nell’era dell’alienazione – ed anche questo termine, alienazione, con il suo accento storico, tra Marx e Freud, è parte dell’universo che in Giudici si affaccia alla ribalta della rappresentazione, investendo il mezzo espressivo con strutture modulari ed un tratto irrigidito e impertinente, che corrisponde in modo geniale, quasi medianico, al tratto sonnambulico proprio dei comportamenti e delle pulsioni dell’uomo-massa. Così, nei quadri dell’esposizione non c’è spazio per l’elegia, anche quando se ne imitano le movenze: anzi è proprio quando la recitazione inclina al “poetico”, che se ne è lontani. Per una fortunata condanna, la tendenza oggettivante, romanzesca, non risparmia nulla; e c’è da chiedersi se da qui non muova quel tanto di aggressivo e crudele che si fa strada nei libri del poeta, per riverbero di una dimensione rimossa, latente. L’appropriazione di zone sinora inespresse in poesia procedeva forse, paradossalmente, da un più vasto interdetto, ferita o debito (ripetiamolo: di ordine sociale), lo stesso che imponeva di far dire l’indicibile all’altro; ma avvicinandosi alle zone dell’interdetto, nel frattempo l’ironia doveva farsi più inquieta e striata di angoscia, meno ammiccante e più intensa la fitta memoriale, persino allegorici i monologhi. Lo ha visto Berardinelli: «Soltanto nella paura dell’uomo disarmato e solo lampeggia il giudizio. All’animale braccato deve essere evidente che tutto il mondo può mettersi a funzionare come una trappola».
Il sospetto di avere a che fare sempre e soltanto con trappole riguarda in primis quelle sfere dove l’interdetto è esemplare, fondante: l’Eros, la Religione. Non è un caso che in questi paraggi, tra memorie d’infanzia e adolescenza e avventure, frammenti di ricordi e rimorsi, la poesia di Giudici metta in scena alcune delle sue più memorabili recite, né occorre uno psicologo del profondo per ravvisare che i due poli tendono a incontrarsi in una serie di terrestri, tragicomiche pantomime, in cui una lunga ombra di riprovazione ed una sottile fumisteria s’incontrano come mai s’era visto prima.
Emerge qui, infatti, un nesso tanto decisivo, quanto destinato, con il passare degli anni, a entrare in una zona d’ombra: quello tra formazione ed emancipazione, passato e futuro. Con il tramontare e scolorare dei secondi termini di quel nesso, che mobilitava e nobilitava le voci del teatro di Giudici fino agli anni Settanta, l’orizzonte del discorso tende a circoscriversi: la dialettica di individuale e collettivo segna il passo, il basso continuo della “doxa”, che costituiva un appoggio vitale per lo spessore del testo poetico, viene progressivamente meno. Ne deriva un’accentuata centralità dell’io, che dietro la solita maschera continua a mimare il poeta che Giudici non è: un primo annuncio ne è O Beatrice (1972), che però ancora coniuga il motivo amoroso entro l’ordine del ciclo precedente, con diffrazioni romanzesche a largo raggio ed esiti complessivi che Raboni ha saputo meglio di altri indicare: «il sosia del poeta, impadronitosi dei ferri del mestiere, li gestisce adesso direttamente e senza scrupoli, con la fredda, infallibile audacia di chi sa di non dover rispondere in prima persona dei risultati».
Dunque, nel pieno dei mefitici anni Ottanta, è toccato a Salutz (1986) consacrare una nuova fase, con l’aperta ripresa di temi e vocaboli dai provenzali, lasciati sedimentare con maestria e grande potenza evocativa. Ma proprio per le incorreggibili, materialistiche e feconde risonanze del motivo erotico, il libro “provenzale” mantiene in vita una dialettica alto-basso del tutto sconosciuta ai post-moderni; né il tentativo di porporati accademici e bacchettoni di nuovo conio di normalizzare la poesia di Giudici, cospargendola di melassa spirituale e rispolverando l’eterna «anima», regge di fronte agli ultimi libri, dove la memoria torna prepotentemente a imbastire brevi racconti e nuove finzioni che specie nelle sobrie, spoglie quartine finali di Eresia della sera configurano uno “stile tardo” in tutto e per tutto appartenente alla tradizione laicissima ed utopica della modernità:
Poi che non scorgo via d’uscita
Nel lume di questa vita
In te rifugio il triste orgoglio
Spessore di questo foglio
nella mente mi assottiglio
Microbo figlio di figlia d’un figlio
(Aspirazioni)
così, fatto sottile sino alla consunzione, un lungo doloroso silenzio nel quale aveva raccolto e inverato il suo sguardo, mite e rassegnato:
Dove di noi sorride e sta
La minima tua verità.
Il verso sussurra il “balbettato barbaglio di aldilà” che ha continuamente tormentato il suo comporre e il suo vivere:
Fa come se potessi
Vedermi – qui all’estrema
Abitazione della vita
Seduto sulla soglia tra la stanza
Dove già m’illudevo
Di perseguire un’opera di suoni.
