Giovanni Gasparro, Al Limite (part.), 2006

L’urlo e la teoresi: appunti sullo statuto dell’arte contemporanea.

Giovanni Gasparro, Al Limite (part.), 2006
Giovanni Gasparro, Al Limite (part.), 2006

di SONIA CAPOROSSI

Tutto il dibattito e la vulgata sull’arte contemporanea (beninteso, dico contemporanea perché quella postmoderna è, come idea, oltre quest’analisi, per motivi che spiegherò più oltre) sembrerebbe, alla fin fine, riportare il giudizio critico degli addetti ai lavori sul piano della comprensione del semplice fruitore. Si sente insomma sempre più spesso dire che l’arte contemporanea, a ben pensarci, dopo un secolo di sperimentazione simbolistica eteronomica, sembra aver tolto a sufficienza senso ai segni; intendendo dire tolto proprio letteralmente come sottratto, e non come auf-gehoben, nel qual caso il termine di ascendenza hegeliana starebbe per “tolto conservando”, in  una superiore (nel senso neutro di “ulteriore”) sintesi di ricchezza e pienezza di significato.

E’ come dire che si vede troppo spesso, in fin dei conti, fare ancora oggi dell’arte di rottura con la divaricazione dei sensi dai segni, e ciò si evincerebbe in tutta quell’arte attuale troppo spesso definita come tautologica in quanto non mostrerebbe, ostensivamente, un significato altro; quell’arte detta tautologica, insomma, perché non sarebbe più frutto del cassireriano animal symbolicum, perché non direbbe più metaforicamente altro da sé. Ed è superfluo suggerire che un duchampiano orinatoio, se non dicesse altro da sé, non sarebbe altro che un orinatoio, non certo arte. Il punto è domandarsi, piuttosto, se l’artista abbia un’auctoritas sufficiente per peritarsi di quest’eteronomica attribuzione di senso e significato all’oggetto che in fondo in fondo neanche produce manualmente più (prendo un orinatoio, lo metto sottosopra, ci appiccico un’etichetta, lo spedisco ad una mostra). Magritte, almeno, dice il volgo, la sua pipa – non – pipa l’ha dipinta. E per questo ha dovuto aggiungere sotto alla pipa in questione la frase pretenziosa in base alla quale quella non era più una pipa. L’artista ha suggerito al lettore, insomma, che quella pipa dipinta su sfondo ocra era divenuta, per esclusiva virtù e volontà dell’artista normonomico, qualcos’altro, non foss’altro che per il fatto di essere stata dipinta da lui stesso, nell’atto di esercitare le proprie piene facoltà di attribuzione simbolica nomotetica; ma si suppone che, come l’orinatoio, se anche l’avesse assunta come tale da oggetto tridimensionale quale di norma è, la pipa, in quanto tale, sarebbe stata di fatto qualcos’altro, sed non aliud a quo che l’artista gli avrebbe metaforicamente imposto di essere. Duchamp compie, appunto, la medesima operazione chiamando “fontana” un semplice orinatoio, con freudianissimo spostamento e condensazione del significato altro rispetto al significante, in base ad una pretenziosa attribuzione di senso altro attraverso un modus operandi minimalmente nominale. Tutto questo è un “togliere” in senso hegeliano, conservando ed aggiungendo un senso altro, appunto, rispetto al referente immediato. E questo è stato il comportamento abituale di tutto il dadaismo e delle avanguardie storiche. Insomma, l’arte del dadaismo, del surrealismo e delle avanguardie storiche aveva ancora una profonda valenza simbolica, non foss’altro che eteronomica (in quanto quest’ultima vigeva per volontà dell’artista, in barba ed in sfida al fruitore), e tuttavia era ben lungi dalla tautologia che le è stata verbosamente ed annosamente attribuita: in quanto non è tautologica un’arte che dice altro da sé, anche se lo dice perché chi la crea, dal di fuori, glielo fa dire.

