
Di ANTONELLA PIERANGELI
… Così l’anima inventa le parole
Un poco detestabili. Ma il sole …
Sandro Penna
Nonostante abbia attraversato più della metà del Novecento, snodandosi per circa un quarantennio, quella di Sandro Penna è un’opera che resta ancora assente dalla propria storia. I tentativi critici di rintracciare uno sviluppo interno al corpus penniano – Penna è infatti shakespeariano, non ama la dialettica – sono troppo spesso condizionati sia dalla natura stessa di questa poesia, ossessivamente monotematica ed esemplare di un monolinguismo lirico nel quale sembra essersi esaurita una volta consumata la grande tradizione del petrarchismo, sia dalle difficoltà oggettive di ricondurre i singoli testi entro una cronologia attendibile.
Quando si consideri la produzione lirica di Penna nella sua totalità, non vada trascurato che se tutti questi elementi (lingua, stile, struttura) congiurano contro qualsiasi criterio di collocazione storica, questo si verifica anche secondo un’intenzione autoriale che, in questa prospettiva, ci autorizza a leggere le Poesie, almeno a partire dalla prima raccolta organica del 1957, come un macrotesto anepigrafo, anche se non come un vero e proprio “canzoniere”. I grandi modelli del canzoniere sabiano o del “libro” montaliano, peraltro storicamente vicini al Penna degli esordi, non sembrano aver lasciato tracce visibili sull’organizzazione dei testi penniani, spesso affidata a cure esterne; del resto, anche nel caso di Montale, l’idea del libro poetico si è maturata in fieri e il solo esempio concreto, tra quelli frequentati dall’apprendista Penna, resta appunto il Canzoniere del 1921, sopravvissuto alla stagione del frammentismo. È innegabile tuttavia che la suggestione petrarchesca possa aver giocato un ruolo non trascurabile, in questa direzione, ma senza una diretta consapevolezza. Se il giovane poeta chiude alle prime pagine i Fragmenta dell’aretino, ciò accade per una sorta di transfert di marca tutt’altro che stilistica, ovvero per il riconoscimento di quella arrovellata sospensione che Penna tradurrà presto nella sua peculiare dinamica di desiderio e incanto. Così, una volta congedate, le singole raccolte non sembrano aver assunto agli occhi del loro autore un’intrinseca uniformità, al punto da dover intercalare, nel corpus completo, ampie sezioni di poesie inedite o ritrovate, la cui vicenda resta fortemente intrecciata a quella dei titoli a stampa.
Quando si parla di macrotesto, non si intenda rigidamente una struttura organica cui nulla può essere sottratto, pena la rottura degli equilibri; la stessa conformazione testuale ed editoriale della poesia penniana rimanda ad una nozione più ampia, dove l’uniformità di stile contemperi alcuni filoni tematico-espressivi a loro volta intrecciati e non privi di una eloquente reciprocità. Ciò che pertiene al piano denotativo reca in sé l’impronta di una pulsione primaria, che è il sigillo della straordinaria unità di questa poesia. Così, accanto ai tòpoi del viaggio, dell’ossessione amorosa, del desiderio del desiderio, della fascinazione destinata a non attuarsi se non nella dimensione di un confuso sogno, di una strana, gioiosa follia fortemente interiorizzata e sempre “lontana” rispetto al mondo delle passioni concrete – come è l’amore di un sogno e non il sogno di un amore – non sarà difficile individuare una venatura metatestuale (un abyme nell’abyme del desiderio: “Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo / che il mio bianco taccuino sotto il sole“.