Ecco che la poesia, l’estrema “abitazione della vita”, in Giudici assume e vivifica la tradizione occidentale, dai provenzali, rinati e reincarnati in Salutz, a Guido Cavalcanti e allo Stilnovo, al Paradiso di Dante proposto in azione scenica: Perché mi vinse il lume d’esta stella (1991), che s’intrecciano con la composizione di due dei suoi più ispirati volumi di poesia: Lume dei tuoi misteri (1984) e Fortezza (1990), ispirati dalla feroce e ossessiva presenza delle vibrazioni del presente, di tutti quei minimi segni che già sono – per chi sappia vedere – varco di un’epoca, come il congedarci, abbandonato il segnale di aiuto da un secolo di suppliche:
Salvate le nostre anime
Indi e quindi il segnale
Passando senza nessuna
In lingua viva risposta
Chioccolìo del morto auricolare
Ai bordi del disastro
Durando a quelle il nerissimo
Lontanarsi come nei mari della Luna.
(Save Our Souls).
Non è stato dunque ardito fabbricatore d’eterno, ma ha limato il quotidiano sino alla sua nudità, alla più dimessa “confessione” di vita, dove, esaurito il filone del Petrarchismo, la lirica amorosa risulta rarefatta e quasi assente nel linguaggio letterario degli ultimi secoli ed è appunto in Giudici che si avverte ancora una traccia nei contenuti ideali dell’amore romantico, anche se poi, nei suoi complessi intrecci, rimaneggia e trasforma quella pura e densa tematica alla luce di “empie stelle” e di nuove finalità, più urgenti nell’intellettuale contemporaneo.
L’amore, come elemento imperioso totalizzante dell’emozione poetica, ritorna quindi ad essere, in Giudici, approdo significativo e risolutivo, dopo la lunga narrazione (La vita in versi), di sapore autobiografico, dell’intellettuale funzionario che si ripiega a considerare la sua nuova attuale condizione. Non a caso, qualche critico, all’apparire di Salutz immediatamente rilevava la novità della ricomparsa del Minne medievale dopo secoli di assenza. I richiami infatti si evidenziano fin dal motto iniziale – i versi di Raimbaut de Vaqueiras spunto e orientamento insieme nell’esperienza della lettura – e in Giudici si ritrovano, travasandosi e compenetrandosi, i due filoni che in successione hanno segnato la linea evolutiva dell’Amore; si tratta ancora del sentimento lontano e sublime dei poeti delle corti assunto a valore assoluto nello Stilnovismo; si tratta della piena disposizione al servizio dell’amante verso la Signora-Midons, ma nella poesia di Giudici anche dell’atteggiamento orante e contemplativo verso un essere superiore alla realtà contingente, alla sua realtà esistenziale. Nella sua lontananza, sempre esigente nel richiedere e punire, la donna diviene emblema di Bene e Amore e può apparire perfino cruda ed implacabile all’amante tenuto al continuo sacrificio, che si snoda nei versi come passione purificatrice. Nella poesia di Giudici, dunque l’amore torna ad essere forza unica e suprema, forza totalizzante, che non accetta compresenze, ma concentra in sé tutti gli obiettivi della vita, dividendo la sua sovranità solo con la morte in una sintesi complementare di assoluti, d’inedita potenzialità metaforica. La “Presenza” nel mondo e la natura corporea, con cui la figura femminile sollecita tutto il percorso terrestre del poeta, sono trascesi dall’Essere sempre in eccesso rispetto alle sfaccettate rilevazioni; la sua figura di vergine, madre, maga, fattucchiera, Signora, Vergine, Magna Mater cosmica, può indicare la profondità e l’ampiezza della preparazione lirica di Giudici. Una donna che si reifica in una dimensione utopica, come la realtà in cui si trasfigura, come l’unica vera via di salvezza di fronte all’avanzare del nulla.
L’alternativa utopica attraversa, infatti, tutte le raccolte di Giudici, connotandole di aneliti profetici, all’interno di un mondo letterario contemporaneo che spesso restringe il suo sguardo al presente, come viaggio, magari ironico, nel paesaggio sconsolato della realtà. Certo alla gioia del sublime poetico, nella figura femminile cosmica, che richiede alla parola tutto il sostegno emotivo e metaforico, egli giunge dopo il crollo delle sue fedi precedenti, sostenute da un abile sofferto lavorio di amalgama, con cui si era affacciato all’interno della grande massa sociale asservita, restando personaggio malinconicamente chapliniano, non avendo niente a che fare né con la moltitudine stracciona, né con la cerchia dei nati per dominare.
Di questa sua vita declassata e senza illusione, Giudici ha voluto mettere in versi, riconoscendone perfino i momenti di arrendevolezza sociale – e sentendosi perciò colpevole – la cronistoria critica della sua coscienza lucidissima, risollevando con lo slancio della sola bellezza, il culto del puro poetico: è in questo modo ineffabile che le parole si allineano come tessere vaganti, libere dalle scorie della funzionalità e cariche solo di tensione emotiva, inneggiando clamorosamente a quel fantasma rarefatto e sublime che è la poesia.
Una poesia che illude la morte, nella grande sfida alla possente eternità.
Ecco perché con Giovanni Giudici scompare anche gran parte di noi, di quelli che hanno creduto che la bellezza, la natura e il tempo fossero un dono lieve e che poco altro restasse, qui, che non pesare sulla terra:
Intanto fu il suo respiro più lieve
Un velo il volto e bianco più che la neve.
Dunque grazie e salutz a te, Giovanni.
molto compatto e lineare, esaustivo sulla poetica,rinarra il percorso di Giudici, libro dopo libro e snodo dopo snodo; un altro caposaldo del nostro novecento poetico italiano. Grazie di questo.
Maria Pia Quintavalla.
Analisi lucida e puntuale ma piena di passione.
Si sente il cuore dietro il rigore critico. Ottimo lavoro.