Dopo il surrealismo, il diluvio. Il barattolo di pelati Campbell di Andy Wharhol, ad esempio, toglie il senso all’arte, mi si perdoni il gioco di parole, proprio nel senso che glielo sottrae, senza conservazione d’altro, neanche del contenuto (e non parlo del pomodoro). Quel barattolo, come anche la faccia riprodotta in policromia della Monroe, semplicemente non dicono altro da sé: l’artista si esime dall’attribuire sensi e significati, e allora ci debbono pensare, in ultima istanza, i critici. Così, contrariamente a quanto accadeva per la critica d’arte delle avanguardie storiche (in cui o c’era l’ottusa stroncatura o l’entusiastica ermeneusi) i critici, parlandone, si debbono affannare a trovare belle parole di contorno sociologico, perché il loro compito di indagine estetica, nei casi esemplari della pop art o dell’iperrealismo, è tolto a priori. I significati di quest’arte non solo non hanno più nulla a che fare con l’arte in senso classico (poco male), ma anche, beninteso, con l’arte in senso puro, assoluto: voglio dire, con l’arte il cui unico scopo, completamente autonomico, è dire o significare altro da sé dal proprio interno, ovvero decidere dei propri contenuti autonomamente, nell’intenzione dell’artista stesso. Ormai i sensi dell’arte non sono più sensi artistici, perché questi, appunto, sono stati tutti tolti. Allora accade che i sensi dell’arte contemporanea siano altri, e possono manifestarsi fenomenologicamente, di volta in volta, come sensi sociologici, politici, storici, ideologici, sessuali, massmediali, meta culturali, tanti quanti sono i critici che vi ragionano sopra. Questi sono i sensi che hanno sempre più invaso il campo d’azione dell’arte prendendone il posto e forse, se non è troppo tardi, bisognerebbe sottrarre un po’ di questi significati impostori per tornare ai sensi non classici, bensì autonomi dell’arte in quanto tale, di quell’arte che eteronomizza i propri contenuti in modo autonomo, dicendo da sé altro da sé, e non perché qualcun altro detto critico, dal di fuori, le dica che cosa dire.

Questa mia proposta è ben lungi dall’essere reazionaria, in quanto non prendo minimamente in considerazione un qualsivoglia, nostalgico ritorno dell’ormai desueto concetto dell’arte classica. L’arte pura, che dirne, è esistita, era l’arte “bella” di classica e neoclassica memoria (in ultima istanza, secondo Croce) ed Hegel ne ha definito la “morte” (in realtà, come gli hegelisti accorti sanno bene, egli non parlava di morte, bensì di superamento). Col Novecento l’arte non sta più lì semplicemente a darci la Bellezza con la B maiuscola: essa ci fornisce l’accesso ad altro, e normalmente non ce ne proviene che il brutto, ovvero la testimonianza storica del tempo in cui viviamo, cosa che tutta l’arte in ogni tempo ha sempre anche fornito, ma non in modo esclusivo come invece accade oggi; la differenza sta nel fatto che, nell’arte contemporanea in senso storico (e ribadisco, ora non si sta parlando del postmoderno: il postmoderno è un’idea avventizia, può esistere o non esistere, può venir considerato ma anche no) abbiamo perso il senso del bello come qualcosa d’essenziale all’arte e l’abbiamo sostituito con la concettualità, cioè con delle etichette di sensi e significati semplicemente incollate sugli oggetti d’arte. Quando la Bellezza artistica forniva, in altri luoghi ed altri tempi, stupore agli occhi ed ai sensi del fruitore, ed il suo fine era la meraviglia contemplativa, ovvero nell’arte classica e neoclassica, non c’era punto bisogno di sensi “altri” rispetto all’immediata contemplazione: non c’era bisogno di altro che della forma (pura forma, senza ulteriore determinazione). Con l’ingresso in campo dell’estetica del brutto, quando l’orrore si manifesta come contenuto, per giustificarne la fruizione da un punto di vista individuale e sociale sorge invece, nel caso dell’arte di valore, la comprensibile necessità da parte dell’artista di riconsiderare lo squilibrio fra forma e contenuto a vantaggio di quest’ultimo e, nel caso contrario della pessima arte, la bieca e strumentale necessità da parte critica di attribuire significati meta-artistici all’arte stessa. Ed ecco che l’arte, a lungo andare, nelle parole dei critici, dei fruitori e degli artisti stessi, non è più arte nel senso originario ed aurorale del termine, insomma non è più ormai da secoli “arte bella”.