Dalle poesie giovanili ora raccolte in Confuso sogno, alla raccolta d’esordio e oltre, Penna coltiva una sottile quanto esplicita riflessione intorno al proprio scrivere versi, per la quale l’artificio letterario si stempera nella naturale scorrevolezza della vita sensuale, nella sua reiterata e compiaciuta empiria (“Sempre fanciulli nelle mie poesie!“), ma sempre entro il limite di una potenza che non può trasmettersi sulla pagina come atto definitivo. Ricordo e desiderio restano pertanto i cardini di un’ispirazione che sembra romanticamente “discendere” come frutto di un genio inquieto e confuso, e che invece ribadisce, novecentescamente, quella condizione di separatezza e di lontananza, radice dello “psicogramma” penniano: “Sempre affacciato a una finestra io sono, / io della vita tanto innamorato. / Unir parole ad uomini fu il dono / breve e discreto che il cielo mi ha dato“; “Dal chiuso libro adesso approdo a quella / vita lontana. Ma qual è la vera / non so“.
Nel vasto cantiere degli anni Trenta, in quella zona rimasta ai margini dell’eredità simbolista e piuttosto immune dalle tentazioni analogiche del moderno, non sarà azzardato rintracciare richiami di una diversa sensibilità parimenti condivisa da una raccolta come Lavorare stanca; ma laddove Pavese, sulla base di una comune tendenza alla diegesi, istituisce una mitografia, Penna traduce un’antitesi radicale in una dialettica esistenziale ancor prima che letteraria, destinata semmai a sintetizzarsi solo attraverso la poesia, ma ancora visibile attraverso le innumerevoli tracce ossimoriche. Se di narrazione si è parlato, è per verificare come nel registro di Penna giunga al suo limite, corrodendosi, la lingua della tradizione, che filtrata attraverso i modelli recenti di Carducci e Pascoli s’incunea nella modernità perdendo il suo carattere dominante di astrazione dal flusso della storia. Nel monolinguismo delle Poesie, dove spesso si ripetono sintagmi designati a veri e propri moduli espressivi, a sigle, l’hic et nunc di matrice leopardiana afferma se stesso restituendo questa scrittura ad una temporalità ancora assente dal grande referente petrarchesco. Nel lessico umile degli operai, dei moderni mezzi di trasporto, degli orinatoi dove l’eros si elegge a mistero, il quotidiano desiderio e la sua ostentazione, la sua compiaciuta leggerezza, parlano il linguaggio della realtà storica attraverso il tono melodico di una pulsione sempre uguale a se stessa, autoriflessiva e mai smentita e, proprio per questo, “confusa” e astratta: “Forse l’ispirazione è solo un urlo / confuso […]”; “L’amore di se stessi non è forse un sogno / vissuto ad occhi aperti per le strade?“.
Questa dimensione del sogno-sonno confuso, del velo sensuale che riveste il concreto e lo rende irrimediabilmente lontano dalla pervasiva fluvialità amorosa di Penna – la cui consapevolezza ricade per intero sul soggetto lirico – rappresenta uno dei due poli entro i quali si contiene lo psicogramma a suo tempo individuato da Pasolini. Il carattere “ipnotico” o per certi versi “afrodisiaco” della poesia penniana, come ebbe a definirla Montale, è direttamente consequenziale all’ipnosi dell’esperienza; letteratura e vita si pongono su uno stesso piano, ma contrariamente agli ermetici, è sempre il secondo termine a trascinare e corrodere il primo. Alieno da una condizione di letterarietà, il dettato penniano si svolgerà senza aperte soluzioni di continuità fra il vissuto e la pagina scritta, ma con il viatico di alcune, fondamentali mediazioni che appartengono ormai alla storia di una formazione autodidatta ed eterogenea, con visibili ascendenze europee, tutt’altro che indagata. Con ciò si considerino i diversi livelli dell’intertestualità penniana, dal calco alla citazione, alla riscrittura all’imitazione, al fondo di un’assimilazione e di una proteiforme identificazione, che allo stesso modo compongono un Bildungsroman solo parzialmente registrato nei diari e negli appunti in prosa inediti.
La letteratura è, per il giovane Penna, l’occasione per ampliare e chiarire i confini di un modello antropologico, entro il quale il suo vitalismo sensuale possa infine riconoscersi alla stregua di un percorso espressivo-conoscitivo; la letteratura (in particolare quella che si snoda dal romanticismo tedesco e inglese al tardo simbolismo francese) si fa strumento di nominazione e agnizione del presente. Se il mondo dei fanciulli e la sua poesia sono tutt’uno, l’eros penniano si diffonde sia da una dimensione empirica che dalla letteratura che lo individua. L’ascendenza culturale ha quindi indirizzato – e altresì cristallizzato – l’originario, indifferenziato moto platonico di eros e armonia, di laica comunione con l’Essere (che il poeta mutua dal sostrato della spiritualità umbra) verso una pulsione di incessante placabile solo nell’attimo – brevissimo ma non irripetibile – di una rivelazione epifanica, che si accompagna all’apparizione del dio-fanciullo. Quel che ancora una volta si rende visibile, però, è l’ineluttabilità del desiderio: “Sole senz’ombra su virili corpi/abbandonati. Tace ogni virtù. Lenta l’anima affonda – con il mare – / Entro un lucente sonno. D’improvviso balzano – giovani isolotti – i sensi./ Ma il peccato non esiste più.”
Penna è stato il solo poeta italiano che abbia parlato a gola spiegata, in aperto contrasto con il nichilismo montaliano, in bilico tra un’espressione panica e solare dell’io e una regressione nell’infelicità e nel mistero, attingendo direttamente dal vissuto, riducendo a pochi suoni inimitabili una tastiera letteraria fatta di combinazioni miracolose di grazia visiva, pennello impressionista, traduzione “greca”, stile narrativo, canzonetta sentimentale. Il tutto ammantato da una gioia misteriosa, uno scintillio moribondo, che brilla nella solitudine che come “un dolore, m’inonda”: la gioia di sentirsi anonimi, liberi e soli. Forse solo Charlie Chaplin, e nessun altro, è riuscito a rappresentare la solitudine e la felicità dell’uomo, nel mondo moderno, con la stessa intensità anonima di Penna, poeta dalla grazia antica, sapienziale e drammatica. Il suo spirito è religioso e ateo insieme : una sorta di paganesimo esistenziale e incantato che cerca di trovare, nelle strade popolate di angeli-fanciulli, la cifra di un mistero che neanche lui vuole realmente si scopra del tutto. Penna chiede solo di vagare “col suo bianco taccuino sotto il sole“, porsi come un “registratore” di eventi altrimenti ricusati, dal resto del mondo. Ciò che gli altri suoi simili, da lui diversi, considerano futile, nemico d’ogni progresso, Penna lo elegge quale responso divinatorio: la risposta che gli déi misconosciuti possono dare alla sua domanda d’amore, angosciata eppure calma, quasi sorniona. Penna non giudica, non complotta, non si sottomette, né fuoriesce (perché non v’è mai entrato), dalle logiche di potere di questo mondo di umana-inumana burocrazia. Semplicemente lo rifiuta come un mondo insignificante, volgare e anche un po’ ridicolo. Impenetrabile, infantile idolo col volto coperto di rughe che, biascicando parole, tesse lodi alla numinosità fisica del mondo: “Qui brucio la mia vita” senza averne niente in cambio, perché “Più vivo di così non sarò mai”…
La vita, Penna lo pretende, può ancora meravigliarlo, fare di lui l’apostolo laico dell’amore: colui che serba ancora uno sguardo incantato, lietamente drammatico, rispetto alle cose che, all’apparenza, guarda con distrazione. L’appagamento fisico è, in questo caso, solo una parentesi, un accidente. Non è richiesto, quale completamento d’un disegno “divino” che vede il poeta martire di se stesso e della propria assoluta libertà. Ma un martire felice, cinicamente felice, che non chiede altro e non fa un passo indietro alla propria religio, ma vi si abbandona con la purezza del fanciullo o dell’animale; sempre con una domanda inappagata, un vuoto da riempire, uno scarto alla propria felice dannazione: “Mi adagio nel mattino/di primavera. Sento nascere in me scomposte/aurore. Io non so più/se muoio oppure nasco.”