Chi ancora nel Novecento ha osato una lunga e autoritaria tirata sulla necessità di tornare alla classicità è stato, occorre dirlo, quel gran nostalgico di Croce. La sua estetica, com’è ovvio, lascia il tempo che trova, nelle proprie contraddittorie applicazioni critiche, da ben più di sessant’anni. E tuttavia la sfida utopica sarebbe ritrovare la meraviglia estetica nell’arte d’avanguardia, poter dire: “assolutamente bello” laddove, invece, quel bello di cui si parla è sempre stato costituzionalmente relativo, relativo perché ormai non più estetico, bensì legato ad un meraviglioso concettuale. Hegel, a cavallo tra i due secoli, tra classicità e romanticismo, quel romanticismo che, per il moralissimo Croce, altro non era che latore della decadenza,  l’aveva capito bene quando alla fine delle lezioni di Estetica disse: “l’arte per noi è e rimane un passato”: la sua funzione latrice di bellezza in senso classico era già finita, era già nata un’altra epoca, quella della filosofia, quella del concetto, e l’arte di questo e di nient’altro doveva, già ai suoi tempi, nell’ottocento idealista, farsi carico. Dal Romanticismo ad oggi, in questo lunghissimo periodo non di vita, ma di vitalità, seppellita l’idea come anche la certezza di trovare con precisione le coordinate di una particella nello spazio, essendo morta la bellezza, se ne deve fare un’altra. Finora nel Novecento ed oltre soltanto l’elemento originariamente estrinseco all’arte, ovvero il contenuto concettuale, ha avuto sulle proprie spalle, per carità ed onere indesiderato, l’infausto compito dello stupore, ma io sto ancora aspettando un’altra forma di bellezza. E se chiunque a quanto dico avesse l’impulso di controbattere che l’arte d’avanguardia è bella, vorrebbe solo dire che non ci siamo accordati preliminarmente sulla definizione del concetto di bellezza in sé. Come dire che, quando chiamiamo “bella” l’arte dal Decadentismo in poi, cosa che, per carità, tutti quanti facciamo, stiamo operando una trasposizione semantica del termine ad un contesto che legittimamente non gli perterrebbe. L’arte del Novecento non è a rigore “bella”, bensì “interessante”, nel senso kantiano dell’inter-esse, consistendo, in sé, in nient’altro che nella testimonianza del proprio tempo. L’urlo di Munch, orrendo, angosciante, mostruoso, trova il suo immenso valore artistico e culturale non certo nella bellezza, quanto nel fatto che in esso riposa, agitando la propria coda di scorpione, l’esemplificazione di un terrificante tempo storico e la prefigurazione dell’imminente espressionismo tedesco: contenuto concettuale e semantico di tutto rilievo, ed allora noi lo chiamiamo “bello”, quando piuttosto forse dovremmo dire “mi interessa, mi piace, ci sto in mezzo perché quest’urlo parla anche di me”. Nell’arte del Novecento, insomma, è evidentemente cambiato proprio lo statuto rispetto a quel “passato” di cui parlava Hegel: il parametro di giudizio, ormai, non è quasi più la forma, piuttosto il contenuto. Ma cerchiamo di capirci: il mio non è un Urteilskraft, un giudizio di gusto. Io non sto affatto dicendo una pacchianeria del tipo che “l’arte di prima, siccome poteva dirsi bella per definizione e per statuto formale, meritava il plauso universale e quella di oggi fa schifo”. Semplicemente, indagando lo statuto dell’arte contemporanea rispetto alla primigenia istanza estetica, che è la bellezza, non si può non trarre la conclusione, del resto autoevidente e neanche di mio primo pugno (la stessa filosofia quadripartita di Croce già lo denunciava!), che essa non si fondi sulla bellezza, ma sul contenuto estrinseco della concettualità, e che quindi il suo statuto non è più estetico, bensì teoretico.

Eppure, il dubbio sta proprio in questo, se mi si consente una pruriginosa provocazione: può essere chiamata ancora “arte” qualcosa che è smaccatamente uscito fuori dal proprio campo di definizione e di applicazione, oppure, oggigiorno, bisognerebbe chiamare quel quid indefinito in qualche altro modo? In fondo la chiamiamo “arte” allo stesso modo in cui la definiamo “bella”: per estensione semantica del concetto a qualcosa che non gli pertiene. Addirittura, se pensiamo alle performance e alle installazioni, neanche la manualità gli è più propria!…

L’unica risposta che, per ora, mi sento di poter dare, è la seguente: la Bellezza perisce ogni giorno nella concettualizzazione dell’Urlo. Ogni volta che si uccide la Bellezza, molto altro vede la luce: e lo chiamiamo non a torto arte. E’ per questo che la Bellezza ormai si trova altrove. La Bellezza non si modifica, si modifica l’inter-esse. Si modifica la storia, non un sentimento per definizione sovrastorico.

 

16 pensieri su “L’urlo e la teoresi: appunti sullo statuto dell’arte contemporanea.