Nel cieco carcere che è ormai l’immensa residenza di tutti, siamo incapaci di vivere, ridotti a sognare la vita come un privilegio che non ci appartiene, una liberazione impossibile. Smarrita l’innocenza, la possibilità di un rapporto di felicità naturale con le cose, siamo costretti a spiare la vita nel male, nell’infrazione libidica. Qui, appunto si rivela la “classicità” di Penna: poeta straniato dalle armonie naturali, capace di vivere “la malattia della vita” nei modi della salute, con uno splendido abbandono da sano, respirando il proprio male a pieni polmoni e percorrendolo come un sentiero di montagna.
Nessun poeta è più dentro questa “storia” di Penna, nessun altro poeta ha saputo meglio di lui descrivere come è fatta la vita anonima e piena di un sommesso scoramento di una nazione come l’Italia, vista da un treno gelato che fugge nella campagna o frequentata nei vicoli infetti di Milano o di Ancona. Un paese sprofondato in dagherrotipi avorio, tram, biciclette, osterie, spiagge sperdute, scompartimenti di terza classe, casette appena intonacate e una luce che all’alba ferisce le palpebre, discostando la disumanità del risveglio dalla separazione e dall’esilio del sonno. Tutte queste illuminazioni, di una tenerezza straniata e straziante non sono altro che signa di uno stato di grazia fulminante, stanata da un tempo impreciso e lontano, fissata nella durata di uno scatto. Nella loro impercettibile alternanza, infatti, questi oltraggi di luce sono sempre pronti a tornare nell’ombra da cui provengono o, per meglio dire, non potendo durare più di un battito di cuore, tendono a fissarsi in strutture di breve respiro strofico, come dei falsi epigrammi: “Arso completamente dalla vita/io vivo in essa felice e dissolto”. Per dirla con Magrelli, in Penna è sempre come se il fregio nascondesse lo sfregio …
All’inerzia della realtà, Penna oppone la presenza e la resistenza ossessiva della divinità del “desiderio” – insieme al “sole” altra sua parola tematica – come energia che insegue il piacere e lo fa sfavillare. Realtà è dunque intermittenza del cuore ma soprattutto epifania sensuale e mistica di un desiderio che si sostituisce all’inerzia e infonde di nuovo vita alla “foglia accartocciata”. La vita arde, brucia senza residui: è quello che, soprattutto, immobilizzati nella realtà, invidiamo a Penna. Egli canta “l’amore della vita”, il “quasi urlo di gioia” di fronte al mare “tutto azzurro e tutto calmo”, la vita che somiglia “al fanciullo che corre lontano” mentre con lui cammina, solitaria e tranquilla, la felicità e si sente di amare “ogni cosa nel mondo” in una festa di parole. La laus vitae penniana esalta la divinità della libido, piccolo mito solare, superbo, strappato al destino e insediato nei suburbi del sottoproletariato. Dove l’eros sfavilla radioso, il peccato non esiste più e Penna si comporta come un arcaico essere naturale, in un luogo e in un tempo capaci solo di meravigliarsi di una vita così antica, così ritirata nell’ombra, dopo “le solari gesta” e “le solari prodezze” del giorno.
Nel mondo di Penna, il mondo della trasgressione, l’io si sente potente, onnipotente, come se la sessualità agisse da droga: “Felice chi è diverso…” nella bellissima quartina, sembra aver inscritto la propria verità. La diversità di Penna è disumanità che sa fare radioso il peccato, senso della presenza di sé divina e indifferente nel mondo, che si espande quanto l’energia che insegue. Questa diversità monocorde e cantata fino al parossismo, è ebbrezza, è randagismo vitale di un superomismo inoffensivo. Le soste nelle sale d’aspetto delle stazioni, la frequentazione degli orinatoi, delle losche platee alla ricerca di angioletti maliziosi, di sguardi lustri e occhi in cui solo scoprire, confuso all’innocenza, il lampo verde della ferocia, della libidine. La conferma della vita e la sua certezza.
Ma Penna è anche un uomo ferito, sofferente e quando la libido svanisce ecco il risveglio, la caduta: “livida alba, io sono senza dio” e soprattutto “la vita … è ricordarsi di un risveglio triste/ in un treno all’alba”. La disappartenenza all’umano si scopre solitudine, oppressione intollerabile di un “mortale mattino”. La diversità non era che il sogno di un prigioniero: la definizione magistralmente candida di uno stato della coscienza in cui la disumanità è una separazione permanente, un esilio. Il risultato è la duplicità di un rapporto con la vita aperto come le labbra di un sorriso più osceno di una piaga. Penna è infatti prigioniero del proprio trauma, in un delirio lontano dalla realtà, prigioniero del proprio sogno, sopraffatto da tetri, dolorosi, periodoci risvegli. Un personaggio in fuga, di vitalità fallica ribelle ad ogni ricatto affettivo, “mostro da niente”, pervaso da libido antigenitoriale in cui desiderio e trasgressione non possono non coincidere. E’ qui che si attua quel suo respirare il male a pieni polmoni, la droga che conferisce alla poesia di Penna il florido aspetto della salute e della leggerezza, la sua “gioia storta”che non si stanca di osservare, perché non può concepirne di diverse. Come in un disumano, attualizzato, mito platonico, immagini colorate passano davanti agli occhi del poeta prigioniero, tenuto fermo nello scantinato, in cui vive come in un delirio, la sola possibile vita che gli è concessa. Una “strana gioia di vivere” pervade e poi suppura l’ascesso penniano: come direbbe Bigongiari “ un fiore senza gambo visibile”, indifferente alle virtù poematiche dei poeti laureati, nume assorto e indifferente, segnato da quella che Garboli chiamerà la “gratuità penniana”.
Un segreto “il suo bianco taccuino sotto il sole”, epifanico registro dello splendore del mondo, visto nell’ossessivo piano sequenza di un angusto pozzo esistenziale, che si rovescia misteriosamente in inesplicabili improvvisi di gioie esplosive. L’ipnotica liberazione dal peso della parola, si compie in Penna con straziante leggerezza, si irradia in barlumi di memoria, intermittenze del cuore, così diversi da quelli puramente teoretici resi famosi da Montale, poeta inaccessibile ad ogni libido che non sia quella dell’intelligenza. In questo consiste la difesa di Penna da una vita, altrimenti non sopportabile, e la molla che fa scattare la sua poesia. Gli oggetti del mondo, prima raccolti oscura mente su se stessi, sfavillano investiti da una scarica libidica, si epifanizzano, proiettandosi per le vie dell’immaginario in infinite possibilità di predicato.
Una suprema armoniosa capacità di “grazia”, tanto ineffabile quanto inspiegabile, un modo di sigillare la poesia impastandone i costituenti fonici con la feroce anonimia delle immagini del reale, nello straniante nesso di uno sguardo che possiede una infinita, naturale e misteriosa capacità epifanica, la stessa che fa dire a J. Ruskin “anche dagli oggetti più impoetici ci si può sollevare alla contemplazione di almeno un grado della bellezza”.
(Immagini tratte dal film Umano non umano di Mario Schifano, 1971)
Bella. Va bene. Concordo.
E’ un piacere rileggere A.Pierangeli, dai suoi articoli oltre alla profonda conoscenza emerge con eleganza la passione per le cose che scrive. E’ valsa la pena aspettare!