  1. Proprio di recente ho letto un bel saggio di Warburton, “La questione dell’arte”. Ebbene, nelle conclusioni lo stesso Warburton, dopo aver elencato le principali teorie sul “che cosa possa essere definito come arte” (quella di Bell, di Collingwood, la teoria istituzionale dell’arte…), ha affermato che non solo l’arte non è definibile, ma anche che non è per nulla utile cercare di farlo: è assai più utile risolvere un problema artistico per volta. Insomma, una vera e propria rinuncia alla domanda. Ma più rinunciamo, più la domanda torna: “Che cosa è l’arte?”. Noi, soprattutto in Italia, assai radicati all’arte figurativa, siamo chiaramente legati alla produzione artistica rinascimentale, rimaniamo a bocca aperta di fronte alla volta della Cappella Sistina o ad un’opera del Caravaggio e del Carracci. Il problema è che oggi, come giustamente tu, Sonia, fai notare, è impossibile tornare all’arte figurativa. Per una questione culturale ed anche per una questione “tecnica”, anzi oserei dire “tecnologica”. Dal momento in cui, soprattutto con il Dadaismo, qualunque cosa ha acquisito la possibilità-diritto di diventare arte, o opera d’arte, è cambiata la concezione CULTURALE dell’arte. Non è arte ciò che l’artista produce, in quanto “homo faber”. E’ arte invece ciò che l’artista SCEGLIE COME OPERA D’ARTE (e al massimo la ‘dispone’ in un certo modo). A legittimare l’opera non è la fatica, il sudore, l’emozione dell’artista che si esprime…. semplicemente un atto di scelta. Un GIUDIZIO. Punto. Marcel Duchamp ha scelto “Fountain”… ma ha scelto anche lo scolabottiglie. Non a caso questi oggetti si definiscono “Readymade”: “GIA’ FATTO”. Non c’è nessun lavoro da parte dell’artista. Nessuno, a parte la SCELTA. Differenti anche dall’Object trouvé: questo DEVE avere requisiti estetici (es. una conchiglia). Il readymade DEVE INVECE ESSERE BANALE. Certamente nei suoi readymade (nella loro scelta) Duchamp vuol rimandare ad altro…. Altro dall’oggetto. Ma a COSA? credo che in opere come il Grande Vetro o la Mona Lisa (quella con i baffi!) abbia, si, rimandato ad altro senso dall’oggetto immediatamente visibile-fruibile. Ma nel readymade COSA vuol esprimere? Forse qualcosa di personale? Forse, invece, il suo tempo? Ciò che E’ il CONTEMPORANEO? Non saprei rispondere. Ma a questo punto anche i Brillo boxes o le lattine di Coca-Cola di Andy Wahrol possono esprimere la stessa cosa. La Pop Art segue l’indirizzo impostosi con il Dadaismo: OGNI COSA, SCELTA ED ESPOSTA AD UN PUBBLICO CON FINI INTENZIONALMENTE ARTISTICI, o comunque approvata dal mondo dell’arte, Può DIVENTARE ARTE . Non bisogna dimenticare che nel Dada ci stava di tutto, anche Merzbau di Kurt Schwitters, o arte prodotta con veri e propri rifiuti ! Ancora, nel Surrealismo come nella Metafisica c’era un richiamo al figurativo e al segno, e c’era un rimando ad un contenuto più profondo, per quanto sfuggente. E’ a mio avviso con il Dadaismo e con la Pop Art che si crea la cesura. Che si rafforza ancor più nell’arte concettuale (vedi Kosuth). L’oggetto BANALE E COMUNE CHE DIVENTA ARTE. Si salvano ancora, a mio parere, nonostante orrendi e di cattivo gusto, i cavalli impagliati di Maurizio Cattelan: esiste infatti in essi almeno l’elemento della ‘manifattura’. Il ‘momento artigianale’ che costituiva ancora parte fondante dell’arte figurativa classica (pittura, scultura, architettura). Sonia, tu giustamente ti chiedi: “può essere chiamata ancora “arte” qualcosa che è smaccatamente uscito fuori dal proprio campo di definizione e di applicazione, oppure, oggigiorno, bisognerebbe chiamare quel quid indefinito in qualche altro modo? In fondo la chiamiamo “arte” allo stesso modo in cui la definiamo “bella”: per estensione semantica del concetto a qualcosa che non gli pertiene”.….? Ebbene, come vedi, è assai difficile pensare di definire cosa possa o non possa chiamarsi “arte” oggi. Ancora giustamente, richiami le installazioni…… si pensi a quelle al neon di Flavin. Una cosa è certa: l’Arte, qualunque cosa sia, si è liberata del requisito della BELLEZZA già da molto tempo.