“Vivere è per amare qualche cosa…”S.Penna
Ho letto lo scritto apprezzando intanto la scrittura e vivendo però ogni frase nell’attesa di una qualche analisi critica dell’antropologia che metteva in luce. Quando poi tale analisi l’ho vista arrivare puntualmente, nella seconda parte dello scritto, e ne ho sentito anche la inevitabile durezza, ho provato un sentimento di compimento e di trasparenza, ma umanamente mi è anche un pochino dispiaciuto. La critica impura ha compiuto il suo gesto. Ed “oscura mente” è bene che così fosse. Può però una poetica così scoperta sostenere il fatto di essere così umana? Montale certamente si protegge molto di più. Da genovese posso dire di aver visto molte persone come Montale; che poi gli ‘orsi’ come lui siano solo e puramente legati a tratti ‘intellettuali’, è tesi che rischia di non giovarmi e quindi spero proprio che non sia vera (e dentro di me mi sembra non vera). Naturalmente non arrivo a identificarmi né in Montale né in Penna, e vorrei permettermi anche un po’ di scherzare. Ti ringrazio molto anche dei video di cui avevo già sentito parlare.
Forse è opportuno che precisi; quanto ho scritto è copia di quanto ho scritto ieri, a caldo, a Sonia Caporossi, dopo che mi indicato ‘Intermittenze’. Mi rivolgo ora ad Antonella Pierangeli: bellissimo scritto, cercherò con interesse altri suoi interventi su Critica Impura. Un cordiale saluto, Francesco Denini
Ti ringrazio per il commento competente e ricolmo di sensibilità letteraria. In parte sono d’accordo con te sulla sensazione di attesa suscitata dalla prima parte dell’articolo; mi ripropongo di dare maggiore omogeneità all’analisi penniana dato che questo studio è destinato a divenire un saggio critico molto più corposo e di prossima pubblicazione. Forse questo doppio livello da te rilevato nello scritto è dovuto al fatto che vi coesistono due anime: quella del filologo e quella del critico letterario scarnificato, quale io sono. Grazie ancora.
Cordialmente,
Antonella Pierangeli
Bella e intensa la recensione, ricca di nuovi spunti per incontrare un grandissimo poeta: Sandro Penna.
Bella anche la scelta del film di Mario Schifano riprende il poeta della strana gioia di vita, una ripresa fedele all’uomo, per questo intensa, senza alcun artificio. Grazie
Luigia Sorrentino
Davvero un bel blog che ogni tanto sono passato a trovare…
Proprio dall’eros possiamo ripartire, come stimolo e forza di cambiamento! Ne parlo su Vongole & Merluzzi delle cose che non capisco…della necessità di un cambiamento…
Spero avrai modo e tempo di ricambiare la visita 😉
http://vongolemerluzzi.wordpress.com/2011/05/17/kose-che-non-kapisko/
Grazie per il bell’articolo di Antonella Pierangeli, merita di essere letto con la stessa intelligente attenzione con cui affronta il “mistero” Penna. Se posso complicare il quadro, citerei una poesia del nostro che sta al centro (qui decisamente filosofico) del mio errante indagarlo. Ha per titolo “Guardando un ragazzo dormire”: “Tu morirai fanciullo ed io ugualmente. / Ma più belli di te ragazzi ancora / dormiranno nel sole in riva al mare. // Ma non saremo che noi stessi ancora.”. E’ quanto di più stimolante abbia letto in rapporto al fare i conti con la morte.
Grazie ad Antonella Pierangeli per la lucidità dell’analisi critica e per lo stile impeccabile e personalissimo dell’interpretazione. Questo tipo di critica letteraria rende ancora più intenso e imprescindibile lo slancio ermeneutico del lettore e dello studioso nei confronti del testo poetico. Sandro Penna e il mistero della poesia: in un tempo di vacche magre e di sterili polemiche sul nulla (vedi Carabba e Ostuni) qualcuno ci ricorda ancora come bisognerebbe affrontare un testo e la sua complessità. Grazie.
non voglio polemizzare, ma quasi tutto già letto altrove… Garboli in primis