  2. Aggiungo una piccolissima nota… mi sono accorta di non aver più chiarito quale sia la questione ‘tecnologica’ che oggi non consente più, secondo il mio modestissimo parere. un originale-genuino ritorno all’arte figurativa: da quando nell’arte è entrato prepotentemente l’impiego delle tecnologie avanzate (esposizioni industriali e Art Nouveau, optical art, installazioni, iperrealismo, per dirne qualcuna), sarebbe addirittura anacronistico tornare al colore ad olio o alla tempera, o al lavoro del marmo di Carrara con lo scalpello: il più è stato FATTO. Un Antonio Canova del XXI secolo non può nascere più….. allora, si può creare qualcosa di interessante (e forse è davvero troppo azzardato dire ‘bello’) anche con le risorse di cui si dispone oggi. Accontentandosi. 🙂

  3. un unico appunto, ma e’ piu’ una domanda che pongo sul piatto: la Bellezza non si modifica come sentimento sovrastorico “in quanto tale”, pero’ e’ anche vero che il sentimento cambia storicamente a seconda del sostrato concettuale di cui parli e che condiziona proprio le soggettivita’ che poi provano quel sentimento…

  4. Risponde Sonia Caporossi:

    Due piccole precisazioni mi sembrano d’obbligo.
    A Mariapia debbo rispondere di non aver mai inteso dire che è impossibile tornare all’arte figurativa, bensì che la bellezza come principio di determinazione dell’artistico in senso classico è passata, e che oggi il principio di determinazione dell’arte non è più il bello, ma altro: ovvero il contenuto, nella fattispecie (o tempora! O mores!) il brutto. Per tutto il Novecento ed anche oggigiorno di arte figurativa tecnicamente degna se ne è prodotta e se ne produce tantissima, com’è reso evidente dal dipinto del giovane e già immenso Giovanni Gasparro posto a commento dell’articolo. Il punto è evidentemente un altro: nell’arte classica prevaleva un’apparente armonia di forma e contenuto, che in realtà sottaceva un deciso propendere verso la prima; dal Novecento ad oggi,l’equilibrio si è invertito a vantaggio del secondo, ovvero il contenuto concettuale che ora si trova a ricoprire, spesso da solo, ma non sempre, il ruolo di bestimmungsgrund dell’arte in quanto tale. In questo senso, che si faccia arte figurativa di grande rigore e nitore formale come Gasparro fa, tramite l’esplicitazione di un neosurrealismo contenutistico allucinato e pregno di segreti semantici, è possibile, anzi, non è infrequente ed è da grande artista ancora oggi. Poi, esiste anche il domopak di Christo, che non abbisogna della classica manualità dell’artista figurativo. Il punto di contatto fra queste modalità espressive opposte è non più, dunque, la forma, bensì il contenuto (storico, sociale, morale, materiale). Quest’ultimo, ripeto, sembra dunque assurgere a nuovo statuto esclusivo dell’arte contemporanea, essendosi affacciato dapprima, in forma più dissimulata e non esclusivista, nel Romanticismo.
    La chiosa dell’articolo è un’evidente domanda provocatoria da parte mia: certo che possiamo chiamarla arte! Perchè questa è l’arte di oggi: non più fondata sulla bellezza, bensì sul suo apparente opposto. L’arte di oggi è la vera mostra delle atrocità normali in cui viviamo immersi, è la testimonianza storica e culturale del nostro tempo. I secoli passati, pervasi a livello artistico dalla perfezione formale del classicismo in senso ampio, non erano invece, da un punto di vista storico e sociale, secoli più belli del nostro. Guerre, epidemie, atrocità vigevano anche più di oggi. Si può dire pertanto che, nell’arte classica (e dico classica in senso non storico, come “movimento”, ma categoriale, come “modo”) esistesse al fondo uno scollamento irrimediabile fra la propria realtà storica e la forma artistica. Il fondamento contenutistico dell’arte contemporanea, pertanto, e si badi bene, anche nell’arte astratta ed informale, la fa maggiormente aderire alla realtà attuale, attraverso il passaggio ermeneutico del proprio significato altro, ovvero le fa permeare come un guanto le inconfessabili mostruosità che trascorriamo e di cui ci facciamo, ogni giorno, spettatori e carnefici, in forma di simbolo, in forma di exemplum metafisico come unica possibile realtà. L’immenso valore dell’arte di oggi, quindi, risiede proprio nella sua aderenza al contenuto, per quanto indicibile esso sia, cioè nella testimonianza.
    Questo mi porta a rispondere anche all’arguta domanda di Leni: non è un caso che il sentimento del bello, per Kant, vigesse su un’assurda contraddizione: era infatti, contemporaneamente, universale e soggettivo. Eppure, a ben vedere, i nostri sentimenti non differiscono da quegli degli antichi: la bellezza oggi si trova altrove, e noi ci incantiamo come un contadino dell’Attica nel quarto secolo a. C. di fronte ad un tramonto. Questo, ma non ne sono ancora sicura, mi fa arguire che la bellezza si sia ormai relegata il proprio angusto spazio nella natura, rincattucciandosi là da dove originariamente proveniva. Fatto sta che il sentimento del bello non si modifica: si modifica l’oggetto a cui l’attribuiamo. Nessun sentimento si modifica: si modifica la fruizione che ne facciamo. A modificarsi, insomma, non è la percezione soggettiva, ma la sovrastruttura socioculturale che le si fa intorno. Ecco perchè oggi, dal punto di vista della nostra cultura e società modificatesi, è lecito dire bella, anche se in un senso esclusivamente traslato ed a rigore non corretto, all’arte attuale: dal punto di vista dell’indagine filosofico – estetica, invece, le cose sono più complesse e non vanno proprio così, come ho cercato di dimostrare: preferisco quindi la metafora dell’inter – esse, come definizione precipua della nostra interazione attuale col fatto artistico.

    Spero di essere stata esauriente. Grazie dei preziosi interventi!

  5. E’ un intervento davvero denso e profondo, come nel tuo stile. Mi fa molto pensare agli ultimi testi di Pietro Montani (ad esempio “Bioestetica”), e m’interessa ancor di più in quanto tocca argomenti di cui mi sono interessato, come il grottesco e il sublime. Stupisce, poi, trovare argomentazioni così complesse, in un tempo in cui si tende a rimpicciolire la discussione per adeguarla al dettaglio: e forse per questo la tua prosa stordisce anche un po’, obbliga insomma a leggere e rileggere.
    Mi pare che in tutto ciò, c’entri innanzitutto il ruolo dell’arte (e quindi dell’estetica), e il processo che l’ha relegata sempre più nel regno del superfluo e dell’accessorio. Il discorso si complica ulteriormente, poi, se prendiamo in considerazione le sue varie forme d’espressione – se cioè ci buttiamo a indagare anche la musica, o il cinema, o la letteratura. E allora ti butto lì una domanda: forse, oggi (ma da un po’), nel sentire comune il bello è stato sostituito dall’emozionante, mentre la dimensione concettuale (e riflessiva, e quindi in ultima analisi formale) è rimasta appannaggio della sola critica, che a costo di non perdere il proprio ruolo si prodiga nell’aggiungergli sensi ulteriori (ma in fondo, poi, non è essa a sua volta una forma d’espressione)?

  6. L’arte contemporanea per me non è altro che arte, di conseguenza non mi allieta il senso della contestualità del tempo di cui si parla.Gli artisti sono naufraghi senza compagni quando vengono abbandonati dalla critica, quando escono per dolo altrui dalle grazie dei salotti della critica. Tutto sommato funziona come tutti gli altri mondi lavorativi, ti possono “licenziare”. Peccato che un vero artista sarà sempre una sorta di genio,di genius loci, di illuminato, un vate…l’impiegato sarà costretto a cercarsi al massimo un impiego più o meno simile al precedente. Si parla di mercati, si parla di mercato dell’arte, di mercato del lavoro nell’arte…questo è il problema di fondo a mio avviso. Penso che la filosofia ci possa aiutare poco a comprendere più a chiare lettere che la maggior parte degli artisti di cui conosciamo i lavori, di cui leggiamo in giro etc, non hanno una quotazione condivisa dal mercato, non sono semplicemente misurati da indici che attribuiscono un valore alla loro arte, vivono nel libero mercato che regole non ne ha, in quello spazio in cui anche un pelo di gatto che cade dalla finestra fotografato da non so chi potrebbe essere arte se qualcuno di nome importante ne scrivesse un papiro di critica dando un senso al folle voio.
    Tutto quà. La vedo nera.
    Grazie per la possibilità di riflettere su questi sottili interrogativi. Tutto ciò che penso è limitato strettamente al territorio italiano. Se parlassimo degli Stati uniti ad esempio…le logiche sarebbero fortunatamente differenti.

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    Posted on marzo 2, 2008 by Mirko Servetti i
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    Chiedo scusa fin d’ora per una certa ‘settorialità’, ma credo che questi due brani titolati “Appunti su Langue e Scrittura” possano in qualche modo applicarsi alla praxis delle Arti in genere. Dopotutto ogni “espressione” artistica altri non è che Ri – Scrittura della Scrittura.
    P.S Per correttezza: il sottostante scritto fu pubblicato alcuni or sono sul Blog, V.D.B.D.

    I

    La lingua scritto-parlata si è sempre configurata quale luogo d’azione simulata, addomesticata rappresentazione della vita, finzione al servizio del soggetto come ruolo. Il sovvertimento è nel contrapporre la propria soggettività in atto di scavalcare lingua e ruoli; una soggettività che nulla concede all’identità. Dunque, la fine della scrittura come luogo di identità, simulazione o edificazione dell’io, bensì il tema dell’invivibilità del presente in una “teatralità” oltraggiata in quanto l’atto non premette alcuna azione dotata di senso. L’irruzione di un quotidiano aleatorio quanto devastante deturpa la scena e inquina lo spirito, stigmatizza ogni possibilità di recuperare “l’anima” della letteratura nutrendosi della sua dissoluzione. Forze vitali, pulsioni, atti, appetiti, furori, brame, corruzioni, manie: tutto, infine, sembra resistere ad ogni tentativo di formulazione linguistica e di elaborazione simbolica. Il lato oscuro e indistinto dell’esistenza oppone resistenza all’essere detto rifiutando di accedere al simbolico, unica possibilità di avere cittadinanza tra i fenomeni constatabili e catalogabili e, infine, organizzabili nel linguaggio. La pulsione di morte accede illusoriamente al linguaggio mediante simbolizzazioni estetiche, civili, storiche, etiche, culturali legate al valore sociale e linguistico che la morte ha nella comunità. La pulsione di morte accede al linguaggio in quanto pulsione catalogata fra le pressioni della soggettività, analizzata/descritta nei referti del sapere, esaltata nella visione allucinata del poeta, assaporata nella paura e nel terrore riespressi verbalmente; accordata con il palese istinto alla vita, con l’ordine razionato dell’eros che presiede alla conservazione della specie, alla trasmissione di beni e valori. Ma altro è il senso della morte così “altro” che il linguaggio gli riserva il magico alone del tabù, il malessere incastonato nella parola, voce che si infrange nella strozzatura che si fa incertezza, terrore, inanità, paralisi portata dentro la lingua. L’area del “negativo”, o dell’indistinto, dell’incurabile sofferenza, dell’orrore del vivere – per – la morte, della violenza dispiegata come irruzione della follia, del male, dell’inaccessibilità all’etico, è costantemente in fuga dinanzi allo splendore rassicurante di una lingua che riesce a trasferire la parte visibile del reale nel simbolo verbale; nella grammatica che impone un ordine; nella sintassi che pone in ordine il discorso, nella enunciazione che afferma la presenza nel tempo del soggetto dietro il paravento dell’io linguistico. volere la sua morte al punto di rappresentarla e addomesticarla negli ordini dei possibili, nelle gerarchie dei valori, negli atti dotati di senso o negli eventi trasformati e legittimati nel linguaggio; l’incertezza del significato, il limbo dell’agire e del desiderare non scendono a patti con la continuità della vita, dopo la nostra morte. La rappresentazione viene sottratta al linguaggio, l’immaginazione alle convenzioni che la fanno circolare come “doppio” e sostituto della pulsione, dell’idea, della memoria dicibile, del desiderio appagabile e “solubile” nel piacere accertato e classificabile: folle sorta del divenire, illusoria concretezza del nulla. Sono le zone illimitate della soggettività, che è il tramite primo e la lastra impressionabile; nel senso che non si tratta delle parti sconfinate o ignote di essa soggettività, quanto di sconfinamenti del reale nei suoi aspetti irriducibili all’ordine del discorso e alla simbolizzazione linguistica: quel reale inquieto che è il fenomeno, l’evento, il vivente. Vivente irriducibile al linguaggio (al pre – testo), che cambia stato incessantemente e che riafferma il suo scomparire nel già e nel non ancora del divenire; in quella zona illimitata che è l’accadere fuori dell’azione concertata, il rappresentarsi nel proprio sfinimento, nel tradimento di uno svanire che infetta il linguaggio e dissemina qua e là le impronte di una differenza incontenibile per difetto o per eccesso d’essere.

    II

    Vi sono momenti in cui la scrittura, che si voleva predestinata alla comunicazione, smarrisce il proprio destino. Comincia con l’avere come un sussulto: qualcosa le impedisce di compiersi. Il suo progetto pare condannato a dover restare per sempre un abbozzo. Si innesca così un movimento centrifugo di perdita, accelerato, inesorabile, che si conclude poi con il tracollo definitivo. E’ il disastro della scrittura. Ma, al tempo stesso, la sua più viscerale emancipazione Quando il tèlos della trasmissione di un senso cessa di esercitare il suo potere opprimente, e viene messo in forse il centro di gravità in forza del quale il significato finiva per prevalere – nella forma del “messaggio”, del “racconto”, del “contenuto” – allora la scrittura si ripiega su se stessa. E in questo raccogliersi su di sé mette definitivamente fuori causa il significato e il suo indissociabile alleato: il Senso. E’ la scrittura del disastro. Irreligiosa e irredimibile: nessun legame esteriore la riduce più a veicolo di senso dato, a portatrice di significato ulteriore che, per quanto eterogeneo, si incarnerebbe tuttavia in essa deponendovisi come nel suo alveo più naturale. Non c’è più nulla da cercare al di là della scrittura. Tutto si gioca nella pura immanenza dei segni, superficie abissale. Espunto ogni Fondamento di senso (Grund) non resta che librarsi sull’abisso del Senza Fondamento (Abgrund). A quel punto un altro rapporto si instaura tra che scrive e chi legge. Scomparsa la dimensione comunicativa, la radiosa partecipazione ad un senso comune – metessi di qualcosa di ordine superiore ad entrambi, e che proprio in virtù di tale statuto di trascendenza può mettere ciascuno in “comunicazione” con ciascun altro – resta la complicità. Il lavoro del senso affonda, la seduzione dei significanti affiora. Significanti che nulla significano. Alla parola è così consentito di raggiungere il luogo utopico ove lo sradicamento da ogni sede o punto di riferimento obbligato diviene irreversibile. Impossibile, ormai, frenarne la spinta a varcare ogni confine, a spingersi sempre più oltre in un moto di incessante erramento. Verso regioni che nessun orizzonte può contenere, e nessuna demarcazione racchiudere entro i termini di un territorio circoscritto una volta per tutte. Se c’è esilio dal senso, dalla rassicurante dimora in cui la parola riluce, e si dà esodo verso oltre ed altro – senza Nostalgia – allora alla parola si dischiude l’altro versante. Dimissionaria dal Senso, essa si svolge allo spazio del Neutro. Dall’Uno all’Altro. E inabissandosi nella Notte in cui risuona il silenzio delle sirene, ritrova la propria estrema prossimità alla morte. Zona insituabile, sottratta ad ogni coordinata spaziale. Vuoto vertiginosamente spalancato su se stesso. Ed è ancora un rapporto di complicità quello che pare stabilirsi tra la parola ed il suo sfondo silenzioso: la pagina bianca, che nulla dice di per sé, destinata com’è a fare da muto supporto al segno che su di essa si (i)scrive, in un tacere estraniato in rapporto a un discorso che pare svolgersi altrove. E tuttavia ineliminabile presenza/assenza, allo stesso modo in cui il silenzio è lo sfondo necessario sul quale la voce deve potersi stagliare affinché qualcosa si oda. La pagina bianca e il silenzio intrattengono una relazione essenziale in ragione della loro indifferenza da ciò che sul loro corpo si (i)scrive. Ritraendosi nella quiete del loro esser muti consentono alla parola di prendere la parola. Un tacere che acconsente. Assenso intriso di assenza. Ma un tacere ben lontano da ogni mutismo. Tacere risuonante nella complicità tra parola e silenzio, che barluma nel segno imbevuto del bianco della pagina. Arrischiata nello spazio mortale del Neutro, la scrittura ormai fuoriuscita dall’ordine del Mondo si inerpica nel silenzioso versante della pagina. Un altro luogo emerge. Sul cui suolo la catastrofe celebra il suo festoso sacrificio: gaia scrittura del disastro

      1. E’ chiaro che il testo da me postato sia in gran parte “viziato” dalle frequentazioni e dal gusto soggettivo. Sì, certo, molto Blanchot, una spolverata di Derrida… Richiamerei per certi aspetti anche Deleuze. Inoltre, il testo non ha voluto affatto porsi in termini di improbabile contradditttorio, bensì quale sottolineatura in forma di omaggio al profondo scritto di Sonia. Grazie.

  8. Certamente; per me, poi, Blanchot è il benvenuto, così come Derrida, in funzione di stimolo decostruttivo alla riflessione. Deleuze, invece, per motivi di incoerenza ed incompatibilità teoretica che non sto qui a sottolineare, mi ha da diverso tempo rotto il…Rizoma. 🙂
    Ti ringrazio, caro Mirko, del prezioso e pertinente intervento e ti invito a seguirci per i prossimi articoli, che spero possano interessarti e stimolare un nuovo acuto dibattito, come è accaduto qui anche grazie a te.
    S.C.

  9. Ma come si fa a continuare a scrivere di arte ancora con questo critichese incomprensibile, astratto, neutro. Liberiamo l’arte dai critici

  10. Articolo bello e denso, nel quale ritrovo molti elementi di convergenza. Sull’opposizione fra simbolo e segno semiotico – non mi stanco di segnalare (con valenza corroborante) questo magistrale articolo di Kuspit http://www.artnet.com/Magazine/features/kuspit/kuspit4-20-01.asp
    Se devo proprio fare una critica, non mi risulta sempre chiaro, in questo articolo, a che cosa ci si riferisce quando si parla di “arte”: fra le pompose narrative dominanti intrise di marketing e la dimensione esistenziale dei singoli (e in realtà innumerevoli) artisti, penso corra uno spazio che richiede parecchie attente articolazioni, ad esempio i faticosi distinguo fra “procedimenti” operati da Renato Calligaro, ma anche le correzioni in senso anti-metafisico di Bourdieu.

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